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Renzi e il governo Conte II

https://www.lastampa.it/politica/2021/01/13/news/italia-viva-ritira-i-ministri-si-apre-la-crisi-renzi-la-crisi-politica-non-e-stata-aperta-da-noi-ma-e-aperta-da-mesi-1.39768752

Renzi è entrato controvoglia nel secondo governo Conte. La sua partecipazione al governo e il governo stesso furono il frutto dei grandi errori dei due Matteo della politica italiana. Salvini staccò la presa al primo governo Conte pensando di andare all’incasso attraverso elezioni anticipate. Renzi aveva appena fondato Italia Viva (per la verità sempre moribonda) e non si aspettava elezioni a breve. Contava di rafforzarsi facendo opposizione al governo giallo-verde ponendosi come polo di attrazione dei moderati. Renzi aveva permesso la nascita del secondo governo Conte solo per dare tempo alla sua creatura politica di rafforzarsi incapace di presentarsi al voto mancando di organizzazione, uomini sul territorio e visibilità. E’ chiaro che Renzi non voglia andare alle elezioni anche ora. Secondo me la sua mossa si basa su due considerazioni:

– Il governo non cade e arrancherà fino alla fine della legislatura. Punta sul fatto che tanti parlamentari siano disposti ad entrare in maggioranza (costruttori o responsabili come li vogliate chiamare).

– Stare all’opposizione gli permetterebbe di assorbire i voti dei delusi del governo e i voti dei moderati del centrodestra stanchi della retorica Salvini/Meloni(il suo grande sogno).

Il suo progetto è creare una forza centrista che rompa l’attuale bipolarismo e diventare centrale nella prossima legislatura quando un’Italia viva oltre il 5% diventerebbe centrale alla formazione di un governo. Inoltre sganciandosi dalla maggioranza, pensa di avere un ruolo maggiore quando si eleggerà il presidente della repubblica nel 2022. Se si andasse al voto a giugno Renzi perderebbe tutto e la sua uscita dalla maggioranza sancirebbe la sua morte politica. Sarebbe il “capolavoro politico” di un mediocre narcisista politico di provincia. L’uscita dalla maggioranza apparirebbe come l’ultimo disperato bluff di un giocatore di poker che ha cercato di rimanere al tavolo di gioco.Anche se Conte riuscisse a rimanere a Palazzo Chigi, non credo che la sua mossa lo aiuterà a rimanere rilevante nella politica italiana. Lui è ancora annebbiato dal quel 40% e sopravaluta la sua capacità di attrazione. I delusi del M5S o del PD preferiranno astenersi piuttosto che votarlo. Per buona parte del PD è visto come un uomo di destra (tanto è vero che e rimasto al 2% praticamente ignorato dai suoi ex elettori) mentre gli elettori del M5S hanno fatto dell’anti-Renzismo uno delle loro colonne ideologiche. Anche attirare i voti della destra è illusorio come giá discusso in precedenza. I moderati non esistono piú. Il centro destra si è radicalizzato su posizione estreme frutto di una politica a uso e consumo dei social che mira alla rabbia della gente. La sua unica speranza potrebbe essere proprio la fine di Berlusconi ma dubito che gli innamorati di Silvio passino senza colpo ferire a un politico che proviene pur sempre da un partito “comunista”.Ancora una volta la politica italiana è animata da giochi politici di piccoli Machiavelli di provincia mentre il mondo cambia in maniera veloce lasciandoci indietro.

Trump, brogli e radicalizzazione della classe media

Ormai è chiaro che le elezioni americani non presentano brogli alla luce delle ritirate alla chetichella degli avvocati messi in campo da Trump e dalle relazioni dei vari uffici elettorali. Perché dunque Trump si ostina a dire che ha vinto? Perché parlare di brogli?

La prima ragione ha a che fare con il carattere del personaggio. Il suo narcisismo patologico non gli permette di essere un “loser” dopo aver passato anni a dare del “perdente” a mezzo mondo. Questa ragione la possiamo lasciare ai psicologi e a chi gli sta vicino. Non dovrebbe essere facile vivere con un tale personaggio.

La seconda ragione  è piú politica e mette in crisi la maniera con cui Trump ha costruito prima la sua fortuna imprenditoriale e poi politica. In tutta la sua vita, Trump ha proiettato un’ immagine di se che raramente corrispondeva alla realtà. Anni fa fece di tutto per entrare nella lista Forbes dei piú ricchi anche se non meritava di essere in quella lista. Il fatto di essere preso in considerazione dalla rivista, gli ha permesso di concludere affari e avere agevolazioni dalle banche. Da un punto di vista politico, la sua immagine di ricco e vincente ha fatto presa su una larga fascia dell’elettorato soprattutto della classe media (in Italia ne dovremmo sapere qualcosa). In tutti i suoi discorsi presidenziali, Trump ha sempre messo la sua persona al centro: “come sono bravo”, “nessuno ha fatto come”, “sono il migliore” etc. Gli elettori votano in base alle loro aspirazioni e in base alla cultura dominante. In un contesto culturale (soprattutto in America) dove la ricchezza e il successo sono le stelle polari, si vota Trump perché incorpora questi valori. In psicologia c’è uno strano fenomeno chiamato “basking in reflected glory” che nel mondo sportivo si manifesta con il tifo per le squadre vincenti:. tifo una squadra che vince in maniera da sentirmi anch’io un vincente. Ammettere la sconfitta significa allontanare da se tutti coloro che si “riflettono” in Trump e che non possono sentirsi piú vincenti. Ricordate il famoso discorso di Trump di 4 anni quando prometteva agli americani che sarebbero stati stanchi di vincere sempre con lui alla presidenza? Questa è un’altra ragione per cui ha tenuto nascosto la sua dichiarazione dei redditi per anni. Scoprire che non solo non è cosi ricco come la gente crede ma è pure coperto di debito, avrebbe rappresentato un duro colpo alla sua immagine e dunque alla sua politica costruita tutta intorno al mito di Trump. Un mito che mal si concilia con la realtá.

La terza ragione riguarda il futuro del partito Repubblicano. Il continuare a dire che ci sono stati brogli, ha l’effetto di radicalizzare gli elettori intorno alla figura del presidente. Con gli elettori repubblicani stretti intorno all’ex presidente in un clima di risentimento rende difficile per il partito repubblicano la possibilità di prendere le distanza da Trump. La radicalizzazione obbliga tutti i repubblicani (anche i moderati) a tacere o a prendere le stesse posizioni di Trump per non rimanere isolati ed esclusi nel partito che diventa sempre piú estremistaa. Tanto estremista da aver eletto al Congresso una sostenitrice di QAnon. Gli ultimi 4 anni hanno visto un cambiamento sostanziale del partito repubblicano sempre piú schiacciato sulla figura dell’imprenditore newyorkese e sempre piú lontano dai quei valori che costituivano la struttura ideologica del partito dell’elefante. L’obbiettivo di Trump è mantenere il controllo del partito, non solo per ricandidare lui o candidare uno dei suoi figli nel 2024, ma soprattutto per politicizzare i problemi giudiziari che avrà in futuro. Noi in Italia dovremmo sapere qualcosa. Il partito repubblicano rischia dunque di diventare un partito personale.

Il passaggio di potere all’interno di una democrazia non è solo un momento ma la ragione d’essere di una democrazia che rimane l’unico sistema che permette l’avvicendamento al governo senza violenza. Piú questo cambio al potere diventa caotico e carico di risentimento, piú malata sarà le democrazia. Meno fiducia c’è nel sistema elettorale, piú profonda sarà la spaccatura all’interno di una società. Piú spaccata è una società, meno stabile sarà la democrazia. Il gioco di Trump, fatto a suo uso e consumo, rischia di avere un impatto profondo sugli Stati Uniti dove le differenze tra i due partiti non sono mai state ampie. Siamo sicuri che le istituzioni americane siano in grado di gestire una frattura profonda all’interno del sistema politico? In un sistema dove vige lo “spoil system” dove chi vince prende tutto dando ai propri amici tutto (dai vertici delle agenzie federali agli ambasciatori), sarà possibile per le minoranze politiche tornare al potere?

La questione è ancora piú preoccupante se pensiamo ad un fenomeno che riguarda tutte le democrazie occidentali e non solo gli stati Uniti: la radicalizzazione del ceto medio. La democrazia si basa sul consenso della classe media che fondamentalmente è una classe sociale poco avvezza al cambiamento e che trova nella democrazia la possibilità di conciliare il governo con la garanzia delle proprie libertà. Il fascismo è stato spesso visto come ideologia delle classi medie che impoverite dalla guerra e minacciate dall’organizzazione delle classi popolari attraverso i partiti socialisti hanno trovato il fascismo la propria ancora di salvataggio per evitare il cambiamento. Trump non è l’alfiere di un nuovo fascismo se per fascismo abbiamo in mente il modello dei primi decenni del secolo scorso. Trump come il fascismo di allora è la rappresentazione di quella radicalizzazione del ceto medio sempre piú piccolo che si sente minacciato dalle minoranze, dalla globalizzazione, dal ruolo sempre crescente delle donne in società etc. il tornare indietro non è un programma ideologico per il futuro, fermare il tempo non è possibile ma può essere sfruttato abilmente dal politico di turno anche attraverso slogan efficaci come il famoso “Make America great again”. Dove per “again” s’intende un tornare ai vecchi bei tempi dove il maschio bianco della classe media aveva il potere e gli altri erano per ubbidire. Non potendoci essere un vero programma basato sul tornare indietro, la politica si riduce all’affermazione dell’uomo forte e all’idea di uno stato forte che faccia sentire la propria forza nei confronti di tutti coloro che vengono visti come minaccia ad un ordine che spesso non è altro uno stato di privilegio. La classe media invece di adottare un programma che permetta di gestire il presente e preparare il futuro non può far altro che affidarsi al salvatore della patria perché mossa da un individualismo borghese poco propenso alla partecipazione politica. Questo è sfruttato ampiamento da chi detiene il potere economico e finanziario che riesce a portare dalla propria parte la classe media in contrasto con quei movimenti che chiedono maggiore giustizia sociale. Non è un caso che la radicalizzazione della classe media e del partito repubblicano sia piú forte in un momento dove tanti democratici guardano a Sanders.

La sfida della sinistra, non solo in America ma anche in Europa, è quella di evitare questa radicalizzazione della classe media ma soprattutto che la classe media diventi uno strumento politico a uso e consumo di politici autoritari e potentati economici. Questo può essere fatto solo soltanto portando un programma che tenga in considerazione le esigenze della classe media costituendo un’alleanza tra classi popolari e classe media. In America significa per esempio spiegare che una sanitá pubblica non è socialismo ma è anche uno strumento che permette a chi appartiene alla classe media di non impoverirsi se ci si ammala. Nel resto delle democrazie significa portare avanti programmi fiscali che penalizzano le fasce piú alte di reddito e sfuggire alla retorica che un aumento delle tasse significhi automaticamente penalizzare la classe media che ormai è diventata la parte piú agiata delle classi popolari. Importante sarà anche ricentrare il dibattito politico cambiando i temi. E’ necessario passare da un dibattito basato sulla paura (immigrati, la Cina, complotti vari) ad una discussione che metta al centro il paese in maniera concreta. Bisogna superare la divisione tra dipendenti pubblici e piccoli imprenditori. Da una parte bisogna puntare ad una maggiore efficienza della macchina pubblica e dall’altra alla comprensione che una riduzione dei salari pubblici riduce il potere di acquisto e a pagarne le conseguenze saranno anche i piccoli imprenditori che vedrebbero la propria clientela diminuire. Il compito della sinistra per evitare la radicalizzazione della classe media e riportare lo scontro sociale non tra classe media e classi popolari ma tra queste due e quella piccola minoranza che si sta arricchendo grazie ad una globalizzazione non regolamentata che permette ai capitali di viaggiare liberamente in cerca di paradisi fiscali. Ancora una volta c’è bisogno di una visione globale cha la destra sovranista non è in grado di fornire.

Al di là del personaggio da operetta, Trump è l’incarnazione di forte risentimento che circola all’interno della classe media americana. Lui rimane un modello di scalata politica replicabile in altri paesi. Puntare alla rabbia, contribuire al risentimento per poi presentarsi come soluzione. Anche se non si riesce a trovare una soluzione, si può sempre incolpare qualcuno. Una spirale che può portare solo ad una conclusione: lo sfaldamento del patto tra cittadini che e alla base di ogni democrazia dove chi perde accetta di essere all’opposizione . Accettazione che diventa difficile in un clima come quello creato da Trump a livello politico e rafforzato da un risentimento che è la base del nostro sistema economico dove modelli di felicita inattuabili basati sul consumo creano solo insoddisfazione indipendentemente dalla vera situazione economica. Oggi abbiamo Trump, domani potremmo avere uno piú capace a trasformare queste eradita politica in un grimaldello per scardinare la democrazia cosi conme la conosciamo.

La democrazia tra Conte, Salvini e intellettuali

https://www.repubblica.it/politica/2020/04/11/news/salvini_chiama_mattarella_governo_opposizioni-253734501/

Il corona Virus si sta dimostrando un serio test non solo per i sistemi sanitari nazionali ma anche per le nostre democrazie. Come discusso i precedenza, non è solo un pretesto per limitare la libertà o sospendere la democrazia come in Ungheria, ma agisce come un catalizzatore che accelera quei fenomeni all’interno della società e della politica che si muovono per svuotare la democrazia. La diatriba tra Conte e le opposizioni è una cartina tornasole sulle condizioni di difficoltà che le nostre istituzioni stanno attraversando. Una difficoltà animata dal comportamento della nostra classe politica che fonda sul tribalismo il proprio modus operandi. Una maniera di fare politica basato sull’identità che non permette un confronto ma solo lo scontro dove il nemico deve essere distrutto non importa con quali mezzi anche se questi mezzi mettono in pericolo la democrazia stessa.

