Archive | February 2018

L’identità culturale e il suo assalto alla libertà

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Uno dei temi ricorrenti della politica di oggi e cavallo di battaglie dell’estrema destra, non solo in Italia, è il concetto di difesa dell’identità soprattutto quella culturale. A seguito della globalizzazione, della migrazione e dal contatto con altre culture imposto da un mondo sempre più piccolo, affiora l’esigenza di difendere un’identità culturale. Il concetto sembra affascinare soprattutto le giovani generazioni in quanto fornisce un punto di riferimento fermo in un mondo che ne offre pochi. In un periodo storico caratterizzato dai cambiamenti veloci imposti dalla tecnologia, il concetto d’identità culturale offre una specie di ancora di salvezza, un punto fermo da dove guardare il mondo dandosi un ruolo che permette di essere riconosciuti. Nel momento in cui la politica ha smesso di avere il ruolo guida abdicato all’economia e alla tecnologia, ecco che la politica basata sul concetto d’identità acquista importanza. Da una parte il concetto di difesa dell’identità ci dà l’illusione di tornare in controllo, mentre dall’altra parte permette alla politica di parlare di qualcosa. La difesa dell’identità culturale è la versione adulta del “fermate il mondo, voglio scendere”. Incapaci di comprendere e guidare i cambiamenti, spaventati dal futuro e incapaci di vivere il presente che si muove in maniera rapida, la politica ricorre alla difesa di un’identità per parlare agli elettori.

All’apparenza la difesa dell’identità culturale può apparire innocente, senza alcun pericolo per la democrazia o la semplice convivenza tra diversi gruppi all’interno della nostra società. In realtà, la difesa dell’identità culturale è il classico cavallo di Troia: innocente all’esterno ma che contiene pericoli al proprio interno dopo un’attenta analisi.

Il concetto d’identità richiama a un qualcosa che resta immobile e ben definito ma entrambe le cose sono illusorie. Ognuno di noi contiene molteplici identità che entrano in gioco a seconda dei momenti, con chi ci relazioniamo o la nostra età. Alcune di queste identità le riteniamo importanti e difese strenuamente, altre meno, tutte cambiano ma non esiste un’unica identità che permette di sintetizzare la nostra vita e tutte sue manifestazioni.  Se rapportiamo questo alla società (anche la più coesa), il tentativo di d’indentificare elementi che costituiscono un’identità comune è illusorio data la sua complessità e varietà. Qualsiasi tentativo risulterebbe una forzatura a servizio non dell’identità ma delle ragioni che si celano dietro la necessità di trovarla. Tutte le identità sono artificiali e costruite per servire un scopo, che sia quella personale o quella di un paese. L’identità non esiste in natura, è un processo cognitivo che richiede che qualcuno, o un qualcosa, decida che cosa faccia parte o meno di una determinata identità o quale identità tra le tante è importante e va difesa. Come spiegato da Remotti, l’identità è un mito, un grande mito del nostro tempo che promette un qualcosa che non c’è.

Tornando al concetto di cultura, quando ci si riferisce all’identità culturale si fa finta che sia un qualcosa di eterno, una specie di essenza alla base dell’essere italiani. Peccato che la cultura si evolve e cambia nel corso degli anni. L’identità culturale di oggi (febbraio 2018) è diversa dall’identità culturale degli italiani di 10 anni fa. Questi cambiamenti culturali sono oggi ancora più veloci perché condizionati dal passo del cambiamento tecnologico. Facebook, WhatsApp e Twitter fanno ormai parte di questa identità culturale. Se togliessimo la tecnologia non saremmo in grado di descrivere la cultura di oggi e la stessa tecnologia ci rende diversi culturalmente dagli italiani del passato, anche solo 10 anni fa. Pensiamo alla religione per fare un esempio lontano dalla tecnologia e che riteniamo lenta ai cambiamenti. La maniera con cui i credenti si approcciano alla religione cattolica oggi è completamente diverso agli stessi credenti prima del Concilio Vaticano secondo. Seppure parliamo della stessa religione, dello stesso paese e di un lasso di tempo relativamente breve, le diversità sono enormi. Se culturalmente ci evolviamo, possiamo veramente parlare di un’identità culturale? Possiamo veramente estrapolare un’essenza che accomuni l’essere italiani oggi e ieri? Considerando che ognuno di noi è un insieme d’identità, possiamo veramente identificare un minimo comune denominatore che accomuni tutti? Se quello che vogliamo difendere è in continuo cambiamento, possiamo veramente pensare di difenderlo e sottrarlo al cambiamento?

