Come i social hanno radicalizzato il voto

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Negli articoli precedenti ci siamo soffermati sui cambiamenti culturali che stanno trasformando la nostra società mettendo la sinistra, i suoi valori e ideali in un angolo. Il ripiegamento su sé stessi non solo ha solo relegato ai margini una buona parte della politica ma sta rendendo le persone più arrabbiate, insensibili o al massimo indifferenti. L’avvento di Internet e dei social ha accelerato questa trasformazione. Ironia della sorte, il mezzo che ci avrebbe permesso di unire il mondo e renderlo più piccolo sta allontanando le persone rendendoli mondi a sé stanti incuranti degli altri. Basta leggere i commenti sulle notizie che riguardano i migranti: tra gente che si augura l’affondamento delle navi, altri che vorrebbero sparargli o semplicemente manifestano la propria indifferenza si ha la voglia di chiudere tutto e domandarsi in che mondo viviamo. Ho sempre guardato quelle maestose folle oceaniche cariche di odio nei documentari nazisti come qualcosa di lontano, un monito di qualcosa che non deve più tornare. Invece quelle folle sembrano tornate, senza che la gente che le compongono ne sia consapevole. Non sono riunite in una piazza ma sono sulla rete, sui social a spalleggiarsi e a darsi forza. Cambia il luogo dove si assembrano, dal reale al virtuale, ma la carica di odio è la stessa come sono le stesse le dinamiche e le conseguenze sulla politica.  Certamente i social non sono i soli responsabili di questo incattivimento. Il liberismo ha aumentato la competizione sociale senza fornire paracaduti a chi non riesce a raggiungere quei modelli imposti dal marketing. La crisi economica e l’impotenza della politica nel risolvere i problemi hanno reso le persone disilluse riguardo una soluzione costringendoli a concentrarsi su sé stessi. La crisi delle ideologie e delle religioni hanno ridotto l’importanza del futuro e del desiderio di costruire un qualcosa di comune che salvi tutti dalla miseria del quotidiano obbligando le persone a macerare nella frustrazione del proprio presente. Quello che hanno fatto i social è fornire una piattaforma e un lievito che hanno permesso a queste dinamiche di poter moltiplicare la loro forza distruttrice.  Come hanno potuto i social contribuire all’incattivimento delle persone? Soprattutto, da un punto di vista politico, come hanno potuto radicalizzare l’elettorato?

Certamente Facebook ha aumentato l’invidia sociale. Una volta l’invidia sociale era solo verso i ricchi, i calciatori e le star che apparivano in televisione. Oggi siamo tutti delle star e proiettiamo la nostra immagine vera o presunta sui social. Le foto delle nostre vacanze, dei nostri party e dei nostri hobby creano una competizione per decidere chi sia più attraente socialmente, il tutto misurato in like e commenti. Se prima l’invidia si attenuava facendo ritorno alla vita di tutti i giorni, attraverso il contatto con persone che condividevano le nostre stesse preoccupazioni e problemi, oggi questo ritorno non è più possibile. I colleghi, gli amici e i vicini che prima fungevano da rifugio, oggi appaiono come “competitori” a cui bisogna mostrare di essere migliori. Le persone che ci sono vicine diventano oggetto d’invidia tanto e più dei divi. Il problema è che competizione e invidia sono creati sull’apparenza perché la realtà e i problemi di tutti i giorni non sono messi in mostra. Sulla rete tutti sembrano essere persone di successo messi a confronto con noi stessi in quanto ci è impossibile nascondere i nostri limiti. Siamo obbligati a mettere a confronto la nostra realtà fatta di luci e ombre con la realtà filtrata degli altri dove solo le luci vengono messe in scena. Da questa competizione impari, ne possiamo solo uscire sconfitti. Questo ci obbliga a trovare degli sfoghi, dei capri espiatori e qualcuno a cui paragonarci per sentirci meglio. La politica non fa altro che fornire questo: immigrati, rom, vagabondi, gente che vive a spese dello stato sociale etc.