La rete in queste settimane è stata inondata di fake news con l’obbiettivo di creare rabbia nei confronti del governo e della classe politica. Il governo ha fatto errori e non ci piove, ma un’opposizione seria che ha in mente il bene del paese e non solo il potere parte da quegli errori per correggerli e cercare di migliorare le cose. In una crisi come questa, la democrazia non va sospesa (vedi Orban) ma bisogna essere attenti che la propria polemica abbia una visione piú ampia che raccogliere consenso puntando sulla rabbia della gente. Dicono di essere per il popolo, dicono di non essere interessati alle poltrone e poi continuano a generare rabbia in un paese in ginocchio. Bisogna dire le cose come stanno, Questa è una vera e propria strategia della tensione mirata a destabilizzare il paese, altro che prima gli Italiani. Capisco condividere un qualcosa per errore ma qui si continua a far girare roba che ha il solo obbiettivo di destabilizzare il nostro paese. A vantaggio di chi? Magari Salvini sogna ancora i pieni poteri, d’altronde né lui né la Meloni hanno preso le distanze da Orban. Il bello è che Orban può mettere in carcere persone che diffondono notizie false, con Salvini dovremmo buttare la chiave.

Alla luce delle menzogne e sotto il peso della responsabilità in un momento delicato come quello delle trattative in seno alla UE, Conte ha usato il suo discorso a reti unificate per attaccare le opposizioni per le informazioni false messe in circolazione. Conte ha ragione che queste sono trattative difficili ed è necessario avere un comportamento all’altezza. Ha ragione quando dice che bisogna parlare a Tedeschi e Olandesi che non guardano solo al governo ma anche a quelle forze politiche che sono pronte a uscire dall’Euro anche dopo l’introduzione dei bonds lasciando i contribuenti del Nord Europa con il cerino in mano. Detto questo, non si può condividere il modo con cui questo è stato fatto. Avrebbe dovuto usare la televisione per spiegare quello che era stato deciso e anche se ha ragione da vendere non poteva usare quella posizione per attaccare le opposizioni. Avrebbe potuto parlare in termini generale senza rivolgersi direttamente ai leader della minoranza parlamentare. Una caduta di stile istituzionale che rischia di legittimare quest’uso della televisione per randellare le opposizioni negli anni a venire creando un precedente. Questo è rischioso perché il capo di governo non è solo il capo politico di una coalizione di governo ma è anche una figura istituzionale. La differenza tra i due ruoli non è facilmente definibile ma quando parla a reti unificate a nome del governo come istituzione dovrebbe mantenere un profilo alto al di sopra delle beghe politiche del momento. Alla luce di una politica basata sull’identità, la politica “tribalesca” rischia di produrre una lotta politica senza limiti dove le istituzioni sono viste come nemiche a seconda di chi li occupa. In questa maniera la democrazia perde il suo ruolo di regolatore della lotta politica con un sistema di regole accettato da tutte le parti. Quando le regole saltano, non rimane che la violenza per regolare il conflitto politico. Non c’è democrazia senza confronto, non c’è democrazia quando il governo usa la propria posizione di forza per randellare chi la pensa in maniera diversa. Il culto della personalità non si sposa bene con un regime democratico. Salvini e la Meloni hanno anche potuto meritarsi la lavata di testa alla luce del loro modo di fare politica ma non attraverso canali istituzionali che appartangono a tutti. Se fosse stato Salvini a parlare come Presidente del Consiglio attaccando le opposizioni avremmo gridato al regime. Non importa da chi viene, ma qualsiasi tentativo si snaturamento della democrazia va combattuto perché è l’unica maniera che garantisce il vivere comune. Il fatto che gli italiani hanno giustificato o meno l’uscita di Conte in base ai propri orientamenti politici dimostra come forte sia il tribalismo all’interno della politica italiana.

Questa situazione è anche la conseguenza di un giornalismo che invece di fare domande a politici e metterli davanti alle loro menzogne, reggono semplicemente il microfono (e li fanno pregate in diretta). I politici mentono, creano fake news, generano rabbia e confusione. Da questa situazione senza confronto, ognuno si sente libero di costruire una visione delle cose completamente staccata dalla realtà. Non esiste più il concetto di vero che gli intellettuali sono chiamati a difendere. Gli stessi intellettuali diventano megafono delle bugie riducendo tutto ad opinione. In mancanza di una stampa che faccia chiarezza, Conte si è sentito il diritto di usare un intervento istituzionale per cantargliene quattro rischiando di dare forza ad una maniera di fare politica dove tutto è concesso legittimando di fatto anche il mentire. Il ruolo degli intellettuali (e degli elettori che si fanno un’idea tramite essi) è di porsi come limite al potere e sanzionarlo quando tende ad uscire dai limiti di una pacifica convivenza alla base di una democrazia. Gli intellettuali non sono neutrali e sono anche loro guidati dalla loro passione politiche e sono attori nella creazione del consenso politico. Chiedere loro di essere neutrali proviene da un mondo ideale che non esiste. Questo non significa però che il loro ruolo é quello di essere delle macchiette al servizio della propaganda. La loro funzione dipende dalla libertà che godono. La loro autorità dipende dalla loro capacità di portare avanti le proprie idee politiche cercando di rimanere fedeli ad un’idea di vero. Solo questa tensione garantisce la loro libertà e li separa da essere semplici funzionari della propaganda. Il problema con la stampa è che abbiamo troppi funzionari al servizio della politica e pochi intellettuali, troppi legami con il potere politico e poco senso di responsabilità nei confronti di elettori e dei principi democratici.

Il post corona virus sarà una sfida non solo per riportare i confini delle libertà personali al periodo antecedente ma anche per riportare la politica in un ambito razionale. Per far ciò bisogna disintossicare la politica dal tribalismo e gli intellettuali hanno la maggiore responsabilità in questo processo.

L’uomo forte!

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La personalizzazione della politica è uno degli aspetti che caratterizza la democrazia moderna. Le grandi personalità hanno sempre giocato un ruolo importante ma quello che contraddistingue il presente è il vuoto in cui questi personaggi agiscono. La continua crescita della forza dei leaders avviene in un sempre crescente preoccupante vuoto, senza che ci siano partiti o correnti di pensiero a contrastare la loro sempre piú grande importanza. In questo vuoto la democrazia si riduce alla scelta di un leader dove la scelta è basata, non tanto su una proposta politica, ma sull’immagine costruita. Il politico non è più al servizio di una proposta politica ma è la proposta politica con tutti i limiti e i pericoli che ne conseguono. Abbiamo visto come la leadership da sola non sia in grado di trasformarsi in buon governo e come essa sia una delle cause e conseguenza della crisi della democrazia ma la personalizzazione della politica nasconde altri pericoli. La crescente personalizzazione della politica da sola non rappresenta automaticamente un disastro ma il rischio aumenta quando è legata alla voglia dell’uomo forte da parte delle masse. Per secoli la democrazia presidenziale americana non ha portato a dittature, ma lo stesso regime democratico esportato in sud America ha creato regimi autoritari. La differenza sostanziale sta nella diversa situazione in cui versavano le società civili e i suoi componenti. Per cultura politica e religiosa, negli Stati Uniti c’è quasi sempre stata una sfiducia nell’uomo forte a differenza dei paesi latino americani. La cultura protestante spinge all’autonomia dell’individuo davanti al potere, mentre la necessità del tramite della chiesa per il raggiungimento della propria salvezza riduce la libertà del cattolico. In campo religioso è normale per le masse cattoliche affidarsi ad una struttura fortemente gerarchica e verticista che si riflette anche in campo politico nella ricerca di un qualcosa di simile che possa portare alla salvezza qui in terra.

Quello che sta accedendo in tanti paesi, anche a democrazia avanzata, è una crescente personalizzazione della politica accompagnata da una voglia crescente dell’uomo forte. Queste due tendenze si rinforzano l’un l’altra dando vita a dinamiche difficilmente controllabili. Per vincere le elezioni, i politici con i loro guru della comunicazione spingono sempre piú in là il tono delle dichiarazioni per attirare il voto di chi è alla ricerca di un capo capace di risolvere tutti i problemi. Questo puntare sull’uomo forte da parte dei politici giustificherà e stimolerà sempre piú la richiesta di avere un uomo solo al commando. In questa corsa al rincaro, non dovrebbero stupire le parole di Salvini quando chiede i pieni poteri agli italiani. Non credo che Salvini voglia fare un colpo di stato o vada preso letteralmente quando dice di volere i pieni poteri. Quello che fa è semplicemente aggiustare il proprio linguaggio al sentimento dominante. Il problema è che la personalizzazione della politica unito ad un linguaggio sempre piú machista rendono normale e accettabile l’idea di un uomo forte al potere. Questa situazione non necessariamente porta ad una dittatura, ma certamente impone un’accelerazione alla trasformazione delle nostre democrazie in regimi sempre meno liberali.

Al di là della personalizzazione della politica, perché la democrazia si sta trasformando in una ricerca autodistruttiva dell’uomo forte? Perché l’uomo forte affascina così tanto?

Prima di tutto bisogna capirsi sulla differenza tra personalizzazione della politica e uomo forte. Molti elementi che stanno portando ad una sempre maggiore personalizzazione della politica sono stati ampiamenti discussi non solo in questo blog. La scarsa fiducia dei cittadini nei confronti dei partiti e nelle istituzioni gioca certamente un ruolo fondamentale. La poca differenza ideologica tra i partiti che per anni hanno rincorso il cosiddetto voto moderato ha imposto l’uso del leader come mezzo di differenziazione. Il cambiamento delle leggi elettorali e la richiesta di una maggiore democrazia diretta ha rafforzato l’importanza dei leaders. Questo soprattutto in Italia dove negli ultimi trent’anni le elezioni dirette di sindaci, presidenti di provincia e regioni hanno reso necessario puntare sulla figura del leader politico. Anche le leggi elettorali per il parlamento e la consuetudine che si è affermata di indicare il premier hanno dato un’accelerata in questo senso, anche se il capo di governo non è eletto direttamente dai cittadini. Tutto questo impone una forte personalizzazione della politica ma questo non significa necessariamente nostalgia di un uomo forte. La personalizzazione della politica deriva piú da un adattamento della comunicazione politica al presente dato dalle leggi elettorali, la sfiducia nei partiti, la politica su internet, etc. La personalizzazione sta piú nella maniera in cui si svolge il dibattito politico e come la politica viene consumata. La nostalgia dell’uomo forte è diverso in quanto va oltre la comunicazione politica e la politica stessa e trova forza in aspetti psicologici e culturali delle masse. La voglia dell’uomo forte nasce dagli umori dei popoli a cui la politica risponde anche attraverso la personalizzazione. In breve possiamo dire che la personalizzazione riguarda piú i governanti e la maniera con cui essi si pongono davanti ai governati, mentre la voglia dell’uomo forte riguarda piú i governati nel loro modo di rivolgersi ai governanti.

Come si arriva alla voglia dell’uomo forte da parte delle masse? La crisi economica e l’insoddisfazione dei ceti medi e popolari sembrano irrisolvibili per le nostre democrazie e forse lo sono dato che tutto è lasciato al mercato. La voglia dell’uomo forte nasconde la sfiducia nella democrazia e nella politica in generale che non sono capaci di risolvere i problemi del presente. Quando gli strumenti attuali non soddisfano, si cercano nuove soluzioni. Il richiamo dell’uomo forte si affaccia nei momenti di crisi quando la democrazia con i suoi politici e i suoi partiti, non solo non sono in grado di risolvere i problemi con le loro lunghe discussioni, ma vengono percepiti come cause o approfittatori della crisi stessa.  Questo clima genera paura per il futuro e di conseguenza la necessità di trovare un rifugio in una persona. Questo avviene soprattutto a causa della natura prevalentemente patriarcale delle nostre società dove l’uomo forte incarna la figura del padre, con quei meccanismi teorizzati da Wilheim  Reich. Questa paura ingrandita dai costanti processi di cambiamento genera un senso di insicurezza nel futuro. Questi cambiamenti, che riguardano non solo a tecnologia e la paura di rimanere obsoleti (la vergogna prometeica di Gunther Anders), crea un senso di smarrimento e di paura dell’ignoto. I flussi migratori, l’affacciarsi sulla scena economica di altri paesi, la competizione estrema tra individui, le preoccupazioni legate alla questione ecologica, la diminuzione delle protezioni sociali, lo sfaldamento dei vincoli familiari e del senso di sicurezza che ne derivava, la diminuzione del senso religioso e di un padre eterno che è li a vegliare su tutti sono tutti cambiamenti che generano paura e ansia nel futuro. Questo rende quasi normale la necessità di trovare un qualcuno a cui affidarsi per trovare quella sicurezza che manca. Senso di insicurezza che non emerge solo in politica ma affiora e si nutre in alti ambiti. Da questo si spiega per esempio il fiorire di teorie come quella del Karma, la credenza in oroscopi o la fortuna di maghi e indovini. Quello che lega tutti questi fenomeni è l’aspirazione di un mondo ordinato e che possa essere controllato in qualche maniera. L’uomo forte è forte, non tanto nei poteri che ha, ma nella possibilità di forgiare il futuro non lasciato piú a forze sconosciute e incontrollabili. L’uomo forte incarna la speranza di poter controllare il presente in maniera da poter tornare ad avere fiducia nel futuro. E’ una risposta semplice e per molti versi molto primitiva ma che per questi motivi la rende diretta e molto desiderata.