Che piaccia o meno, i cambiamenti culturali sono esistiti ed esisteranno sempre anche se vivessimo completamente isolati dal mondo esterno in quanto i cambiamenti non sono dettati solo e soltanto dall’esterno ma anche dal movimento del pensiero. Quello di fermare il tempo, di congelare i cambiamenti culturali è un sogno partito da Platone che accomuna tutti i regimi autoritari (destra e sinistra senza differenza). Per fermare i cambiamenti culturali c’è bisogno di un qualcosa che decida cosa vada accettato o meno come identità e che si impegni a far si che “l’identità modello”, scelta arbitrariamente, non venga corrotta (spesso e volentieri con la forza). Questo ruolo verrebbe dato allo stato (dato che la difesa dell’identità culturale diventa una priorità politica) e da qui la fine della libertà, perché l’unica maniera per fermare i cambiamenti culturali è quello di distruggere la libertà e i cambiamenti che vengono con essi. La liberta esiste e ha senso solo se c’è la possibilità di cambiare.

Per questo motivo tutta la discussione sulla difesa dell’identità culturale oltre ad essere inutile (quale identità, chi ne decide le caratteristiche, come fermare il progresso tecnologico, quale identità scegliere etc.) è pericoloso perché alla radice è fortemente autoritario. L’unica maniera per difendere l’identità culturale è quello di limitare la libertà. L’identità è qualcosa di fermo e non soggetto al dibattito e quindi ostile alla libertà di pensiero. Non si può essere per la libertà e poi negarla quando questa minaccia un ideale di nazione o cultura. Per questo motivo l’identità e l’affermazione di questo concetto in politica sono il vestito nuovo indossato da chi è contrario (cosciente o incoscientemente) alla libertà. Il concetto di difesa dell’identità culturale non rappresenta solo una minaccia alla libertà ma anche alla convivenza pacifica all’interno di una società.

Remotti ci ricorda che la ricerca dell’identità è una soprattutto ricerca del riconoscimento. Non ha senso parlare di un’identità senza qualcuno da cui apparire diverso a cui chiedere il riconoscimento. Una persona che vive sola in un’isola non ha bisogno di affermare la propria identità personale in quanto non c’è nessuno che può operare quel riconoscimento. Parlare d’identità ha senso solo all’interno di un contesto dove sono presenti altre identità la cui differenza è usata come cartina tornasole per definire la propria. Per questo motivo un’identità non è definita per se ma sempre contro qualcosa e la difesa dell’identità si riduce ad un’affermazione contro altre identità. Da qui la ragione per cui il ritorno alla politica identitaria ha portato a un aumento dei conflitti soprattutto in un mondo che ha visto le sue dimensioni collassare nel giro di pochi anni. Nel momento in cui il mondo diventa interconnesso, dove la vita quotidiana dipende anche da quello che accade in altri posti e la distinzione tra vicino e lontano diventa sempre più labile, lasciare che il mondo sia guidato da politiche identitarie è la ricetta per il disastro. La politica smette di essere un mezzo per costruire il futuro ma diventa una maniera per affermare un qualcosa che esiste senza la volontà di cambiarlo. Il centro dell’attività politica non è la ricerca della soluzione ai problemi, ma la ricerca del riconoscimento e l’affermazione di se stessi. Questa ricerca non può che essere fatta alle spese degli altri, dei diversi, degli appartamenti delle altre identità che sono costrette ad accettare o rifiutare l’identità portata avanti. La difesa dell’identità non permette l’alterazione e quindi il compromesso e senza la volontà di cercare una via di mezzo lo scontro rimane l’unica opzione.