I social aiutano l’indifferenza e la diminuzione di empatia nei confronti degli altri. Quotidianamente i social ci pongono situazione diverse con risposte emotive diverse. Passiamo nel giro di pochi secondi da immagini forti e di dolore a meme divertenti, da foto di gattini a persone in difficoltà sui gommoni. In questo passaggio vorticoso anestetizziamo la nostra reazione mettendo tutto sullo stesso piano. Quello che ci passa sullo nostro schermo diventa un mondo a parte che non ha nulla a che fare con il nostro. Negli anni 50, Gunther Anders parlando della televisione nel suo  ”L’uomo antiquato”, parla di un mondo che diventa fantasma.   Un mondo dove la realtà viene a noi e ci trasforma in consumatori di esso e non partecipi. Il fatto di non essere partecipi ci rende apatici perché è un qualcosa che non ci riguarda. Le emozioni che viviamo non ci spingono ad un’azione ma vengono consumate come forma d’intrattenimento. Il mondo che passa sui nostri schermi diventa e si confonde con una delle tante fiction che guardiamo. Ironia della sorte, Internet avrebbe dovuto aumentare l’interattività trasformando i propri fruitori da puri e semplici ricevitori in emittenti. Tramite la rete, il mondo non solo sarebbe venuto da noi, ma noi saremmo andati da lui. Quello che mi sembra di notare e che tutto questo non è avvenuto. Certo internet mantiene tutte le sue potenzialità di interazione, ma educati all’uso della televisione, molte di queste potenzialità non vengono sfruttate. Per mancanza di idee, di cultura o spirito critico, il mondo continua a venire da noi. Anzi, permettiamo solo a quella parte di mondo che si allinea con il nostro pensiero di venire da noi: appena qualcosa ci disturba, questa viene semplicemente filtrata! Alternativamente, si cerca nella marea di informazioni fornite dalla rete un link che dimostri il contrario o ci permetta di relativizzare l’informazione contrastante, attenuando in questa maniera il divario tra il nostro pensiero e la verità. Sempre Gunther Anders parla di “familiarizzazione del mondo” nel senso che “persone, cose, avvenimenti e situazioni estranei ci vengono presentati come se ci fossero familiari, ossia in una condizione familiarizzata” con la conseguenza neutralizzazione. La sofferenza altrui viene familiarizzata e comparata alla propria e tutto diventa secondario davanti ai propri problemi personali: “Tutti a pensare ai migranti e chi pensa a me?”, come se il pericolo di perdere la vita in mare, essere torturati nei lager libici, il fuggire da regimi repressivi sia paragonabile alle difficoltà medie di una persona che vive in occidente. Questo non significa che l’uomo occidentale non sia autorizzato a lamentarsi o che le sue difficoltà non sono reali o poco importanti. Significa semplicemente che non possiamo familiarizzare e mettere tutto sullo stesso livello, non possiamo usare la nostra esperienza personale come unico filtro per giudicare la realtà perché si finisce nel mettere tutto sullo stesso piano, senza nessuna distinzione, rendendoci apatici alla sofferenza degli altri. Non possiamo continuare a neutralizzare il mondo esteriore solo perché non ci permette di essere vittima e di giustificare il nostro malcontento.