I cambiamenti non generano solo paura ma anche incomprensione e un sentimento di smarrimento e la convinzione di non piú essere in controllo delle proprie vite. Le nostre realtà stanno diventando sempre più complicate all’interno di un’era di continue rivoluzioni tecnologiche, in uno spazio sempre piú piccolo che impone il contatto con mondi diversi.  Le categorie e l’esperienza maturata nel passato non sono piú sufficienti per elaborare il presente e comprenderlo. La nostra esistenza dipende da molte piú variabili che nel passato, all’interno di un sistema molto piú complesso. La tradizione copre sempre meno ambiti e tutto è aperto alla discussione e al cambiamento. La precarietà e l’incertezza sembrano dominare tutti gli aspetti della nostra vita non soltanto lavorativa. Questo rende molto difficile la comprensione di quello che ci accade intorno (diventato forse impossibile) generando diffidenza in tutto. Davanti ai cambiamenti e alla trasformazione, sembriamo pesci senz’acqua. Viviamo costantemente la sensazione di vivere in un paese straniero perché il nostro paese natale non è piú lo stesso anche se non ci siamo mai mossi. Sono ormai lontani i tempi in cui la vita dei figli era identica a quella dei padri e bastava la loro esperienza per vivere. Siamo constatatemene buttati in nuove situazioni senza gli strumenti per affrontarle in quando gli strumenti in nostro possesso appartengono ormai ad un passato già diventato lontano. Viviamo un tempo liquido per dirla usando la famosa metafora introdotta da Bauman. Per molta gente, questa situazione di precarietà non è sostenibile. Per nostra natura siamo esseri che continuamente cercano di dare un senso alla realtá circostante e ci sforziamo di dare una spiegazione e una soluzione a tutto. La cultura dovrebbe fornire gli strumenti per dare un senso al nostro tempo ma essa viene trascurata in un epoca dove un qualcosa ha valore solo e soltanto se ha un prezzo. La cultura diventa un marchio quasi infamante per distinguere le cosiddette élite o i radical chic assunti a capri espiatori della situazione difficile in cui ci troviamo. Ecco come la richiesta dell’uomo forte diventa una delle poche risposte disponibili all’esigenza di dare un senso alla realtá circostante. L’uomo forte diventa l’appiglio a cui aggrapparsi per non essere trascinati da una realtá in continuo movimento come un fiume in piena che tutto travolge. Piuttosto che non avere una risposta ai problemi o pensare che i problemi non siano di facile soluzione, si preferisce pensare che mettere un uomo al posto giusto sia sufficiente a risolvere non solo i problemi ma dare un senso alle cose. L’uomo forte diventa la soluzione a tutto in maniera da non avere la necessità di comprendere tutto o di rimare soli davanti a problemi apparentemente senza soluzioni. L’uomo forte rappresenta il tentativo di fermare il tempo e tornare un passato dove tutto aveva un senso e si aveva l’illusione del controllo ci direbbe probabilmente Popper. In questa maniera l’uomo forte diventa una risposta ai problemi dell’individuo senza una visone collettiva, ulteriore esempio dell’uso privato della politica a cui abbiamo fatto accenno nel passato.

La voglia di un pastore da parte della massa degli elettori risulta quasi normale in un paese come l’Italia dove si cerca sempre di scaricare il peso delle proprie responsabilità. Si preferisce seguire piuttosto che agire per poi addossare le colpe ad altri nel momento del fallimento. L’uomo forte è una tentazione tipica dell’animo italiano, caratterizzato da un individualismo anarchico, allergico a qualsiasi forma di organizzazione e collaborazione. L’individualismo di altri paesi, soprattutto protestanti, si sviluppa all’interno di una società forte che richiede collaborazione e fiducia nel prossimo. Ognuno è libero e cerca di perseguire il proprio interesse personale ma entro limiti definiti. Questa individualismo trova il proprio limite nel senso di responsabilità nei confronti del resto della comunità attraverso il rispetto spontaneo delle leggi e della libertà dell’altro. La collaborazione paritaria di individui viene incarnata non solo dallo stato ma anche dal prestigio delle forme di organizzazione della società civile: charities, club sportivi locali che vanno oltre lo  sport, scout, organizzazione di quartiere etc. Anche in Italia abbiamo naturalmente queste forme di organizzazione ma godono di un prestigio e una forza molto minore in quanto per l’italiano è molto piú difficile avere fiducia nell’altro. Questo si manifesta e deriva anche dall’atavica sfiducia  nello stato  visto sempre come un ente che porta problemi o un ostacolo alla propria felicità nei migliori dei casi. Il proverbio “Piove, governo ladro” la dice molto sul sentimento popolare rafforzato dai continui casi di corruzione di cui è piena non solo la nostra storia nazionale ma la cronaca di tutti i giorni. La sfiducia non investe soltanto lo stato ma tutto quello che è al di fuori del proprio ambito familiare. La sfiducia investe anche l’associazionismo soprattutto quando si tratta di raccogliere fondi. Il nostro paese ha un cosiddetto terzo settore molto vivace ma fatto da una moltitudine di associazioni e gruppi in quanto nessuno si fida dell’altro e ognuno fa per se.  In questo clima di sfiducia, la famiglia non poteva che assumere un ruolo predominante in Italia. Per lungo tempo, la famiglia è stata l’unica forma di protezione davanti ad uno stato che non funzionava o veniva percepito come nemico. La famiglia è diventata così l’unico orizzonte collettivo a cui gli italiani sentono il dovere di appartenere e servire. Avendo la famiglia come unica forma collettiva funzionante di cui ci si può fidare, cerchiamo un padre che guidi la famiglia piú allargata. Reich ci direbbe che la ricerca dell’uomo forte non è altro che la trasposizione nella vita pubblica della figura rassicurante del padre che inconsciamente cerchiamo da adulti. Le caratteristiche originali della criminalità organizzata nel meridione sono forse l’incarnazione perversa delle dinamiche generate dalla sfiducia nelle istituzioni e dell’importanza della famiglia con un capo al comando. Le mafie erano organizzate infatti in clan familiari con un capo al vertice. Queste organizzazioni hanno inoltre trovato forza dalla debolezza dello stato e il loro prestigio dalla contrapposizione ad uno stato percepito come tiranno. Il senso di appartenenza alla famiglia porta con se il nepotismo e l’uso della politica a fini personali. Come un serpente che si morde la coda, tutto questo contribuisce a indebolire la fiducia nelle istituzioni viste come proprietà privata e terreno d’impiego per i familiari di chi siede ai vertici. Tutto questo fa sì che quando si parla di questioni pubbliche la diffidenza nei confronti degli altri domina il pensiero e ne influenza le azioni. In un contesto del genere, diventa sempre piú facile delegare ad un’unica persona tutte le responsabilità. L’uomo forte di occuperà delle questioni pubbliche, ritenute comunque lontane e per certi aspetti ininfluenti,  cosi ci si potrà concentrare sugli affari propri. Dato che l’orizzonte collettivo è la famiglia, quello che accade al difuori conta poco fino a quando continua a farsi gli affari suoi come il Dio di De André.

I  cambiamenti culturali sembrano purtroppo riflettere e confermare la voglia dell’uomo forte. L’industria dell’intrattenimento ci offre un esempio al di fuori della politica dove la crescente infatuazione nell’uomo forte si manifesta e si rafforza. Questa industria, da una parte offre quello che il pubblico chiede, ma dall’altra rafforza le tendenze dei propri clienti. Il cinema rappresenta forse l’aspetto piú evidente. Negli ultimi anni le sale sono state invase da supereroi in tutte le salse. Tutti i fumetti della Marvel hanno trovato nuova linfa al cinema e altri nuovi eroi sono stati inventati per il cinema. Nonostante questi film si assomigliano con lo stesso canovaccio dell’eroe che salva il mondo, continuano a fare il pieno ai botteghini. Il loro successo non è basato solo sugli effetti speciali, l’investimento pubblicitario o l’uso di attori di grande richiamo. Tutte queste componenti giocano il loro ruolo ma il successo del super eroe trova le radici nei fenomeni che abbiamo descritto precedentemente. Questi film sono in qualche maniera manichei nella realtá che presentano. Da una parte c’è sempre il buono e dall’altra c’è un cattivo che piú che cattivo non si può. Tutti i problemi del mondo non hanno diverse origini legate al sistema economico o ai limiti della natura ma c’è sempre un malfattore che opera dietro le quinte per danneggiare gli altri. Questo cattivo spesso e volentieri ha un’influenza sulla società in cui opera obbligando il supereroe ad essere un escluso che deve lottare contro tutti. L’eroe non ha bisogno di discussione , comprensione o dibattito ma tutto viene lasciato alla sua buona volontà che salva il mondo senza aiuto o troppi sofismi. Per risolvere i problemi non c’è bisogno di rinunce o di tempo ma bastano l’impegno dell’eroe di turno e i suoi superpoteri. In un’epoca confusa senza punti di riferimento, il cinema offre un rifugio fatto di certezze e dà sfogo al desiderio di vedere un mondo piú chiaro e comprensibile dove i problemi e le loro cause sono facilmente identificabili e risolvibili. Un mondo dove la soluzione dei problemi è sempre a portata di mano e che richiedono semplicemente la buona volontà di una sola persona. Una volta usciti dal cinema non è difficile trapiantare quel modo di ragionare nella politica di tutti i giorni. Il mondo viene semplificato con tutti i suoi problemi causati da forze oscure: Europa, massoni, ebrei etc.  Da qui il fiorire di teorie del complotto, che non solo offrono una semplificazione, ma anche un percorso da seguire per risolvere tutti i problemi. I complotti permettono di sentirsi degli eroi che combattono il male nonostante nessuno creda alla macchinazione a cui dedichiamo tempo ed energia per combatterla. Naturalmente la politica e le istituzioni che fanno a fatica a risolvere i problemi sono parte di questa grossa macchinazione del male che giustifica e rafforza la scarsa fiducie in esse.  Come nei film, solo un uomo di eccezionali capacità può risolvere tutti i problemi. Cosi come il supereroe al cinema e nei fumetti, l’uomo forte in politica rende il mondo meno pauroso perché ha una forza rassicurare offrendo se stesso come soluzione. L’uomo forte incarna la volontà di cambiare veramente le cose contrapposto a gruppi di potere e forze oscure che sono la causa di tutto quello che va male. I leaders politici giocano molto su questo nella loro comunicazione creando contrapposizioni, incolpando gruppi  e amplificando la forza dei propri avversari accusati tutti di essere la cause dei problemi della gente comune. La soluzione dei problemi non dipende da una loro analisi e da una discussione ma soltanto dal politico che si adopera e lotta contro queste forze del male. Le scelte politiche vengono semplificate e non sono mai a spese di qualcuno o per lo meno sono sempre solo a spese dei cattivi. L’uomo forte permette di identificarsi con qualcuno nella realtá e di riflettere di gloria riflessa. Sostenendo l’uomo forte, ci si sente parte di una crociata contro il male con tutti i riflessi sulla propria autostima, ulteriore esempio di politica usata a fini personali.

Uscendo dal cinema e andando oltre i super eroi, un alto esempio di cambiamento culturale che rafforza l’ossessione dell’uomo forte sono i cosiddetti “self help” books ovvero libri scritti da pseudo guru che insegnano come avere successo nella vita. Il più famoso è forse “The secret” che ha venduto piú di 30 milioni di copie, con buona pace del pensiero razionale. Tutti questi libri hanno un aspetto in comune: la felicità dell’individuo dipende solo da lui stesso. Questi libri sono la manifestazione piú concreta del pensiero egemonico neoliberista che trova la propria forza sull’individualismo indebolendo tutte le forme organizzate della società civile che agiscono da intermediari tra stato e individuo.  Per questi libri, tutto è facilmente risolvibile mantenendo un approccio positivo e visualizzando il proprio successo. Per raggiungere la felicità bisogna puntare solo su stessi e su nient’altro come se il mondo con tutti i suoi limiti fosse ininfluente. Prima di tutto questi libri portano al disinteresse della vita collettiva e della politica dato che quello che accade al di fuori della nostra cerchia non è importante. Molti libri arrivano anche a consigliare apertamente di disinteressarsi ai problemi del mondo in quanto non abbiamo nessuna influenza du di essi e hanno inoltre un impatto negativo sulla nostra “positività”. Questo non porta solo ad un disinteresse nei confronti della politica e alla partecipazione ma genera anche sfiducia in tutte le forme di organizzazione della società civile a favore dell’uomo forte. Questi libri sono incentrati sulla felicità individuale ed è facile concludere che tutti cercano la propria felicità solo per se stessi generando sospetto e sfiducia negli altri. Questa sfiducia richiede l’intervento di un qualcosa che metta in riga tutti. L’uomo forte con tutti i limiti alla libertà che esso porta con se diventa quel qualcosa che rassicura e permette di tornare a pensare solo al piccolo mondo quotidiano. Se tutti i problemi individuali e la stessa felicità dipendono solo e soltanto da noi stessi e su come ci comportiamo, non è difficile concludere che lo stesso valga per i problemi collettivi. Quello che serve è un’unica persona che  adotti lo stesso criterio per risolvere tutto. Quello che serve è soltanto la volontà di risolvere i problemi. Non servono discussioni, analisi o studi ma solo e soltanto un unico individuo che ponga ordine.

La forza di una democrazia dipende dall’adesione ad essa da parte dei cittadini. La salute di una democrazia non può essere limitata solo al voto ma dipende da tanti altri fattori come la qualità del dibattito politico, la possibilità di minoranze di arrivare al potere e rappresentatività dei cittadini. Tutto questo cozza con una democrazia che si limita alla scelta di uomini forti con effetti non prevedibili nel lungo futuro. Cosa accadrà ai sistemi di garanzia che limitano il potere quando l’uomo forte addosserà loro la colpa dei propri insuccessi? Come reagiranno i popoli a queste richieste una volta infatuati dell’uomo forte in un clima di sfiducia nei confronti della democrazia? Per decenni la democrazia ha trovato forza dalla capacità di essere parte della cultura egemonica e conseguenza naturale di un certo equilibrio tra capitale e lavoro. Con l’indebolimento del ruolo centrale del lavoro, questo equilibrio è venuto meno e piano piano il capitale ha cercato di sottrarsi dai vincoli che il potere politico e democratico gli avevano imposto. La democrazia è forse rimasto, non tanto un limite, ma un pericolo potenziale perché offre al lavoro (e ai precari) la capacità di influenzare la politica e rimane comunque un mezzo per prenderlo. I colpi di stato sono forse passati di moda ma le democrazie possono essere indebolite in vari modi e in maniera molto piú insidiosa. La personalizzazione e insieme alla voglia dell’uomo forte offrono un’occasione d’oro per indebolire quell’adesione dei popoli ai principi democratici.

Cronaca e politica

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Condivido l’idea di Salvini di fare Checco Zalone senatore a vita ma credo che abbia cambiato idea dopo aver visto “Tolo Tolo”. Scherzi a parte, l’ennesimo intervento di Salvini riguardo un aspetto di cronaca che ha poco a che vedere con la politica in senso stretto impone una riflessione sul rapporto tra cronaca e politica. Perché i politici si occupano tanto di cronaca soprattutto quella nera? Perché sentono la necessità di esprimere un’opinione su ogni avvenimento anche quando non hanno tutte le informazioni come nel caso di “Tolo Tolo” non ancora uscito nelle sale?