Non a caso con l’affermazione delle politiche identitarie è aumentata anche la violenza politica. La difesa della propria identità può essere usata come chiave per comprendere il terrorismo islamico per esempio. L’estremismo islamico affascina tante persone perché appare come una risorsa in difesa di un ideale d’identità minacciato dalla corruzione dei paesi occidentali. Non viene forse imposta la sharia per difendere un’identità culturale? Tutto quello che l’occidente produce non viene vietato forse perché accusato di corrompere le pratiche tradizionali alla base della loro identità? Che differenza c’è tra chi vuole fermare i cambiamenti culturali imponendo la sharia e chi parla di difesa culturale nelle nostre arene politiche? Nessuna, solo l’identità imposta. L’uso del concetto d’identità in politica è pericoloso non solo in rapporto tra culture diverse. Purtroppo il concetto d’identità si è infiltrato che nel modo in cui si fa politica. I politici mirano a creare identità in maniera da sottrare i propri elettori al pensiero critico. Quando Berlusconi parla “di noi liberali contro i comunisti”, quando Di Maio parla di “onesti contro la casta”, quando la sinistra attacca l’etichetta di fascista a chi non appare conforme al proprio modo di vedere le cose, sono tutti esempi di come viene usato il concetto d’identità per fare politica. Il politico crea un’identità che viene indossata dall’elettore, nel momento che questa identità viene indossata sarà difficile per questo elettore aprirsi al confronto. Il voto viene slegato da un progetto ma diventa una maniera per costruire la propria identità, altro esempio di uso privato della politica  discusso in precedenza. Che democrazia si puó costruire se gli attori sono immuni all’alterazione? Che speranza ha la politica di generare un dibattitto democratico costruttivo quando i suoi attori sono impregnati in una logica tribale? La democrazia è soprattutto confronto e scambio di idee ma quando sullo scenario politico appaiono solo le identità, non rimane che lo scontro e la degenerazione del dibattito.

Come se ne esce? Soprattutto come se ne esce difendendo la libertà e la convivenza? In una maniera sola: accettando la realtà fatta di identità fluide e soggette al cambiamento. Ne usciamo difendendo la libertà che sia essa religiosa o di pensiero. Solo difendendo i principi di società aperta si può garantire la libertà e la convivenza di diverse identità senza arrivare allo scontro. Non è solo una questione culturale ma anche una questione di sopravvivenza del genere umano sempre più compresso in distanze che si riducono che ci obbligano a vivere fianco a fianco. La critica che potrebbe essere mosse contro quello finora espresso sono essenzialmente due: non ha senso parlare di società aperta davanti alla minaccia del terrorismo e quella di relativismo culturale.

Se si è veramente preoccupati per le sorti della libertà, della democrazia o dei diritti umani minacciati dal terrorismo islamico, la maniera migliore per difenderli e spingere per la loro affermazione e non per la loro soppressione. Non ha senso combattere il terrorismo aiutandolo a raggiungere il suo obbiettivo principale che mira alla distruzione della nostra libertà e di come le nostre società sono costruite costituendo una minaccia alla loro identità.

Come spiegato in precedenza ci sono tante identità e la scelta degli elementi che la costituiscono è sempre un atto arbitrario. Non sono forse anche i concetti di libertà, società aperta, laicismo e tolleranza alla base dell’identità dell’occidente? Se proprio dobbiamo decidere un’identità, perché non scegliere un’identità che permette la coesistenza pacifica e non pregiudica il futuro della libertà? Se riteniamo importante questi elementi alla base della nostra identità di riferimento, possiamo veramente parlare di relativismo culturale?

Non possiamo continuare a ingolfare il dibattito politico con discussioni che non hanno al centro i problemi del nostro presente. Una politica mirata alla difesa di un qualcosa che in realtà non esiste può solo portare allo scontro, senza costruire un futuro migliore. È questa la politica che vogliamo?

 

Il fascismo sta per tornare?

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Sembra strano e in qualche maniera deprimente rendersi conto che uno dei temi della campagna elettorale sia il fascismo e se questo stia per tornare. Anche “The Guardian” dedica un articolo sull’argomento a seguito dell’atto terroristico (è terrorismo anche quando l’attentatore parla italiano) avvenuto a Macerata. Anche qui ci poniamo la stessa domanda e proviamo a dare una risposta: il fascismo sta per tornare?

Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo definire cosa sia il fascismo. A differenza del Marxismo, il fascismo non ha un bagaglio ideologico ben definito, rimanendo fluido e spesso difficile da inquadrare. Il fascismo non ha un ideale preciso di società o di economia da costruire ma si materializza piuttosto come la risposta delle classi medie ai problemi di un’epoca che presenta pericoli e difficoltà per il benessere di questa classe. Siccome le difficoltà e i problemi sono specifici per ogni epoca, il fascismo assume forme diverse a seconda delle epoche e dei paesi. Per semplificare possiamo dire che abbiamo da una parte il “Fascismo storico” e dall’altra quello definito da Umberto Eco con l’espressione “fascismo eterno”. Il fascismo storico è l’abito che il fascismo indossa a seconda dei momenti storici, mentre il fascismo eterno è l’essenza di questo pensiero ovvero i tratti comuni che esso ha, non importa l’epoca o il paese in cui si manifesta. A seconda di cosa noi facciamo riferimento, la risposta alla domanda se il fascismo stia per tornare cambia e soprattutto pone questioni e risposte diverse su come affrontarlo.