Un altro elemento che contribuisce alla radicalizzazione di chi usa i social è il fatto che solo informazioni ad alto contenuto emotivo diventano virali. La condivisione di un qualcosa è soprattutto un atto impulsivo, una decisione presa in una frazione di secondo mossa dall’urgenza di appagare l’impeto emotivo che un titolo o una foto crea. Questa è la ragione per cui tendiamo a condividere articoli sulla base del titolo senza leggerli; ragione che impone titoli drammatici a notizie normali per permettere la rapida diffusione e condivisione a fini pubblicitari. Lunghi articoli esplicativi non vengono condivisi così velocemente come meme, titoli drammatici o piccoli commenti miranti a far arrabbiare (anche divertire). Questa è una delle ragioni per cui le “Fake News” si diffondono più velocemente della verità, perché esse sono costruite non per informare ma per allarmare e diventare virali in un breve lasso di tempo. La poca propensione alla riflessione e alla lettura insieme alla tendenza a condividere solo quello che ci colpisce emotivamente fa sì che la rete diventi un contenitore di parole d’ordine e rabbia; una tragica cassa di risonanza di tutto ciò che sia distruttivo. Il male, e in genere tutto quello che non va bene, fa sempre più rumore di ciò che sia positivo. Un proverbio africano ci ricorda che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Fortune elettorali sono ormai costruite sfruttando questo. Si dà in pasto alla rete informazioni non necessariamente completamente false, ma comunque con un tono e un punto di vista che genera indignazione e rabbia. In questo contesto, le informazioni politiche che passano sulla rete si soffermano solo e soltanto sul negativo. La rete diventa un posto non per raccogliere informazioni e discutere ma per mostrare la propria indignazione. I commenti si fanno brevi, il sarcasmo diventa norma e la propria indignazione è la sola verità a cui tutti si devono adeguare. Invece di uno scambio di opinioni si ha un confronto a chi sia più indignato attraverso un rinfacciarsi continuo di scandali. In poche parole il famoso “Eh i marò?” oppure “E allora il PD? (da cambiare con Berlusconi a seconda delle circostanze) non mirano alla ricerca comune della verità ma a silenziare non chi dissente ma soprattutto la propria coscienza e il proprio spirito critico. Se riflettiamo sul fatto che una buona parte degli elettori si informa solo e soltanto su internet, capiamo bene che la realtà che una persona si costruisce riflette quello della rete: una realtà rabbiosa e indignata che si sposa benissimo con la necessità di sentirsi vittime per giustificare sé stessi (altro uso privato della politica).

Se nel passato recente mostrare indifferenza o disprezzo nei confronti del dolore altrui portava ad essere messi da parte obbligando a stare attenti a quello che si diceva, con i social tutto diventa possibile. In rete è sempre possibile trovare persone che la pensano come te non importa quello che pensi. Questo dà forza e non fa sentire soli. In questa maniera si diventa parte di un branco che permette la deresponsabilizzazione. Una volta deresponsabilizzati ci si sente autorizzati a dire quello che si vuole anche nel nome della libertà di pensiero. Una distorta visione della democrazia autorizza a dire che un’opinione vale un’altra, non importa quanto questa sia ancorata alla verità e poco importa che la democrazia non si basi solo e soltanto sulla libertà di pensiero ma anche sul rispetto degli individui. Messo da parte il “politicaly correct” e con politici che sguazzano nell’odio con il loro linguaggio per accaparrare consenso, la rete diventa la cassa di risonanza di un odio crescente. Chi cerca di ragionare viene silenziato con offese che non ammettono replica. La ragione viene messa da parte dal branco che viene aizzato e attirato dalla violenza verbale. Chi sfoga il proprio malessere trova subito sintonia e appoggio. In questa maniera, le maggioranze silenziose sono messe da parte e diventano sempre più piccole  silenziate da minoranze rumorose sempre più grandi mosse da un odio crescente e sempre più condiviso. Quello che conta non è la ragione ma quello che si sente, gli altri sono tenuti ad accettarlo o a rigettarlo. Chi accetta fa parte della propria tribù, chi dissente diventa automaticamente un nemico da distruggere. Tornando alle folle naziste, la rete e i social diventano in questa le nuove piazze dove ritrovarsi e farsi forza a vicenda. Far parte di questa piazza spesso non è una libera scelta ma quasi un obbligo per trovare accettazione da parte dei propri amici, per non sentirsi soli o semplicemente per spirito di emulazione confondendo il consenso che un’opinione ha con virtù e verità.