La prima ragione è strettamente legata ad un uso tecnico dei social a fini di marketing. Un avvenimento di cronaca crea un dibattito sulla rete oltre ad una serie di hashtag che diventano popolari e necessari per seguire gli sviluppi. Il politico parlando di quel tema e usando quell’hashtag ha la certezza di rafforzare la propria presenza sui social. In altre parole, si usa la popolarità di un tema per modificare gli algoritmi in maniera da rendere sempre più rilevante la propria presenza sulla rete. Quest’articolo lo spiega in maniera tecnica ma molto chiaramente come questo accade. Alla fine a Salvini non interessa molto la Nutella o il film di Zalone ma solo e soltanto la propria presenza sulla rete. Si usano gli hashtag come delle boe a cui aggrapparsi per rimanere a galla nel mare dei social e non sprofondare nell’oblio. Per far ciò si usa di tutto, anche creare un video parodia sul papa in maniera da usare anche quello per vincere la guerra contro l’oblio telematico. Si può discutere se sia morale o rispettoso nei confronti degli elettori e della stessa democrazia ma quello che conta veramente è constatare purtroppo la sua efficacia per arrivare al potere e mantenerlo, l’unico scopo di ogni uomo politico. Se il resto della politica non sarà in grado di arginare questo strapotere mediatico, si lascia a Salvini il quasi monopolio della rete a fini di propaganda politica. Anche il M5S sta attraversando un momento di difficoltà sulla rete per due motivi: l’impossibilita di usare un leader per imporre la stessa strategia (Di Maio non è adatto) e il fatto di essere al governo al PD che pone un limite alla possibilità di sfruttare il risentimento dei cittadini nei confronti della politica accentuato da fatti di cronaca nera.

Alla fine un voto di una persona informata ha lo stesso valore di una persona non informata e quello che conta è mettere insieme il maggior numero di voti. Parlare di cronaca permette di raggiungere anche la persona disinteressata di politica attraverso la rete. Mentre prima si aveva difficoltà a parlare a chi non era interessato della cosa pubblica, occupandosi di cronaca tramite la rete, il politico ha la possibilità di raggiungere anche coloro che sono poco informati sugli sviluppi politici. In passato, il politico agiva in contenitori ben definiti: la tribuna elettorale o il talk show in televisione, l’intervista sul giornale o attraverso i comizi. Chi non era interessato alla politica poteva facilmente evitarla cambiando canale, non andando ai comizi senza parlare del fatto che non era obbligato a comprare un giornale. La rete insieme alla cronaca dà la possibilità al politico di raggiungere e creare “brand awareness” anche tra coloro che non sono interessati alla politica. Il caso della Nutella ci può aiutare ancora una volta a comprendere questo. L’hashtag della Nutella era molto popolare a causa dei biscotti introvabili. La popolarità di questo tema era forte tra giovanissimi spesso non interessati alla politica. Salvini ha semplicemente usato quell’hashtag per inserire e far arrivare un messaggio a queste persone: la Ferrero deve comprare nocciole italiane. Un messaggio di forte presa e apparentemente pieno di buon senso soprattutto se non ci si informa per esempio sul fatto che la produzione italiana di nocciole non è sufficiente per la produzione mondiale della Nutella. A furia di usare la cronaca, Salvini crea una forte “brand awareness” tra le persone meno informate di politica. Quando questa gente andrà al voto, voteranno soprattutto per coloro che ricordano (Brand recall) e a cui sono in grado di associare degli elementi apprezzati che lo contraddistinguono (Brand equity) come il difendere le nocciole italiane o un attore amato come Checco Zalone. Naturalmente questo non vuol dire che tutti gli elettori sono disinformati o che sono facilmente manipolabili ma questo modo di operare permette di portare a casa quei voti importanti da quella fascia di elettori indecisi che decide le elezioni. L’obbiettivo di Salvini di creare brand awareness soprattutto tra i giovanissimi è confermata anche dalla sua decisione di portare la sua presenza su Tik Tok, un social molto usato da questa fascia della popolazione. Un social che si presta poco alla politica ma che gli permette di farsi conoscere senza competizione dato che il resto della politica si tiene fuori. Questo ha scatenato una forte critica che non ha fatto altro che alimentare e nutrire la forza di Salvini nella rete. Tutto questo genera articoli online e post sui social con tanta gente disinteressata alla politica che legge solo i titoli e alla fine ricorderá solo il nome di Salvini aiutandolo a rafforzare la “brand awareness”. A furia di leggere il nome di Salvini ovunque, quando andranno a votare si ricorderanno solo di lui. Ragione per cui il nome dei capi politici compare sempre di piú nei simboli dei partiti nelle schede elettorali.

Il marketing e l’uso della rete non spiega tutto perché il parlare di cronaca è anche una conseguenza naturale di come oggi viene fatta la politica e l’informazione. Parlare di cronaca significa evitare di prendere posizioni politiche che creano divisioni e si sposa benissimo con una destra che mira proprio a questo come abbiamo scritto in precedenza. Mettere la cronaca al centro della propria comunicazione permette al politico di discutere argomenti di cui la gente parla tutti i giorni in famiglia, tra amici o a lavoro. Questo fa sentire il politico più simile a loro e meno lontano. Questo artificio contribuisce a creare l’effetto “parla come uno di noi”, perché parlare di cronaca significa usare il linguaggio e gli argomenti di tutti i giorni. Si evita di parlare di cose complicate dove non tutti sono capaci di comprenderne il significato. Dalla reazione sui social (ci sono software che lo fanno) basta prendere una posizione fortemente condivisa dalla maggioranza riguardo un avvenimento , accentuare i toni per assicurarsi visibilità ed ecco che il politico si costruisce l’immagine di un uomo dal buon senso. In questa maniera il politico crea un falso sentimento di rappresentatività soprattutto quando la distanza tra governati e governanti accresce il bisogno di sentire qualcuno che si faccia carico dei propri problemi. Questo si rafforza ancora di più quando dall’altra parte i politici si concentrano solo e soltanto su argomenti strettamente politici. Nel passato, prima dell’avvento della politica su internet, ma ancora oggi offline, i politici hanno sempre cercato di creare un immagine che li renda simili alla stragrande maggioranza dei propri elettori. Berlusconi operaio con il casco di sicurezza o Trump su un camion sono tutti tentativi di far dimenticare il fatto di essere milionari e nulla di più lontano dalla gente comune. Possiamo riderci sopra ma queste trovate hanno un successo indiscusso. Il voto non è solo un atto razionale ma ha anche una forte componente emotiva. Oggi la democrazia si muove in un’epoca dove non si è informati della cosa pubblica, i politici sono considerati tutti corrotti e interessati solo al proprio interesse, scarsa fiducia nella politica e il pensiero comune é dominato da una forte propensione a cercare soltanto il proprio interesse. In un contesto del genere, quali sono gli elementi che portano a scegliere un politico e non un altro? Naturalmente quello dell’identificazione che permette di ridurre il rischio percepito. Se non posso andare io al comando, voto uno come me che mi appare simile e quindi con gli stessi interessi. Questo soprattutto quando il ruolo dei partiti è diminuito e la politica si esprime soprattutto attraverso la personalizzazione. Con poche idee e soltanto persone da scegliere, gli elettori scelgono le persone che piacciono di più e con cui si relazionano meglio e naturalmente la somiglianza gioca un ruolo importante in tutto ciò.

L’utilizzo massiccio della cronaca da parte dei politici è anche la conseguenza dei cambiamenti dell’informazione come evidenziati da Sartori nel suo “Homo Videns”. La televisione ha imposto la necessità di dare notizia solo e soltanto se ci sono immagini. L’avvento di internet ha peggiorato la situazione con il predominio dell’immagine sui social come youtube o instagram. Se non ci sono immagini, non c’è notizia. Quando avviene un fatto di cronaca, è facile parlarne televisivamente: basta mandare un inviato a fare qualche domanda ai testimoni per esempio. Questo significa avere telegiornali e giornali infarciti di cronaca imposti ad un pubblico incapace di pensare senza immagini. Discutere e informare di economia o di quello che discute il parlamento andando oltre la classica intervista al politico diventa difficile perché impone la necessita di parlare di un qualcosa senza il supporto delle immagini. Fare informazione costa e chi detiene i mezzi d’informazione non ha lo scopo primario d’informare ma quello di vendere. La cronaca con i suoi aspetti pruriginosi permette di dare quello che il pubblico chiede. La cronaca nera ha inoltre successo perché permette ai suoi fruitori di sentirsi meglio avendo un facile paragone con persone che commettono atti deprecabili. Dato che l’informazione si concentra sulla cronaca e la gente parla essenzialmente di cronaca, il politico è costretto ad adeguarsi per essere rilevante.

Tenendo un discorso politico centrato sulla cronaca si evita inoltre l’astrazione, indigesta in un’epoca dove tutti parlano solo e soltanto in base alla propria esperienza personale come se fosse sufficiente a spiegare tutto. I discorsi e le conclusioni sulla realtá più in generale vengono basati soltanto sulla propria esperienza usata come unico metro per giudicare e comprendere quello che accade. Da qui nasce per esempio la sfiducia nei giornalisti e nell’accettare altri mezzi per tirare conclusioni come le statistiche, soprattutto quando sono in contrasto con la propria percezione. Questo stato di cose viene usato per far filtrare e adottare idee senza la possibilità che un ragionamento o spiegazioni alternative possano in qualche maniera far cambiare idea. Questa è la ragione per cui Salvini usa qualsiasi avvenimento di cronaca nera che coinvolgono gli immigrati. Un fatto di cronaca nera seguito in televisione contribuisce ad arricchire in maniera indiretta la propria esperienza personale con cui viene filtrata e compresa la realtá. In questa maniera si fa veicolare un messaggio che viene recepito dalla gente comune che tutti gli immigrati siano criminali a furia di ascoltare solo casi di crimini compiuti da stranieri. In questa maniera Salvini non ha bisogno di usare un linguaggio esplicitamente razzista per attirare il voto dei razzisti ma allo stesso tempo usa la cronaca per attirare il voto di persone che non sono razziste ma che sono semplicemente preoccupati per la propria sicurezza. Senso di insicurezza che viene aumentato dando risalto solo a notizie di omicidi, rapine e violenza su gente comune con cui è facile identificarsi. Possiamo fornire tutte le statistiche che vogliamo che dimostrino il calo dei reati ma servirà a poco. A furia di ascoltare fatti di cronaca ci si convince piano piano di vivere in un modo insicuro dove appena esci di casa ci sono individui pronti a rapinarti oad amazzarti. In questa maniera si crea quel paradosso già evidenziato da Bauman che faceva notare come l’occidente vive nell’era più sicura della storia dell’umanità e continua a cercare una sicurezza senza fine. Questo è uno dei sintomi del fallimento dell’istruzione pubblica degli ultimi anni che ha creato una scuola a uso e consumo del mondo del lavoro dimenticandosi di formare cittadini capaci di pensare oltre la propria esperienza personale che non racchiude e non può spiegare da sola qualsiasi cosa accada.

Avendo la politica perso l’aspetto razionale (risolvere i problemi comuni) e qualsiasi forma di programmazione del futuro, tutto ciò che conta per vincere le elezioni è avere un impatto emotivo sugli elettori. La cronaca viene usata per creare quel legame emotivo di cui abbiamo parlato in precedenza. Siccome tanti elettori sono male informati e soprattutto incapaci e disinteressati a qualsiasi forma di discorso pubblico, il politico parla di cronaca per aizzare i propri elettori fornendo argomenti che verranno moltiplicati sui social. Si usa la cronaca per cavalcare e aizzare la rabbia e lo scontento. Salvini ancora una volta è maestro in questo quando si fa fotografare con il benzinaio vittima di una rapina o parla di castrazione dopo casi di stupro. Ancora una volta si usa la cronaca per arrivare alla gente meno interessata alla politica per dirgli che lui è lì per difenderli e la pensa come loro al netto dei diritti civili, un giusto processo e filosofie varie. Questo obbliga il resto della politica a prendere posizione con argomenti che risultano lontani e senza senso a chi teme per la propria sicurezza e vede la giustizia solo in termini di punizione.

La cronaca ha una grandissima forza nell’impossessarsi dell’attenzione della gente perché permette di relazionarsi immediatamente perché genera un qualche forma di risposta emotiva. Questo viene sfruttato abilmente dai politici per distrarre l’attenzione e il dibattito pubblico. Nulla di nuovo sotto al cielo ma che con i social diventa ancora più rilevante. Ancora una volta, Salvini ci aiuta a comprendere meglio come funziona. La questione dei fondi russi stava prendendo una brutta piega per lui all’interno dell’opinione pubblica e per sviare il tutto si è usato la questione dei bambini di Bibbiano. Ad ogni articolo sui fondi russi, arrivavano come mosche chi pretende notizie sui fatti di Bibbiano con una morbosità francamente spaventosa. A questa gente non interessa nulla di questi bambini ma solo la possibilità di strumentalizzare politicamente la vicenda. Questa continuo bombardamento sulla questione di Bibbiano anche quando c’era veramente poco da aggiungere mostra anche una trasformazione dell’uso della massa nello scontro politico. Eravamo abituati ai partiti di massa dove gli iscritti prendevano parte alla vita interna dei partiti attraverso l’attività delle sezioni e aiutavano il partito durante le campagne elettorali. La politica sui social si appoggia ancora moltissimo sulla massa ma in maniera diversa. Esiste ancora una massa usata dalla politica ma in maniera meno organizzata. Non vi è più un’organizzazione militare sul territorio fatta di sezioni e segretari, ma una massa di individui disconnessi che “motu proprio” si trasforma in mezzo di propaganda politica. Per dirigerla e usarla si usa anche la cronaca e i sentimenti che essa genera per invogliare questa massa a prendere parte e intervenire nei dibattiti sulla rete. Prendere posizione e scrivere un qualcosa non viene naturale a meno che si creino le condizioni emotive per farlo. Una volta fatta bollire di rabbia una parte dell’opinione pubblica al punto giusto, basta dare lo slogan o un semplice ragionamento in sintonia con l’umore creato e il resto segue. Da qui il bombardamento di “parlateci di Bibbiano” che doveva essere tradotto con “non parlateci dei fondi russi”. La cronaca diventa una specie di cane da guardia per dirigere un gregge disordinato verso obbiettivi specifici. Si crea cosi una minoranza chiassosa e rumorosa che prende il sopravvento su chi magari ha delle idee ma che rinuncia a esprimerle per non essere bombardato con attacchi di isteria. In questa maniera chi non ha opinioni si adegua all’apparente maggioranza per conformismo e per sentirsi dalla parte dei vincitori. Gramsci ci aveva spiegato che i partiti politici servivano anche per gestire e ridurre il l’impatto dai boom dell’opinione politica. Nella politica di oggi, senza partiti in grado di svolgere questo ruolo, gli esperti di comunicazione creano e gestiscono questi boom attraverso un uso sapiente della rete. D’altronde siamo il paese che ha quasi iniziato una rivoluzione per i 2 centesimi sulla busta di plastica  e non proferisce parola su temi molto più importanti e che toccano in maniera molto più pesante le nostre tasche.