Il dibattito attuale sembra incentrato soprattutto sul fascismo storico e piú precisamente sull’abito indossato dal fascismo nel ventennio mussoliniano. Il dibattito si svolge essenzialmente sui meriti e i demeriti di quel regime come se la bontà di un regime dipendesse solo dalle cose fatte e non da fattori altrettanto importanti come il rapporto tra stato e cittadini, la paura, la possibilità di vivere la vita che si vuole e altre considerazioni non riconducibili a una semplice lista di cose fatte. D’altronde nessun regime può sopravvivere ponendosi apertamente contro il proprio popolo. Tutti i regimi hanno la necessità di fare qualcosa che possa essere sfruttato dalla propria macchina propagandistica per costruire il consenso. La persistenza del dibattito sul ventennio deriva dal fatto che il nostro paese non ha mai fatto i conti con il proprio passato, preferendo nascondersi dietro la formuletta “degli Italiani brava gente”  ignorando i crimini commessi dal quel regime. Invece di affrontare collettivamente avvenimenti storici come Domenikon o Debra Libanos abbiamo preferito insabbiare tutto o, in maniera meno metaforica, nascondere tutto in un armadio e girarlo contro un muro. Il non aver fatto i conti con il proprio passato in maniera definitiva significa stare a discutere sui meriti e demeriti di un periodo storico lontanissimo. Lontanissimo non tanto nel numero degli anni, ma soprattutto per la trasformazione che il nostro paese ha avuto in questi decenni. Trasformazioni di natura economica, sociale e culturale. Per questa differenza abissale tra l’Italia di oggi e l’Italia del secondo decennio del secolo scorso, alla domanda se il fascismo stia tornando, la riposta non puó che essere negativa al momento. Partendo dal concetto di fascismo storico, non credo (almeno spero) ci sia una marcia su Roma dietro l’angolo o un uomo forte con un seguito numeroso capace di impadronirsi del potere e instaurare una dittatura attraverso il trasferimento del potere da organi statali a organi di partito. Se partiamo dal ventennio fascista, il dibattito sarebbe abbastanza marginale e riguarderebbe solo quelle forze come Forza Nuova o Casapound. Nonostante la presenza di dichiarazioni ambigue (si ma anche fatto cose bene) o politici che strizzano l’occhio (l’antifascismo non mi compete), la societá italiana nella sua stragrande maggioranza, nonostante tutto, non penso guardi a un regime del secolo scorso per risolvere i problemi di oggi. Viviamo in un’epoca postmoderna dove la societá civile é composta da una miriadi  di organizzazioni e gruppi che rendono difficile ingabbiare in una struttura rigida. Internet ha permesso di ridurre il potenziale propagandistico dei mass media rendendo piú difficile imporre un messaggio unico. Inoltre i valori democratici sembrano condivisi (anche se in apparente ritirata) dalla maggioranza. Usando la metafora del vestito usato in precedenza, difficilmente quel vestito che poteva andare  bene poco meno di 100 anni fa possa essere riutilizzato o possa apparire interessante ad una societá edonistica e fortemente individualista. Solo persone in cerca d’identitá, ribelli in cerca di una causa o di un’interpretazione della realtà pronta ad essere utilizzata possa pensare seriamente al ritorno del fascismo delle camicie nere. Come spiegato nel precedente articolo, coloro che mostrano simpatie nei confronti del fascismo intendono prima di tutto mostrare la loro disaffezione nei confronti della democrazia accusata di averli lasciati indietro. Il fascismo (idealizzato in una forma edulcorata) diventa un’opzione di facile comprensione: basta con la democrazia con i suoi inutili riti, per risolvere tutto abbiamo bisogno di un altro “Lui”. Queste persone non son realmente fascisti, ma hanno individuato nella democrazia il capro espiatorio dei loro problemi o usano l’idea di fascismo per relazionarsi alla realtà dandosi un ruolo.