Con questi effetti, i social non stanno solo emarginando la sinistra ma contribuiscono a un’egemonia culturale che esalta il singolo, i suoi problemi e la sua rabbia a scapito di una visione comune ed egalitaria. L’indifferenza verso la sofferenza, l’odio e la rabbia generata e amplificata dai social mettono a repentaglio la stessa democrazia perché radicalizzano l’elettorato. Nel passato in presenza di minoranze rumorose che scendevano in strada vi era una maggioranza silenziosa che faceva sentire il proprio peso al momento del voto e che controbilanciava le spinte estremiste di queste minoranze. Una maggioranza silenziosa poco propensa ai cambiamenti radicali che preferiva la continuità agli strappi. Questa maggioranza silenziosa coincideva con il ceto medio conservatore poco ideologizzato. In altre parole, questa maggioranza silenziosa costituiva il cosiddetto centro. Le forze politiche per vincere le elezioni erano costrette a tagliare o a silenziare i propri estremi per non spaventare i moderati. Questo portava le forze politiche ad assomigliarsi sempre di più permettendo comunque il mantenimento della democrazia che ha sempre sofferto la presenza al proprio interno di forze radicali. Nel giro di pochi anni, l’elettorato si è però radicalizzato (non solo per colpa di internet) e i partiti fotocopia non sono più in grado di attirare il voto a scapito dei Salvini e dei Trump di turno che riescono ad apparire diversi. Questa radicalizzazione è prima di tutto sentimentale e poi politica. I politici che hanno capito la rabbia e l’hanno aizzata hanno vinto le elezioni. Questi politici attirano voti al di là degli schieramenti perché non attirano menti ma anime arrabbiate. La democrazia negli anni 20 del secolo scorso si è arresa al fascismo perché non ha più trovato il sostegno delle classi medie. Il fascismo è stata la rivoluzione delle classi medie estremizzate dalla crisi, dalla minaccia del proletariato organizzato e dall’odio verso le classi dei ricchi industriali. Per certi versi stiamo vivendo un’altra rivoluzione/radicalizzazione delle classi medie che probabilmente non porterà ad un’altra marcia su Roma ma a democrazie illiberali dove la democrazia esiste solo formalmente. In Italia per esempio, la fine di questo centro moderato è testimoniato dalla sconfitta del PD, dalla scomparsa della pletora dei partiti centristi che si rifacevano alla democrazia cristiana e anche dal ridimensionamento di Forza Italia che nel bene e nel male raccoglieva il voto del ceto medio spina dorsale della maggioranza silenziosa. Parafrasando De André, se la maggioranza silenziosa nel passato votava affinché:

“… tutto sia come prima 
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare”

Ora sono loro che bussano alle porte per gridare più forte. Non cercano giustizia ma sfogo alla propria rabbia. Cercano ancora sicurezza per sé stessi ma disciplina per gli altri. La paura di cambiare esiste ancora ma è la paura di diventare ultimi come negli anni 20, la paura di perdere il gioco dell’invidia sui social, la paura di cambiare e trovarsi in un posto dove si è irrilevanti.

Questo non significa che dobbiamo chiudere i social. La tecnologia avanza a passi da giganti ma l’uomo è limitato, obsoleto direbbe appunto Gunther Anders. L’uomo ha difficoltà nel cambiare e nel mettersi al passo con i cambiamenti tecnologici. Quello che abbiamo bisogno è un’educazione sentimentale e critica che ci permetta di usufruire dei social senza trasformarli in armi di distruzioni delle nostre vite e dei nostri sistemi sociali. Ci vorrà tempo e tanto lavoro per colmare questo divario tra quello che siamo ora e quella condizione che ci permetta di usare la tecnologia in maniera costruttiva. Probabilmente quanto avremmo colmato lo spazio, la tecnologia avrà fatto un altro balzo in avanti obbligandoci a colmare un altro vuoto. Comunque è necessario uno sforzo per colmare quel vuoto a partire dalle scuole e dall’educazione che viene impartita che non può più ignorare il mondo virtuale. I politici, gli intellettuali e chiunque abbia a cuore il futuro della nostra democrazia dovrebbe fare uno sforzo a non lasciarsi andare alla propria rabbia o usare quella rabbia per creare dei branchi pronti a seguirli senza discussione. Se non chiudiamo quel vuoto, la democrazia rischia di scomparire al suo interno. Questo non riguarda solo i social e come vengono vissuti o usati (Cambridge Analytics). Tutti i cambiamenti tecnologici avvengono in maniera così rapida da creare immediatamente un vuoto tra uomo e tecnologia senza donarci la possibilità di valutare completamente gli effetti. L’unica speranza è che prevalga il buon senso ma senza educazione e ragione tutto diventa difficile. Ragione ed educazione (in tutti i suoi significati) sono proprio quello che alla rete sembra mancare al momento.

 

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