Leaders, partiti e crisi della democrazia

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Abbiamo visto nell’articolo precedente come avere un leader carismatico può servire a vincere le elezioni ma senza una visione diventa difficile governare. Basare la comunicazione politica solo e soltanto sulla personalità di un politico non è solo una ricetta per un fallimento politico una volta al governo, ma è la conseguenza e una delle cause stesse di quella che viene comunemente chiamata “crisi della democrazia”. Una politica che si sviluppa solo attorno alla capacità dei politici di entrare in sintonia con il popolo indeboliscono il ruolo dei partiti e di conseguenza la democrazia per tante ragioni. Come abbiamo visto, un leader di successo può certamente aiutare a vincere le elezioni ma non sempre rende un favore all’organizzazione per cui lavora in quanto le organizzazioni, come i partiti, dovrebbero avere un orizzonte temporale che va oltre quello di un uomo politico. Con partiti politici sempre più deboli, la tensione generata dagli interessi diversi tra politico e partito si risolve spesso a favore del primo. Non è un caso che Forza Italia non sia in grado di andare oltre Berlusconi, mentre Il partito laburista inglese ha enormi difficoltà nel dopo Blair. Un leader che ha con se solo il consenso può essere nocivo per il partito o per le idee che porta in quanto tutto s’identifica con il politico e se il politico cade in disgrazia porta con se tutto quello a cui lui è stato associato. Negli ultimi hanno abbiamo visto una crescente importanza del ruolo giocati dai singoli politici e una diminuzione dell’importanza e del ruolo dei partiti. Questo non riguarda solo i partiti politici ma purtroppo anche tutte le forme organizzate all’interno della società: sindacati, associazioni, movimenti etc.

Quali sono le ragioni che hanno visto i singoli politici diventare più importanti dei partiti? Qual è l’impatto sulla democrazia e nel rapporto tra elettori e democrazia?

Per anni i partiti hanno svolto un ruolo predominante in politica e i leader, non importa quanto popolari, venivano sempre visti come funzionari ed espressione di tutto quello che il partito rappresentava. La fortuna del singolo politico dipendeva dal prestigio e dalla forza del partito di appartenenza. I partiti protagonisti della prima repubblica sono rimasti più o meno gli stessi perché era difficile per qualsiasi personalità riuscire a imporsi con un partito personale. Questo dipendeva essenzialmente dalla scarsità e dalla limitazione dei mass media. La politica dipendeva dall’organizzazione capillare dei partiti di massa che riuscivano a far trapelare il proprio messaggio attraverso l’opera dei propri iscritti, mentre i partiti di notabili puntavano sulla forza che essi avevano sul territorio anche se con molta più difficoltà. Con la frammentazione dei mass media e l’affermarsi di internet, è stato possibile per i politici rapportarsi direttamente con l’elettore facendo diventare secondario la capillarità sul territorio e dunque l’importanza del partito. La rete ha dato la possibilità di essere ovunque senza la necessità di avere un’organizzazione sul territorio, permettendo di modellare il messaggio politico attorno al singolo elettore quasi senza contradittorio.  Il Movimento 5 Stelle e l’affermarsi in breve tempo della Lega nel meridione sono i migliori esempi di questo essendo stati capaci di creare consenso quasi esclusivamente attraverso un uso sapiente delle possibilità offerte dalla rete.

Inoltre vi era quasi un’univocità tra gruppi sociali e  partiti con la politica che dava priorità e discuteva molti meno temi e quasi tutti legati alla questione sociale. A tratti la politica si occupava di altri argomenti, soprattutto in caso di referendum, ma la politica si concentrava prevalentemente intorno allo scontro sociale. Questo era dovuto essenzialmente a due ragioni: i limiti intrinsechi dei mass media tradizionali e la percezione degli elettori. Radio, televisione e giornali hanno limiti di spazio e non possono permettere dibattiti su tutti i temi a differenza di internet che può dare spazio a tutto e poi l’elettore sceglie il tema che gli sta più a cuore. La limitazione dei media imponeva ai partiti di scegliere i temi che potessero essere più a cuore ai propri elettori. Per i partiti di sinistra questi temi non potevano che essere quelli legati alla lotta di classe e all’economia in generale alla luce della loro ragione d’essere. Dato che tutto il dibattitto era organizzato e si sviluppava attorno a pochi temi, lo stesso elettore arrivava alla conclusione che tutto il resto era di secondaria importanza.  Il dibattito limitato non permetteva l’ascesa di partiti personali che avevano difficoltà a imporre nuovi temi sulla scena politica (o per lo meno questi temi non erano abbastanza forti per creare un consenso significativo) mentre i temi ritenuti importanti dagli elettori erano  già rappresentati dai partiti esistenti. Il partito radicale è un esempio di come la sua capacità di imporre dei temi nel dibattito nazionale impattava la sua fluttuante fortuna elettorale. Con l’esplosione degli argomenti, la frammentazione di richieste sociali e la perdita della coscienza di classe capace di raggruppare diversi strati della popolazione ha trovato i partiti impreparati. Le forze politiche organizzate, soprattutto a sinistra, hanno iniziato ad avere difficoltà a tenere insieme un messaggio politico capace di rappresentare una parte significativa dell’elettorato.

Il singolo elettore non ha il tempo e la capacità di farsi un’idea su tutto soprattutto in un periodo dove l’interesse verso la politica è debole. Tutto questo facilita il ruolo del leader che non ha bisogno di rappresentare un gruppo sociale ma può creare consenso creando un legame a livello emozionale con l’elettoreun legame a livello emozionale con l’elettore.  Il politico da solo è in grado di creare consenso apparendo simile al proprio elettore cavalcando la sua rabbia e usando lo stesso linguaggio senza la necessità di elaborare troppo la propria proposta politica. Questa flessibilità lo rende più dinamico e pronto a seguire gli umori degli elettori in base ai suoi comportamenti sulla rete (parole e temi trend) a differenza di un partito che ha la necessità di un dibattito e di una elaborazione al proprio interno. Puntando sulla propria persona, non é costretto a prendere posizione su tutto o a rivolgersi a tutti con una proposta politica specifica che apparirebbe sempre limitata. Puntando sulla sua figura, il politico incanala il dibattito su se stesso mettendo in secondo piano tutto il resto. Invece di chiedere all’elettore di farsi un’idea precisa su tutto (praticamente impossibile) gli viene chiesto di scegliere il leader invece di un partito. Il leader viene venduto come toccasana di tutti i problemi riducendo tutto alla semplice volontà politica necessaria per risolvere questi problemi.  Avendo focalizzato il dibattito su se stesso, diventa anche più facile controllarlo. Trump, Salvini e Boris Johnson sono gli esempi migliori di tutto questo dove ogni singola uscita, apparentemente fuori le riga, serve per distogliere attenzione da un qualcosa che li danneggia per ripuntarla sulla propria persona.

La maggiore individualizzazione della società e la cattiva reputazione dopo gli scandali di corruzione hanno allontanato le persone dai partiti generando una serie di condizioni che avvantaggiano una politica e una comunicazione a uso e consumo dei leader. La prima condizione è quella che i partiti hanno visto diminuire i propri membri rendendo difficile quel lavoro casa per casa su cui i partiti di massa poggiavano la loro forza. Questo ha indebolito la funzione dei partiti politici ai fini della creazione del consenso obbligando a puntare di più sul leader che permette di usare meglio la rete semplificando il messaggio intorno ad una persona piuttosto che a un messaggio più complesso. La seconda riguarda la scomparsa della fedeltà dell’elettore nei confronti del proprio partito aprendo una prateria per nuovi gruppi politici e personaggi per cercare il consenso soprattutto attraverso la creazione di una nuova identità da far adottare all’elettore.

Tutte queste condizioni non hanno solo permesso l’ascesi dei partiti personali ma anche la trasformazioni dei partiti esistenti costretti a rimodellarsi intorno alla figura di un leader come accaduto per il partito repubblicano dopo l’ascesa di Trump. I partiti che non riescono ad esprimere un leader capace ne pagano le conseguenze da un punto di vista elettorale come il PD in Italia o il Partito Socialista in Francia o la SPD in Germania. L’alternativa diventa quella tra rassegnarsi all’estinzione o trovare un leader su cui modellare la propria identità. L’incapacità dei partiti di ritagliarsi uno spazio autonomo dai leader ha delle conseguenze molto più ampie che non riguardano solo i partiti. Una politica ripiegata troppo sulle personalità politiche, senza visione per il futuro e forme di partecipazione e organizzazione all’interno della società civile è infatti dannosa per la stessa democrazia. Quello in cui ci troviamo è un ciclo vizioso distruttivo che si auto alimenta. Senza partiti e progetti per il futuro si punta a vincere le elezioni attraverso la “santificazione” del politico di turno. Questa “santificazione” mette sempre più in secondo piano i partiti e il loro ruolo. Senza partiti non c’è rappresentatività e diventa ancora più necessario usare un leader per attirare voti e creare quel legame che porti la gente a votare riducendo ancora di più l’importanza dei partiti. Non c’è una vera democrazia senza rappresentatività e da qui nasce quella che oggi viene chiamata crisi della democrazia.

Viviamo un momento dove la politica si rassegna a fare solo gestione, con una partecipazione popolare che non va oltre i like, una società sempre meno organizzata dove la politica attraverso i leader sembra l’unica possibile. Questo tipo di politica sembra essere molto simile a quella delle democrazie liberali prima del suffragio universale con partiti che erano club di notabili che si coagulavano intorno a dei politici carismatici e si adoperavano intorno alle elezioni. Cosi come quelle democrazie, anche le nostre soffrono di un problema di rappresentatività anche se tutti sono chiamati a dare il voto. Senza forme di organizzazione, nascono spontanei movimenti come i “Giletti gialli” o le “sardine” che cercano di colmare quel vuoto tra istituzioni e cittadini riempiendo le strade cercando di farsi ascoltare.  Questa crisi è generata dal fatto che è venuto a mancare quella cinghia di trasmissione tra politica e popolo rappresentata proprio dai partiti o da altre forme di organizzazione come i sindacati ormai messi da parte dalla cultura dominante che esalta l’individuo oltre alla corruzione e al loro mal funzionamento. In questa maniera, si crea quella frattura tra governati e governanti già evidenziata da Gramsci. In questa frattura si inseriscono attori politici che cavalcano il malcontento generato da questa frattura con l’obbiettivo di allargare questa frattura piuttosto che chiuderla perché il loro successo dipende essenzialmente da questa separazione. Il politico di turno con la sua demagogia si pone come un cuneo in mezzo a questa spaccatura tra governati e governanti; apparentemente questo cuneo sembra chiudere questa frattura tra popolo e politica ma in realtá la si sta allargando attraverso una demagogia che cerca di delegittimare le istituzioni e chi le occupa. L’obbiettivo è quello di separare definitivamente i due lati e sostituire una parte con il cuneo, ma una volta compiuta la separazione tutto crolla perché la demagogia non può reggere e tenere uniti a se i governati per un lungo periodo.

Quando il successo elettorale dipende soprattutto dalla capacità dei politici di attirare il consenso tutto si gioca sulla forza di questo politico di essere ben voluto dagli elettori. Essere ben voluti non ha nulla a che fare con le sue capacità o con la validità delle idee che porta avanti. Per avere successo un leader deve essere di bel aspetto (saper bucare lo schermo), apparire simile all’elettore (dire e fare come loro) per dare un illusione di rappresentatività, dire banalità che non scontentino nessuno e apparire come infallibile. Da questo si capisce perché un leader deve apparire senza macchia e atteggiarsi come un Superuomo che non sbaglia mai e non chiede mai scusa. La politica e le campagne elettorali non sono altro che una mercato dove l‘elettore compra un leader attraverso il proprio voto perché non c’è altro da comprare o dare fiducia. Siccome si ha un solo voto a disposizione si deve comprare il meglio e gli esperti della comunicazione devono cercare di far sembrare il politico il migliore che ci sia in circolazione. Questa è una delle ragioni per cui Salvini non hai mai chiesto scusa in maniera chiara alla sorella di Cucchi per le sue parole preferendo girandoci intorno. Chiedere scusa è un’ammissione di debolezza che rischia di distruggere un piedistallo fragilissimo fatto di tanta comunicazione e poca sostanza. Questo significa andare avanti senza possibilità di tornare indietro anche quando la strada è sbagliata. Mettendo prima di tutto la propria immagine come unico fine politico, le scelte politiche si riducono a iniziative che permettano di rafforzare questa immagine. L’azione governativa di questi anni si è contraddistinta soprattutto per iniziative mirate ad essere utilizzate per dare luce al leader che li proponeva più che all’interno di un progetto di cambiamento per il paese. Renzi con il suo referendum costituzionale è un chiaro esempio di tutto ciò. Prima, porta avanti una riforma costituzionale solo per rafforzare la sua immagine dell’uomo del fare capace di rottamare la politica, e poi continua ad andare avanti e difendere quella decisione scellerata anche quando è chiaro a tutti che fu una scelta disastrosa non solo per lui ma per tutto il suo vecchio partito di riferimento. Per questo motivo la personalizzazione della politica porta ad un deterioramento del dibattito politico e con esso un peggioramento della democrazia incapace di elaborare soluzioni.

Una politica costruita solo sul consenso e la popolarità dei politici diventa dannosa per la democrazia anche perché diventa naturale fare paragoni con il passato. Quando la politica si attorciglia attorno alle persone diventa facile fare confronti con i politici del passato che diventano la pietra di paragone per tutti gli altri che seguono, con il rischio che nessuno appaia all’altezza in quanto si finisce per idealizzare il punto di riferimento. Si finisce ad osannare il passato con un presente che non risulta mai all’altezza delle figure del passato come Nietzsche ci aveva messo in guardia. Non a caso si rimpiangono personaggi come Pertini, Berlinguer da una parte e Almirante e Mussolini dall’altra. I politici sono l’incarnazione delle istruzioni e della democrazia stessa. Se i politici non risultano all’altezza, tutto il sistema non risulta all’altezza. Questa è la ragione per cui, inconsciamente o consciamente, chi è all’estremo dello spettro politico e non ritiene centrale il mantenimento di un sistema democratico continua a fare paragono con politici del passato o con proiezioni ideali di politici del presente come Putin. Tutto questo rende più facile l’ascesa al potere degli estremisti. Mettendo in secondo piano le idee e criticando la classe politica attuale, l’estremista raccoglie il voto facendo dimenticare quello che veramente pensa permettendogli di andare oltre la solita cerchia di elettori soprattutto quando il clima sociale è solcato da tensione e insoddisfazione. L’ascesa di Maria Le Pen è stata possibile anche attraverso una comunicazione che la metteva al centro facendo passare in secondo piano tutto il resto legato legato alla sua provenienza politica.