Diverso il discorso sul “fascismo eterno” (o Ur fascismo) ovvero sull’essenza del fascismo. Umberto Eco aveva individuato 10 segnali di allarme: dal maschilismo al culto del capo, dalla ricerca di un colpevole all’importanza data alle tradizioni etc. Una chiave di lettura del fascismo è considerarlo come “l’ideologia” delle classi medie in difficoltá. Come affermato da Bauman,  la classe media ha la necessitá di affermarsi continuamente. Da una parte coltivano un risentimento nei confronti delle classi superiori, dall’altra parte la paura di perdere il loro ruolo e venire riassorbiti dalle classi popolari.  Per classi medie non intendiamo solo i liberi professionisti, ma anche una buona parte della classe operaia, soprattutto specializzata, che riusciva a condurre una vita più o meno agiata (o per lo meno poteva almeno sperare in un futuro migliore per i propri figli mandandoli all’universitá). Basti pensare agli operai della “rust belt “americana che sentendosi minacciati e traditi dalla modernitá hanno votato Trump. Viviamo in un’epoca liquida senza punti di riferimento con un futuro che porta incertezza. Le istituzioni democratiche sembrano lontane, addirittura viste come la causa dei problemi o nel migliore dei casi incapaci di risolverli. Le persone lasciate sole a risolvere problemi collettivi si trovano costrette ad affrontare la paura di essere liberi e il senso di responsabilità che viene con esso. La fine delle ideologie e il calo del senso religioso hanno lasciato una massa di persone senza punti di riferimenti a galleggiare nel nichilismo. In questa situazione di precarietà e paura, tutto quello che viene percepito come nuovo o diverso costituisce una minaccia. In questa maniera Il fascismo si pone come la realizzazione del sogno di Platone di congelare il presente opponendosi alla modernità e ai suoi cambiamenti visti come “corruzione” di un ordine sociale a cui si era capaci di relazionarsi e permetteva di trovare una dimensione vuota di minacce. Corruzione e cambiamenti che minano soprattutto l’ordine che permetteva alle classi medie di svolgere un ruolo importante e gratificante . Da qui la necessità della ricerca di qualcosa di fermo: la tradizione, l’identità nazionale, il desiderio di tornare ad un’epoca felice (gli anni 60 o 80), la ricerca di un leader o la necessità di conformarsi a quello che appare la volontà popolare. Questi elementi possono essere usati per creare il vestito che il fascismo indosserà in questo secolo. Un vestito diverso da quello sperimentato finora ma che avrà gli stessi risultati in termini di riduzione di diritti, muovendo le nostre società verso un ideale meno aperto. Il problema è che non sapremo la forma di questo vestito fino a quando ci renderemo conto del profondo cambiamento dei nostri valori ritrovandoci in un modello politico dove gli individui tornano ad essere portatori di un senso solo e soltanto se conformi e parti di un’entità più grande. Il nuovo vestito potrebbe mantenere in vita la democrazia formale ma svuotandola dall’interno riducendo gli spazi di libertà e i diritti. Svuotamento che si concretizzerebbe in  una modifica della costituzione facendo passare il nostro paese da una repubblica parlamentare a un premierato più che forte limitando lo spazio di manovra delle opposizioni e il ruolo del parlamento in maniera ancora piú marcata di oggi. Cambiamento che si potrebbe manifestare anche nella maniera in cui permetteremo alla tecnologia di controllare quello che facciamo o sui limiti o meno dell’uso dei dati personali raccolti attraverso i dispositivi che stanno invadendo le nostre vite. Da questo punto di vista il fascismo storico del nostro secolo potrebbe materializzarsi in un atteggiamento molto permissivo nei confronti di stato e big corporation nell’uso di queste informazioni e nel controllo che da esso deriva.