La personalizzazione della politica trasforma le differenze programmatiche in battaglie personali dove alla fine tutto si riduce nell’essere o contro qualcuno. Per capire questo basti pensare a Renzi e al dibattito all’interno del PD prima della sua fuoriuscita. Le divisioni all’interno di un partito diventano più difficili da sanare in quanto le divisioni programmatiche si sovrappongono alle divisioni personali come è accaduto al partito laburista nell’ultimo periodo. Corbyn incarnava la “sinistra pesante” in una continua guerra di frizione con Blair alfiere della “sinistra leggera”. Il partito laburista è apparso in preda a lotte di potere interne che hanno pagato in termini elettorali. Le differenze programmatiche si trasformano velocemente in differenze personali, e invece di avere un dibattito politico foriero di idee si ha una lotta al potere tra diverse fazioni a sostegno del proprio capobanda.

Quando un leader si impone e inizia ad avere a una forza di attrazione sull’elettorato,  i rispettivi partiti che devono il loro successo al loro leader diventano dei partiti imbavagliati e incapaci di svolgere al meglio la loro funzione. Questa è una difficoltà non solo per i partiti personali legati a doppia mandata con il leader ragione d’essere della loro esistenza, ma anche per quei partiti in cui la personalità di un politico diventa così ingombrante da diventare il partito stesso. Le difficoltà della vecchia Lega Nord nel post Bossi possono essere spiegate anche in questa maniera, cosi come la scomparsa di Alleanza Nazionale nel dopo Fini. Anche un partito con un bagaglio ideologico ben definito come Rifondazione Comunista si è trovata in difficolta nel gestire il dopo Bertinotti. Quando il partito si confonde con il leader (Meloni e Salvini sono i migliori esempi al momento) tutti sentono il dovere di seguire e trovarsi d’accordo con il leader in quanto la loro elezione non dipende dal partito ma dal leader. Quando un leader è troppo popolare senza una visione, o la sua persona diventa così ingombrante da far sparire il resto, il leader politico diventa necessario alla sopravvivenza del partito di cui è a capo. Avere un’opinione diversa dal proprio capo diventa pericoloso in quanto si rischia di essere estromessi perché la “santificazione” del leader ai fini del marketing politico non permette obiezioni. Questa è un tipo sbagliato di leadership che ha paura del dissenso e crea conformismo. Una vera leadership non va confusa con il conformismo intoro al capo perché non tira fuori il meglio dei singoli ma premia soltanto la fedeltà. Proprio perché non può permettersi una discussione interna che mini la sua immagine di uomo forte e capace, i capi politici tengono a circondarsi e dare risalto a personaggi che hanno l’unico merito di essergli fedeli. I partiti smettono di avere la funzione di selezione di una classe dirigente dotata di idee proprie per diventare luoghi dove si premia l’adulazione e l’ossequio. Naturale conseguenza di tutto ciò è che se il leader sbaglia, nessuno lo contesta e tutti lo seguono fino a quando cade in disgrazia. Il partito non ha più un respiro temporale che va oltre il leader in quanto non vive più una vita propria ma dipende da quella del proprio capo

Una forte leadership senza una visione, un’organizzazione indipendente e una classe dirigente non permette al partito di svolgere al meglio le proprie funzioni: dalla selezione di una classe dirigente a rappresentare gli elettori, da centro di elaborazione di idee a sostegno degli eletti, dalla formazione degli eletti a centri di educazione politica delle masse. Il partito diventa soltanto una macchina elettorale nelle mani del capo politico con l’unico scopo di “santificare” e sostenere il proprio leader. In termini gramsciani, il partito smette di attirare e far funzionare al proprio interno gli intellettuali che hanno un ruolo guida per vincere la battaglia culturale necessaria per vincere quella politica. Solo funzionando bene, il partito può iniziare “il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta…riassumendo le volontà collettive parziali che tendono a diventare universali e totali”. In altre parole, solo un partito politico autonomo dal proprio leader può essere in grado di rappresentare il popolo sanando la frattura tra governati e governanti andando oltre le divisioni all’interno della società. Solo i partiti possono risolvere il problema della rappresentatività alla base della crisi della democrazia. Una democrazia è in grado di rispondere alle esigenze degli elettori solo se la classe politica è in grado di farlo.  Solo attraverso l’organizzazione degli intellettuali si può selezionare una classe politica adeguata capace di elaborare programmi per i futuro. Senza tutto ciò la democrazia diventa inutile perché incapace di risolvere i problemi dei governati. Quando questo accade, prima si contestano i partiti, poi i politici e alla fine la democrazia stessa.

M5S: tra crisi e futuro

M5S

Dopo Paragone, altri deputati hanno lasciato il M5S per andare nel gruppo misto. Il movimento si sta sfaldando non soltanto da un punto divista elettorale e questo non dovrebbe stupire nessuno. Lo sfaldamento del gruppo 5 stelle nel parlamento è la logica conclusione di un movimento cresciuto tantissimo ma che ha al proprio interno tutta una serie di caratteristiche che lo tengono insieme con molta difficoltà:

1) Non siamo né di destra né di sinistra. Ahimè per chi pensa di andare oltre (non si capisce dove) questa distinzione ancora c’è. Forse non a livello di partiti che li rappresentano ma certamente a livello di visone della società e di come si vuole organizzare il futuro. Al momento delle scelte, i nodi si sono presentati al pettine con tutti i malumori. Inoltre la distinzione tra destra e sinistra al netto del contenuto politico, è una componente delle identità personali, non solo degli elettori, ma anche di chi fa parte di quel gruppo parlamentare. Non si poteva pensare di passare dall’alleanza con la lega al PD come nulla fosse. Qualcosa la perdi non solo nell’efficacia della comunicazione ma soprattutto di tenuta del movimento.

2) Una delle divisioni politiche di oggi è quella tra sovranismo e internazionalismo che si sovrappone a quella tra destra e sinistra e che obbligherà le forze politiche a prendere posizione. Una posizione, non tutte e due. Si è partiti con improponibili referendum anti-Euro per poi votare la Von Der Leyen. Questa distinzione risulta cara a tanti elettori soprattutto quando diventa uno dei temi principali della campagna elettorale. Se non prendi posizione, perdi il voto di chi ha un’idea precisa. Lo stesso accade ai deputati che vanno dove batte il cuore come da punto 2. Prendedno un esempio estero, la sconfitta del partito laburista può essere interpretata anche in base alla poca chiarezza nei confronti della Brexit.

3) Senza starci troppo a girare, il M5S è cresciuto grazie ad un sentimento crescente di antipolitica e di rigetto dei partiti. Tutta la comunicazione è stata basata sui politici corrotti, incapaci e di come la politica faccia schifo e fatta solo di interessi personali. Questo può essere vero o meno ma una volta arrivato al potere si diventa parte di quel mondo tanto vituperato e vieni accostato ad esso. Questo soprattutto se ti allei con il PD che per loro incarnava tutto il male possibile e immaginario. Una volta alleati con il PD, diventi vittima della tua stessa propaganda dato che è facile per l’elettore fare il ragionamento del “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. Il tutto peggiora se all’opposizione rimane chi continua a utilizzare la stessa propaganda anti-PD che tu non puoi più utilizzare. Questo significa che anche per gli stessi deputati diventa difficile lavorare con il “diavolo” in persona soprattutto nell’epoca dei social dove il deputato sente il polso della situazione giorno per giorno sulla sua pagina personale.

4) La leadership Di Maio ha mostrato tutta la sua debolezza. Puoi creare un fenomeno mediatico ma non uno statista. Essere popolari non significa che si ha carisma e nei momenti di difficoltà se ne accorgono tutti. Debolezza ancora più forte quando hai all’interno del partito uno come Di Battista che mina la tua credibilità. Di Battista parlava tutti i giorni durante il Conte 1 e l’ha aiutato a tenere insieme il movimento. Durante il Conte 2, si è ritirato in un silenzio giocando la parte di quello che aspetta che  il fiume gli porti il cadavere… ovvero il cadavere politico di Di Maio. Non è un caso che l’ulteriore fuoriuscita dal movimento avviene dopo la presa di posizione in difesa di Paragone.

5) Il M5S manca totalmente di una classe dirigente adeguata. Questo non riguarda solo la mancanza di un leader credibile ma soprattutto di un gruppo dirigente adeguato che possa tenere la barra dritta nei momenti di difficoltà. Un gruppo che all’interno del parlamento possa tenere insieme i parlamentari e fornire sostegno ai ministri. Un’armata Brancaleone non serve né al governo né a se stessa. Questo nasce direttamente dal limite di cooptare i propri esponenti tramite voto online scegliendo tra sconosciuti rendendo la politica simile ad un talent show. Nel breve periodo crea consenso perché sembra una cosa bella che rompe gli schemi, ma la politica richiede anche efficacia.

6) Il contatto con la realtá è fondamentale. Fare promesse serve a vincere le elezioni ma una volta arrivato al potere ne paghi le conseguenze come chi fa marketing spacciando i propri prodotti come miracolosi per rifilare delle ciofeche. Fai fesso l’elettore una volta ma non la seconda. Anche lo stesso deputato ala fine si accorge che va tutto a rotoli e non gli rimane che saltare su barche che non affondino. ILVA, TAP, secondo mandato, niente alleanze, immunità parlamentare etc sono tutti disastri creati dal promettere tutto a tutti per poi pagare il conto quando la realtá ti presenta la fattura. La troppo semplificazione della realtá aiuta a creare consenso ma non aiuta a governare.

7) Una politica fatta al servizio della comunicazione e non viceversa. Tutte le decisioni, tutti gli atti compiuti, tutte le dichiarazioni sono state fatte per creare e mantenere il consenso. Nel lungo andare,  sei costretto a pagare le conseguenze di una politica fatta solo per essere usata a livello mediatico per creare entusiasmo. L’anno bellissimo, l’aver sconfitto la povertà o salire sul balcone gridando vittorie si scontra ancora una volta con la realtá della gente di tutti i giorni. Una politica al servizio della comunicazione non è solo un problema di come appari ma influisce pesantemente su come fai politica. La necessità di avere continuamente elementi per la comunicazione mette fretta alla politica con misure fatte male e in fretta come il reddito di cittadinanza che necessitava una riforma dei centri dell’impiego oltre ad una fonte diversa di finanziamento. La comunicazione al servizio della politica significa ancorarsi a posizioni precise e nette ripetute in maniera ossessiva. Questo significa creare scontento quando si cambia posizione o rende difficile arrivare a compromessi che sono necessari in politica. Scontento che aumenta le crepe all’interno del gruppo parlamentare. Fino a quando le cose vanno bene, il tutto viene nascosto. Quando l’euforia passa, allora ci si accorge di tutto quello che non andava.

8) La mancanza di una vera democrazia interna (plebisciti on line a uso e consumo dei dirigenti non si puó chiamare democrazia), che permetta un dibattito interno, rende molto difficile la gestione dei conflitti interni. Se si è contrari, l’unica scelta è quella di uscire dal partito perche non è possibile esprimere il proprio dissenso e cercare di influenzare il movimento e portarlo dalla propria parte. L’alternativa é quella di essere uno schiaccia bottoni per il gruppo dirigente, una forma estrema di partitocrazia per chi ha sempre visto la parola partito come una parolaccia,

9) Che piaccia o no, l’etica da sola non aiuta a governare. Questo non significa arrivare “al sangue e merda” di Rino Formica ma almeno ricordarsi di quel concetto machiavellico che ha dato la nascita alla moderna scienza politica: la separazione tra morale e politica. Questo non significa che per fare politica bisogna essere corrotti o comunque immorali. Quello che Macchiavelli intendeva e rimane ancora valido (che piaccia o no perché Macchiavelli fa i conti con la realtá e non con il mondo che vorremmo) è che c’è una distinzione tra una morale personale e una morale politica. La politica ha una propria morale che non risponde a quella individuale. L’ essere buoni, generosi, moderati etc non aiuta alla conquista del potere e a mantenerlo. Per far ciò sono necessarie tutta un’altra serie di qualità come per esempio il saper cogliere l’occasione, l’essere motivati dalla gloria personale e il non curarsi troppo del giudizio degli altri. Il Principe mantiene il potere non facendosi ben volere ma attraverso la paura che incute. Tutto questo non è fine a stesso ma deve essere al servizio di un obbiettivo comune e duraturo che va oltre il principe e il suo tentativo di raggiungere la gloria: il benessere dello stato o di una comunità. Con questo non voglio dire che i 5 stelle siano ingenui (anche se alcuni ne danno ampia dimostrazione). Una volta al potere hanno mostrato di aver imparato bene la politica in termini macchiavellici, basti pensare alle tante giravolte soprattutto sull’immunità data a Salvini per salvare il potere o l’alleanza con il PD. Il problema nasce dal fatto che per anni si sono venduti come i puri e il loro elettorato si aspettava un certo tipo di politica con una morale che non è quella politica. Ancora una volta, l’elettorato (e molti deputati) si sono sentiti traditi e da qui la delusione. Non si fa politica per fare testimonianza ma per raggiungere degli obbiettivi. Dopo aver fatto imbracciare il santo velo della purezza ai propri elettori e parlamentari, è stato un trauma rendersi conto che non si può volare sopra il terreno della politica immacolati perché quel terreno è spesso fatta dalle sostanze esplicitate da Rino Formica.

Questo non vuol dire che il M5S sparirà a breve. Il movimento, grazie alla sapiente arte dell’utilizzo della comunicazione politica online della Casaleggio Associati, ha uno zoccolo duro di elettori la cui appartenenza al M5S va oltre la politica e fa parte della loro identità individuale. Questa crisi di crescita naturale che ogni movimento incontra una volta che passa dall’opposizione al governo, sarà apocalittica o meno nel lungo periodo in base alla capacitá del movimento 5 Stelle di compiere la trasformazione da movimento a partito. Questa trasformazione non è tanto nel nome ma nelle funzioni e nell’organizzazione che passa per: creazione di una classe dirigente nazionale e soprattutto locale, l’attrazione e l’uso degli intellettuali per imporre la propria visione nel popolo, la definizione di una visione del futuro che impone scelte (a destra o a sinistra), un organizzazione precisa che eviti l’uso della democrazia diretta a uso e consumo dei dirigenti, una maggiore trasparenza e indipendenza dalla Casaleggio. Per far ciò significa abbandonare alcuni tratti dell’antipolitica che costituiscono parte della ragion d’essere del M5S e comprendere che la crisi della democrazia a cui fanno riferimento non è altro che la crisi dei partiti. Non esistono democrazie senza partiti perché non esiste una vera rappresentatività senza un’organizzazione della società civile. Il M5S ha sfruttato questa crisi per poi diventarne vittima delle stesse cause che l’hanno generata. In parte questa trasformazione è iniziata ed è stata fatta adottare piano, piano, non tanto dal proprio elettorato, ma soprattutto dal loro zoccolo duro. Il tutto sta nella capacità di portarla a termine mantenendo il proprio elettorato. Compito difficile dopo anni di assalti all’arma bianca ai partiti, ai politici e dunque indirettamente alle istituzioni. Da questa trasformazione dipende l’eredità del M5S: coloro che hanno rinnovato la democrazia italiana o la grande lavatrice dei voti per l’estrema destra.

La leadership oltre il consenso: la necessità di una visione

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Al giorno d’oggi si discute molto della necessità di avere un leader per la sinistra o per qualsiasi forza politica che miri a vincere le elezioni. I partiti sembrano incapaci di avere una vita autonoma diventando succubi del leader di turno a cui devono tutte le loro fortune elettorali. Invece di partire da un’analisi dei problemi del nostro tempo e riflettere sulle soluzioni, si fa partire la discussione su chi deve portare avanti questi compiti. Un modo di ragionare figlio di un tempo che ha rinunciato ad aver fiducia nella ragione e si affida al salvatore della patria. In questa maniera la democrazia si riduce ad un vuoto scontro di personalità dove vince chi è in grado di creare il fuoco delle vanità più grosso. A beneficiare di tutto ciò sono i guru della comunicazione politica che creano leaders mediatici al fine di vincere le elezioni ma, purtroppo per noi, non possono creare statisti. Alla comunicazione purtroppo non serve avere dei statisti per avere successo, ma solamente un politico che si sappia vendere e capace di entrare in sintonia con i potenziali elettori. Arrivati al potere sulla spinta emotiva che riescono a generare, l’essere popolari dura poco e aiuta solo in parte a governare. Puntando tutto sulla comunicazione, i politici perdono la loro spinta riformatrice perché incapaci di fornire un’alterativa valida e reale e sono costretti a prestare il fianco al nuovo leader emergente di turno che si sta già presentando come il nuovo che avanza. La creazione del consenso e governare sono tenuti distinti o, peggio ancora, il governare diventa secondario alla creazione del consenso. Giustamente lo sforzo principale è quello di vincere le elezioni ma una volta arrivati al potere diventa difficile mantenere il favore degli elettori e l’azione governativa viene guidata solo dalla volontà di mantenere il consenso attraverso proposte disparate che colpiscono l’immaginario con nomi roboanti ma senza un vero cambiamento.

Il problema di fondo è che si confonde leadership con la capacità di attirare il favore degli altri ma la leadership va ben oltre il sapere essere popolari. La leadership in politica è importante quando va oltre la popolarità e diventa carisma capace di guidare un partito o un paese verso un obbiettivo senza la necessità di trascinare la propria organizzazione come un fardello con tutte le difficoltà che ne conseguono. Per questo motivo la leadership non va confusa con il saper essere popolari o il semplice essere a capo di un qualcosa. I politici non sono degli attori o dei concorrenti di un talent show e il loro scopo non può limitarsi soltanto alla ricerca del consenso. Il leader certamente deve avere carisma ma il fatto di avere il favore degli elettori non significa che quel carisma sia un capitale sufficiente per fare politica una volta vinte le elezioni. Il consenso può nascere per ragioni sbagliate: antagonisti deboli o inesistenti, bugie, incomprensioni o semplicemente una comunicazione efficace che crea il momento al netto delle capacità reali del politico. L’essere popolari è utile per vincere le elezioni ma la vera leadership è quella che si manifesta nei momenti delle scelte politiche quando il leader è capace di farsi seguire dai propri seguaci.  La politica, come la vita per Kierkegaard, è fatta di scelte e il vero leader lo si vede in questi momenti. Per questo motivo i guru della comunicazione possono creare il consenso ma non la leadership. Comunicazione politica e politica vengono confuse come se fossero un’unica cosa e si lavora solo per essere popolari con scelte politiche fatte solamente per mantenere quella popolarità con una leadership finalizzata al mantenimento del consenso. Il sostegno popolare viene usato per conservare il potere e non viene usato per fare politica e raggiungere degli obbiettivi al servizio del paese. Fare politica significherebbe infatti compiere scelte che possono scontentare con il rischio che la comunicazione non sia piú sufficiente a tenere insieme un elettorato con interessi diversi. Una leadership fatta solo di consenso é costretta alla paralisi, come un gigante fatto di tanti pezzi tenuti insieme in maniera posticcia e destinato a perdere pezzi ad ogni movimento, rassegnandosi a rimenere fermo mentre il mondo corre veloce. In altre parole, parafrasando Macchiavelli, il leader diventa “principe” quando realizza un’agenda politica mirata al cambiamento senza perdere il consenso, dove il sostegno popolare è solo un mezzo ad un fine più grande. Molto politici attuali hanno imparato bene la lezione del politologo rinascimentale su come mantenere il potere ma hanno dimenticato che il mantenimento del potere deve essere legato ad un obbiettivo.

Una tale leadership non serve a nessuno tranne che al leader. Il dibattito politico si sposta non sui problemi del paese ma sulle qualità delle persone. Anche i temi vengono scelti in base alla comunicazione politica in maniera da mettere in risalto il leader. Il dibattito politico viene semplificato, si cercano nemici e si dice agli elettori quello che desiderano ascoltare. In atre parole la democrazia diventa demagogia come già Socrate ci aveva avvisato sui pericoli della democrazia più di 200° anni fa. La personalizzazione della politica, la possibilità che internet e i social danno di rivolgersi direttamente all’elettore evitando il confronto, il disinteresse dei cittadini verso la politica e l’uso privatoche ne fanno sono tutti elementi che contribuiscono alla degenerazione della democrazia.

Come possiamo evitare che la personalizzazione della politica possa danneggiare le nostre democrazie? Quali sono gli elementi di una leadership che vanno oltre l’essere popolari? Come possiamo unire la ricerca del consenso con il governare? Come unire la necessità del breve periodo che impone di vincere le elezioni con il bisogno di lungo raggio mirata al cambiamento? Qual è la leadership di cui abbiamo bisogno?

La teoria manageriale ha prodotto una valanga di articoli e libri per definire cosa sia la leadership e le sua differenze con il management. Questa ampia letteratura ha cercato di definire le caratteristiche che fanno di una persona un leader in quanto non basta essere a capo di un gruppo di persone per essere leader. Mentre il manager ha uno stile preciso di commando basato principalmente su regole, controllo e punizione, è molto più difficile definire cosa sia un leader perché ogni leader ha il suo stile. Al netto di come la leadership si manifesta caso per caso, possiamo dire che la leadership è un arte che sfugge a schemi precostituiti ma che ha un filo conduttore comune: la capacità di muovere il singolo componente del gruppo verso un’unica visione. Senza l’uso del controllo o la minaccia di punizione, i componenti del gruppo trovano in se le motivazioni per realizzare la visione indicata dal leader. Un leader propone una visione, la fa adottare con entusiasmo dai propri seguaci e ognuno di questi lavora da solo per portare a termine questa visione in maniera quasi autonoma. Per un’azienda significa non solo avere impiegati felici e motivati ma la possibilità di concentrarsi su attività molto più importanti che il semplice controllo dei propri dipendenti. In un paese come l’Italia dove abbiamo uno strano rapporto di servilismo e sfiducia nei confronti del potere, dove la tradizione cattolica ha limitato l’indipendenza dell’individuo, le nostre grandi aziende producono molti manager e pochi leader. Un elemento costitutivo del leader è dunque la capacità di fare adottare una visione dai propri seguaci. Questa visione costituisce non solo la ragione d’essere della leadership ma serve come stella polare ai suoi seguaci nel momento in cui vengono compiute quelle scelte che definiscono la politica. Una volta che si ha un obbiettivo da raggiungere, tutti si muoveranno in quella direzione in maniera autonoma perché mossi dalla capacità carismatica del leader. In altre parole, la visione è l’elemento capace di scaldare i cuori e trasforma i seguaci in promotori della visione del leader.  Senza una visione la leadership diventa solo e soltanto culto della personalità. Tutti i guru della comunicazione parlano di visione da far incarnare dal leader ma è una visione a uso e consumo della comunicazione politica scollegata dalla realtá politica. Un libro di sogni usato per incantare gli elettori non è una visione. Una visione costruita attorno ad un leader con il solo obbiettivo di fargli vincere le elezioni non è una visione. La visione non si esaurisce in semplici discorsi o alla ripetizioni ossessiva di parole o concetti. Certamente non si può limitare la visione a identificare nemici e scaricare la propria rabbia contro essi.  Nel breve periodo tutti questi stanchi surrogati permettono di mantenere il consenso ma con il lungo andare, il loro effetto svanisce. Una volta arrivati al potere, questo tipo di visione si traduce in misure eclatanti che mirano solo e soltanto a dare luce al leader ma che servono poco al paese.  La parabola di Renzi è un chiaro esempio di tutto ciò.

Una vera visione non può nascere dai guru della comunicazione. La visione che loro possono costruire e a cui giustamente ambiscono è di breve periodo e mira solamente a vincere le elezioni. Una volta vinte le elezioni, essa non serve più a guidare il paese. Certamente serve una visione che possa essere sfruttata nella comunicazione ma questa visione deve trovare linfa da una visione più grande e articolata che riguarda il paese e i suoi veri problemi. Avere un’idea del paese per il futuro che serva come punto di partenza per l’azione governativa è un qualcosa che va oltre il leader: è il  leader al servizio della visione e non il contrario.  Il sapere dove andare e la creazione di una visione per il futuro dovrebbe essere il punto di partenza per la sinistra per uscire dal vicolo cieco in cui si é trovata. Come detto in precedenza, la sinistra non è più in grado di relazionarsi ad una società frammentata. La sinistra non può più ridursi ad andare dietro ad ogni pezzo di società. La visione serve a imporre temi  e guidare le campagne elettorale per non inseguire la destra sui terreni a loro congeniale: sicurezza, immigrazione, tassazione, difesa dell’identitá nazionale etc. Una volta creato entusiasmo intorno ad alcuni obbiettivi, una volta fatto adottare come priorità questi temi dall’elettorato, tutto il resto passa in secondo piano. Il singolo elettore che magari ha cuori altri temi si convince che ci sono temi più importanti e vota di conseguenza sperando che quello che gli sta a cuore venga preso in considerazione una volta che le problematiche più importanti vengono risolte.

Avere una visione non significa che il leader non é piú necessario o che se ne possa fare a meno. In democrazia le personalitá svolgono un ruolo importante per attirare l’elettorato ed é impssibile farne a meno. Quando si ha una visione precisa del paese, il leader non scompare ma gioca ancora un ruolo importante anche se diverso. Quello che un leader deve fare è trasformare degli aridi punti programmatici in carburante per creare entusiasmo. Il leader incarna la visione diventandone il potabandiera. Il suo saper essere popolare deve essere utilizzato per iniettare nella società valori e idee a uso e consumo della visione per cui lui è al servizio. In questa maniera i destini di una parte politica o di un’ideale non sono legati a doppio filo con una persona. Il politico può cadere in disgrazia, può essere cambiato o passare ad altri ruoli ma la visione rimane. Chiunque voglia prendere il potere all’interno di un partito deve raffrontarsi a questa visione evitando che il Renzi di turno imponga la sua persona ad un partito senza idee o lo porti a scelte contraria alla propria natura.

Per far tutto ciò è necessario avere un partito che leghi a se gli intellettuali affinché questa visione venga elaborata e adottata dalla societá. La visione fa parte della battaglia culturale tanto cara a Gramsci. Per far ciò bisogna prendere decisioni e avere un respiro di lungo periodo. Bisogna smetterla di essere un partito “catch all” e avere il coraggio di saper dire no. Bisogna avere un’idea precisa di futuro che permetta di creare una base sociale maggioritaria di riferimento e permetta di attirare gli intellettuali che saranno legati ad un partito e non ad una persona. Tutto questo non può essere fatto in poche settimane né tantomeno si ha l’illusione che questo basti a vincere le elezioni perché gli elettori sceglieranno sempre il venditore di dolci al medico come Socrate ci ha fatto notare. Il leader politico carismatico e ben voluto che sappia attirare il consenso serve anche a questo. Lui e i guru della comunicazione possono contribuire al successo elettorale creando una visione facile da consumare da parte all’elettorato basata su di una visione più articolata che permetta di governare nel lungo periodo. Se la visione venduta in campagna elettorale dal leader è allineata alla visione di lungo respiro di un gruppo dirigente, sarà possibile governare e fare delle scelte senza che queste scelte comportino necessariamente la perdita del consenso.

Prima di scegliere un leader bisogna creare una visione di lungo periodo, proporre un’idea di paese su cui lavorare e attirare una classe dirigente. Questo può essere fatto soltanto da un partito che ponga come mezzo di rappresentazione di un gruppo sociale che ambisce a quella visione. Traducendo nel linguaggio corrente, prima si crea un qualcosa da vendere, poi si sceglie il venditore con il messaggio pubblicitario da utilizzare. Per creare la fidelizzazione bisogna che il messaggio pubblicitario sia conforme al prodotto. Se la differenza tra quello che si promette e quello che si vende è troppo ampio, si perde il cliente. La visione a corto termine mirata a creare il consenso non deve essere creta in un vuoto solo per dire agli elettori quello che loro amano sentire ma é legata ad una visione di lungo periodo elaborata da un partito e dal suo gruppo dirigente.   Solo in questa maniera il consenso può costituire una base per poter governare i maniera efficace grazie anche ad un leader capace di mediare tra  la necessità dell’immediato  e la necessità del lungo periodo. Ill leader é il punto d’incontro tra la visione di corto periodo a uso e consumo della comunicazione politica e la visione di lungo periodo che serve per governare. Se queste due necessità sono troppo differenti, il leader non sarà in grado di governare efficacemente arrendendosi a quella di corto periodo cercando di mantenere il potere senza un risvolto positivo per il paese.