Il cambiamento potrebbe essere portato avanti non nel nome di un’ideologia di stampo fascista ma per venire incontro alla volontà popolare e al suo desiderio di cambiamento in maniera da avere una politica piú vicina alle loro esigenze. La volontà popolare interpretata “correttamente” solo da una persona o da un partito diventerebbe la scusa democratica per ridurre il ruolo delle opposizioni etichettate come politicanti autoreferenti senza un vero consenso alle spalle se non di quei pochi ingenui o approfittatori che li sostengono. Per questo motivo la differenza tra “fascismo storico” e “fascismo eterno” diventa importante e richiede una maniera diversa di combatterlo. Se identificassimo il fascismo solo in quello storico ignorando la sua essenza, circoscriveremmo il fascismo in un ambito molto stretto. Tutto quello che non rientra in questa definizione e non assomiglia al vestito indossato dal fascismo nel secolo scorso, diventa in qualche maniera accettabile anche se al suo intorno porta con se le caratteristiche del fascismo eterno. Nessuno si definirà fascista perché la parola ha un significato sinistro, ma tutti lo saranno nel modo di pensare e agire politicamente senza forse nemmeno accorgersene. In un’epoca dove si fa politica attaccando etichette senza discutere dei contenuti, il fascismo tornerà a disposizione degli elettori con una confezione diversa. Alla stessa maniera bisogna smettere di definire come fascista qualsiasi cosa che non sia di sinistra. Se definissimo tutto come fascista, alla fine nulla lo è banalizzandolo e rendendolo accettabile.

Come allora combattere il fascismo eterno? Come affrontare e battere questo modo di essere e di fare politica?  In altre parole, come essere efficacemente antifascisti al giorno d’oggi? Ingaggiarsi nel dibattito sul fascismo storico ha senso perché è giusto non dimenticare ma bisogna stare attenti a non limitarsi solo a quello.  Bisogna evitare di accostare il fascismo solo alle caratteristiche di un preciso periodo storico in maniera da non dare la possibilitá di definirsi “non fascisti” anche a chi ha un modo di fare politica che contiene gli elementi costitutivi di questa ideologia. Trump e Salvini non sono fascisti se visti e paragonati al ventennio mussoliniano e per loro é facile liberarsi di questa etichetta e apparire legittimamente democratici. Se peró li giudicassimo dal punto di vista del fascismo eterno, non possiamo non concludere che il loro modo di pensare e fare politica rasenta il fascismo. La loro affermazione elettorale non significa che il fascismo è giá tra di noi o che viviamo in una dittatura ma significa che il rigetto del fascismo da parte dei paesi occidentali si stia attenuando o per lo meno viene facilmente aggirato. Il fatto che non usino olio di ricino, non fanno saluti strani e non vestono di nero li ha resi accettabili anche da parte di chi lontanamente pensa di essere fascista proprio perché la discussione sul fascismo é stata incentrata troppo sul fascismo storico.

La lotta al fascismo eterno è destinata alla sconfitta se ci limitassimo solo alle manifestazioni, ai dibattiti storici o alle prese di posizioni perché per politici come Salvini e Trump sará semplice mostrare come loro sono lontani dal senso comune di intendere il fascismo. Oggi essere antifascisti significa combattere contro il fascismo eterno e la maniera con cui esso si manifesta. Oggi essere antifascisti si concretizza nella lotta per una societá aperta e piú giusta. Essere antifascisti significa lottare contro la paura che attanaglia le nostre vite. Il neo liberismo sta distruggendo le classi medie attraverso un’accumulazione di capitale che non ha precedenti se si esclude il decennio anteriore al primo conflitto mondiale (non a caso). La precarietà del lavoro,  la competizione sfrenata tra individui e l’arretramento dello stato sociale stanno generando un clima di paura. Quel clima di paura necessario per il mantenimento di un regime totalitario come ci ha insegato Hannah Arendt. L’incertezza del futuro richiede l’individuazione di un capro espiatorio a cui dare tutte le colpe, lo stesso capro espiatorio utilizzato dal fascismo per arrivare al potere: ieri gli ebrei, oggi gli immigrati. Essere antifascisti significa intraprendere e vincere una battaglia culturale che miri a dimostrare come il diverso non sia un pericolo e il successo finanziario non è l’unica maniera per valutare il valore di una persona. Bisogna battere il senso d’insicurezza parlando alla gente e non ritenere quel bisogno come un qualcosa di poca importanza. Viviamo in una delle epoche più sicure della storia umana eppure la gente vive in un immenso senso di insicurezza. Essere antifascisti significa prendere seriamente in considerazione quel bisogno ma anche far adottare al mondo una maniera diversa di vedere se stesso rigettando un’imposizione cupa creata per essere usata per accaparrare il consenso. In conclusione, essere antifascisti oggi significa tornare a fare politica. Non una politica intesa a vincere soltanto le elezioni, ma una politica che non permetta a quei fantasmi che si agitano nel profondo della natura umana di affiorare rendendo schiavi anche gli spiriti più liberi. Dovremmo forse usare meno la parola fascismo, smettere di usare l’antifascismo solo come un elemento per costruire la nostra identità e tornare a pensare e fare politica per costruire un ponte verso un futuro meno minaccioso.