 

La sconfitta dei laburisti in Gran Bretagna

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Le elezioni in Gran Bretagna hanno rappresentato non solo una sconfitta per Corbyn e il partito Laburista ma anche per quella sinistra che avevamo definito pesante.  Il risultato delle elezioni britanniche non fa altro che rispecchiare una tendenza evidente in tutti i paesi a democrazia matura e con uno sviluppo economico superiore. Corbyn aveva incarnato la speranza per la sinistra di poter cambiare il vento ed arrivare al potere senza snaturare i propri principi per inseguire gli elettori. Nonostante le divisioni interne, i risultati elettorali avevano in qualche maniera dato ragione a Corbyn fino al 10 dicembre dove il partito laburista ha subito una pesante sconfitta, anche se per la verità più in termini di seggi che per voti grazie al sistema elettorale maggioritario. Quali sono le ragioni di questa sconfitta?

La prima ragione è legata ai mutamenti culturaliche abbiamo evidenziato in precedenza. Il risultato in Gran Bretagna è l’ennesima conferma di come la cultura dominante che trasuda nei media e nei social formando il modo di pensare del presente si concilia male con la sinistra. Il programma di Corbyn aveva una visione collettiva a favori dei ceti meno ambienti. Temi come la difesa del sistema sanitario nazionale, fine dell’austerity, tassare i milionari e aiutare chi è indietro sono risultati indigesti ad un presente che esalta l’individuo. La lotta di classe è finita e l’hanno vinta coloro che sono al vertice della piramide sociale. In quel vertice ci sono pochi individui ma tutti pensano di essere li. Molti operai (blue collars) hanno infatti votato Tory anche nella cosiddetta cintura rossa fatta di miniere e industrie pesantemente ridimenzionate dalle politiche thatcheriane. Il grande successo del capitalismo moderno è stato quello di ridurre i conflitti sociali mentre le diseguaglianze aumentano. Come Picketty ha dimostrato, la disuguaglianza economica e tornato ai livelli anteriori al primo conflitto mondiale e il divario tra lavoro e rendita continua ad aumentare con poveri che rimangono poveri e ricchi che diventano sempre più ricchi grazie non al lavoro ma alla rendita ereditata. Nonostante la forte divisioni sociali, i conflitti sociali non sono cosi acuti come ci si aspetterebbe per diverse ragioni tra cui: mancanza di forme organizzate all’interno della società, azionariato diffuso che fa si che il piccolo possessore di azioni prenda le posizioni del grande speculatore finanziario, il migrante usato come minaccia alla propria posizione sociale e soprattutto la grossa bolla mediatica di esaltazione di valori legati al consumismo e alla riuscita sociale dove l’altro é visto come un ostacolo. Il miglioramento della propria posizione economica non passa piú dall’organizzazione collettiva tramite partiti e sindacati come nel passato ma attraverso la propria azione individuale e gli altri sono visti non come possibili alleati ma come ostacoli.  In questa maniera  non si è votato in base alla condizione economica e sociale attuale ma in base alle proprie aspirazioni. Le proprie difficoltà economiche non sono viste come conseguenza di un sistema truccato che penalizza chi lavora. Invece di cambiare il sistema, si vota per rafforzarlo perché si accetta passivamente come unico mondo possibile quello in cui ci troviamo.

La seconda ragione riguarda la comunicazione ma anche qui bisogna partire dalla questione sociale. Corbyn e il partito laburista (per lo meno prima di Blair) hanno sempre fatto appello a una classe sociale ben definita. La lotta di classe risultava da collante tra le diverse esigenze della società rendendo secondarie tutte le altre istanze. Una volta esaurita la spinta delle rivendicazioni sociali e con una società esplosa in termini di domande (ambiente, diritti delle minoranze, Europa, immigrati, diritti degli animali etc), la sinistra ha provato a dare una risposta a tutto creando divisioni senza un collante che tenga tutto insieme . Il partito conservatore ha puntato tutto sulla Brexit imponendo il tema nelle elezioni e usandolo come collante per rivolgersi ad un elettorato eterogeneo in termini di richieste. Il tema della Brexit ha infatti permesso di tenere insieme varie esigenze raccogliendo il voto degli operai cosi come dei finanzieri. Invece di avere un manifesto elettorale dettagliato che genera anche ostilità perché è difficile fare tutti contenti su tutto, Johnson ha puntato su un unico tema che trovava il favore e la determinazione ad andare a votare di una grossa fetta di elettorato. Tanta gente stanca di una discussione che dura da anni ha votato chi aveva un’idea chiara per porre fine a una diatriba infinita anche se sul tema della Brexit non aveva un’opinione precisa. Il tema della Brexit ha permesso anche di mettere tutto il resto in secondo piano mettendo fuori gioco la piattaforma elettorale dei laburisti. Anche chi era contrario all’austerity ha votato per i Tory convinto che la Brexit fosse il tema primario di queste elezioni. Il partito laburista, pur portando avanti molti più temi e per la verità anche più vicini alle esigenze della gente comune, ha fallito in quanto incapace di guidare il dibattito portato avanti dai conservatori che avevano puntando su un unico tema. La ragione principale del fallimento nella comunicazione è stato nel non essere riusciti ad imporre questi temi parlando di cose che alle persone risultavano poco importanti in quel momento. Una volta che il tema della Brexit si è imposto, il partito laburista non è stato in grado di dare una risposta chiara vacillando tra la richiesta di un secondo referendum e un accordo diverso con la UE. Un altro errore che riguarda la comunicazione è la maniera con cui il partito laburista é percepito, ovvero il partito degli operai. La classe operaia che forniva la base del voto laburista si è ristretta a causa della deindustrializzazione facendo mancare una base sociale solida di riferimento con aspirazioni maggioritarie. Chi ha un lavoro impiegatizio non vota per i laburisti per non ammettere a se stesso che fa parte di una classe sociale poco attraente soprattutto in un’epoca dove l’apparenza che regna sui social la fa da padrone. Se la lotta di classe è finita, allora vale la pena salire sul carro dei vincitori anche se il nostro posto sarebbe quello dei vinti. Chi invece naviga nella precarietà, nella disoccupazione o in settori poco sindacalizzati fatica a riconoscersi nel partito laburista visto come lontano a protezione di privileggiati..

La terza ragione riguarda la questione che l’antisemitismo ha giocato, non tanto per il sostegno degli ebrei ma soprattutto dell’aera liberal dell’elettorato. La questione è importante non solo da un punto di vista elettorale ma anche per capire come i social e i mass media riescano a distorcere il dibattito a favore della destra. Sicuramente ci sono degli antisemiti all’interno del partito laburista ma questo non giustifica i toni apocalittici usati dai media tanto da far percepire l’idea che gli ebrei britannici sarebbero stati in pericolo in caso di una vittoria laburista. Certamente Corbyn ha gestito la questione in maniera fallimentare ma non penso che lui sia antisemita anche alla luce del suo passato antirazzista. La ragione principale alla base di questa questione sta nell’incapacità di distinguere tra antisemitismo e critica allo stato d’Israele. Il partito laburista e lo stesso Corbyn hanno criticato le politiche d’Israele nei territori occupati ma questo non significa essere antisemiti. Ignorando questa distinzione, è stato facile per gli esperti della comunicazione conservatori far passare l’idea di Corbyn come antisemita e sminuire i temi effetivamente razzisti usati da Johnson e dai conservatori in precedenza. Quello dell’antisemitismo è solo un esempio di come sia semplice distorcere la realtá attraverso una comunicazione che sfrutta un elettorato sempre meno informato e soprattutto incapace di ragionare dopo anni di disastri nella scuola pubblica. Cosi difendere i migranti diventa antinazionale, difendere i diritti degli omosessuali diventa anti famiglia, difendere la laicità dello stato diventa anticristiano, difendere i diritti dei detenuti diventa proteggere la criminalità, essere europei diventa traditori della paria etc. Questo costringe la sinistra a dimenarsi su diversi temi, a spiegare ed elaborare con il risultato di apparire confusa e lontano dalle esigenze degli elettori che votano la destra moderna con un bagaglio ideologico minimo basato tutto sulla comunicazione. Questo diventa più semplice con i social dove la gente viene a contatto e condivide parole d’ordine (i cosiddetti meme) che permettono poca discussione. Cosi una bugia ripetuta diventa realtá e le questioni complesse vengono semplificate per essere usate dagli spin doctor e consumate da chi è in cerca di una comprensione della realtá. Proprio per il fatto che la sinistra non è in grado di imporre un unico tema come collante, la confusione su tanti temi aliena molti elettori. Nel caso specifico, la questione dell’antisemitismo ha alienato il voto di tanti moderati il cui essere anti razzisti costituisce una componente importante della propria identità. Questi non hanno votato forse il partito conservatore ma magari hanno votato altro (SNP o Liberaldemocratici) o non sono proprio andati a votare.

Per il partito laburista cosí come per tutta la sinistra si tratta di capire cosa fare. Nel lungo periodo certamente bisognerebbe puntare a cambiare la cultura dominante ma questo risulterà sempre difficile soprattutto in un’epoca dove la comunicazione è frammentata. Nel breve periodo però qualcosa si può fare. Oltre a scegliere un nuovo leader e avere una visione del paese condivisa, bisogna scegliere un tema forte dove la destra ha difficoltà e imporlo nel dibattito pubblico. Questo tema può nascondere le divisioni all’interno della sinistra, fornire un collante ai vari temi e permettere di andare oltre la propria classe di riferimento. Si tratta forse di fare più comunicazione che politica ma il ruolo della politica è sempre stato quello di sposare i mezzi con i fini.

Beppe Grillo “Ci serve del tempo”

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/06/12/ci-serve-del-tempo-puntiamo-ancora-a-unitalia-diversa/5249009/?fbclid=IwAR3yFNp_eA1enUW5Z9oKRoNegDLPKUZoBnsgCRLEiBXAhpdahwkMRUakcpg

 

Il M5S è arrivato al governo con la logica del tutto si risolve in poco tempo e che basta la volontà politica per avere un futuro migliore: non servono gli esperti, non servono partiti per elaborare politiche, il male è solo frutto del marcio e per risolvere le cose basta mettere gli onesti al potere tanto anche una casalinga può fare il ministro delle finanze. Hanno sempre ignorato nella loro narrazione i limiti che la realtà impone e ora chiedono tempo una volta che si sono accorti che la realtà non si piega docilmente alla propria volontà. Il problema non è chiedere tempo ora ma quando si semplificavano le cose.
Il M5S pur non essendo un partito ideologico si pone in una visione utopica della politica che non tiene in considerazione i suoi limiti e davanti ai fallimenti preferisce dare la colpa ad altri perché per definizione loro non possono fallire in quanto si ritengono sempre nel giusto in una visione messianica della politica. Anche in quest’intervento, Grillo continua ad agire in questa logica che impone la caccia ai “cattivi” non avendo alternative data la natura del M5S. Infatti i grillini ponendosi come salvatori, ultima speranza e cavalieri senza macchia li obbliga a ritenere chi la pensa in maniera diversa non portatore di idee legittime ma un corrotto o al massimo un pidiota che pone ostacoli. Dato che loro incarnano il giusto e il vero, chi si oppone non può che essere in malafede.

Nonostante la vantata novità (e gli aspetti innovativi ci sono e sono tanti), il M5S si pone in continuità all’interno di una dinamica storica che dissocia il dibattito politico dai problemi all’interno di in una visione irrazionale della politica. Con la fine delle ideologie, il crollo dei partiti e l’avvento di Internet, il dibattito politico diventa sempre più una guerra di marketing. Ad economisti e filosofi, i politici hanno sostituito i guru del marketing tra cui possiamo annoverare la Casaleggio Associati. Il dibattito politico è sempre stato un mezzo per arrivare al potere (lungi da me l’avere una visione romantica della lotta politica) ma per lo meno lo scontro ideologico partiva dai problemi della società e obbligava la discussione (limitata per ampiezza in quanto si svolgeva sui giornali o sulle poche tribune elettorali televisive) su pochi temi concreti e di stampo razionale. Questo era dovuto principalmente ai mezzi di comunicazione limitati che riducevano la possibilità da parte del politico di fare appello alle emozioni degli elettori.
Alla fine il M5S con la loro semplificazione e il costante appello alla rabbia delle persone ha accelerato quel decadimento della democrazia (di cui non sono causa) anche se partendo da premesse valide. La delusione creata, insieme alla loro retorica contro la democrazia rappresentativa e contro tutte le forme tradizionali di organizzazione della società (senza una vera alternativa online) sta accelerando la sfiducia nella democrazia. La convinzione che tutto si risolve e che basti la volontà politica (da qui il diffondersi del cosiddetto complottismo a cui il M5S ha sempre strizzato l’occhio) non farà altro che aumentare la sfiducia nella politica e nella democrazia non lasciando altro che la speranza di affidarsi al prossimo uomo forte.

Per il M5S si sta defilando l’incubo di ogni persona che lavora nel marketing: promettere più di quello che il proprio prodotto possa offrire. Questa dissociazione è ancora più grave soprattutto quando il prodotto da vendere non é altro che una relazione che dovrebbe durare nel tempo come il rapporto tra un partito e i propri elettori. Dopo aver convinto che sia tutto facilmente risolvibile, la gente passa al prossimo pifferaio magico tradendo chi li ha delusi perché non ha creato il paradiso in terra promesso. Il voto a Salvini si può spiegare anche in questa maniera. Potranno cambiare il personaggio che incarna il messaggio pubblicitario (da Di Maio a Di Battista), potranno rimodellare la loro comunicazione (tornando all’opposizione e continuare a dare addosso a chi la pensa in maniera diversa) ma non saranno mai una vera alternativa (nel senso di cambiamento effettivo delle cose) fino a quando il loro messaggio sarà disconnesso dalla realtá e non avranno una classe dirigente che oltre ad essere brava a parlare alla pancia delle persone sia in grado di trovare soluzioni senza promettere la luna nel pozzo.