 

 

 

 

Le promesse elettorali uccidono la democrazia

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La campagna elettorale é iniziata e con essa la lunga litania di promesse. I programmi elettorali sembrano libri di sogni che aspettano solo che la croce venga posta sul simbolo giusto per essere realizzati. Purtroppo le  promesse elettorali rimarranno per gran parte irrealizzabili perché la realtá non é fatta per adeguarsi ai sogni. I programmi elettorali dovrebbero partire dalla realtá per costruire un futuro possibile invece di partire da  un futuro utopico e poi pretendere che le condizioni materiali del presente si adeguino ad esso. Naturalmente la politica é fatta anche di sogni e ideali, ma slegarsi dalla realtá e vivere solo in un sogno non é un’opzione per chi intende la politica come mezzo per migliorare il presente e non solo un mezzo per creare una propria identitá o per darsi solo uno scopo nella vita. I sogni sono frutto del sonno e  il sonno della ragione genera mostri come le ideologie del secolo scorso, animate dai sogni, hanno dimostrato.  La politica fatta in maniera razionale non intende creare un paradiso in terra, ma parte dal tentativo di migliorare il presente tenendo conto che il mondo in cui  viviamo é limitato in termini di risorse e possibilitá come sono limitati gli uomini.

Si puó obbiettare che le promesse elettorali siano una specie di gioco: tutti sanno che non verranno mantenute. Perchá allora si continua ad usarle? Perché il fatto che siano irrealizzabili non metta in cattiva luce chi le propone? Chi la spara grossa non dovrebbe essere considerato un imbonitore o cialtrone?  Le promesse elettorali creano consenso perché sono un’altro esempio dell’uso privato della politica. Nel precedente articolo avevamo definito l’uso privato della politica come  la maniera in cui la politica é usata per soddisfare bisogni individuali che vengono appagati semplicemente attraverso la maniera con cui il voto viene utilizzato o semplicemente pensato. Anche se la fiducia nella classe politica é molto bassa, ho fiducia nelle promesse fatte da quel politico perché rappresentano una speranza per uscire dalla mia insoddisfacente situazione odierna. Il fatto di credere in un qualcosa o in una promessa mi da una via di uscita e riduce il mio sentimento di rassegnazione. Non importa sapere se la promessa sia realizzabile o meno, quello che importa é che mi permetta di stare bene perché mi fornisce la soluzione pronta all’uso dei miei problemi. La promessa diventa un’ancora di salvataggio per non cadere nella disperazione, una maniera per alimentare l’ottimismo. La promessa elettorale fatta per risolvere un problema collettivo viene sganciata dalla sfera pubblica diventando una mezzo per soddisfare (per lo meno temporaneamante) un bisogno privato. In questa maniera le promesse elettorali diventano un’altro mezzo per trasformare la politica in una una merce come le altre avente valore solo e soltanto se ha una funzione per l’individuo che la usa.

L’uso privato della politica non é l’unico impatto sulla democrazia da parte delle promesse elettorali. Il promettere troppo é uno degli elementi alla base dell’antipolitica contrapposta ad una politica incapace di soddisfare le attese che essa stessa genera  con le promesse. La politica non sará mai in grado di forgiare la realtá a sua immagine e somiglianza perché il presente non é la diretta conseguenza di un volere politico. Il potere politico non é assoluto in quanto  deve scendere a patti con le forze del mercato, gli interessi di parte, l’opinione pubblica o semplicemente il fatto che gli uomini sono destinati a compiere errori anche se in buona fede. Come nella vita di tutti i giorni dove non riusciamo a trovare la donna/uomo perfetta/o, il lavoro dei sogni o raggiungere un determinato obbiettivo professionale perché dobbiamo scontrarci/incontrarci con le volontá di altre persone e con i nosti limiti (il tempo, il nostro carattere etc),  cosi nella vita pubblica dove le variabili sono infinitamente maggiori (al netto di capacitá, dell’effettiva volonta di cambiamento, corruzione etc).  La differenza tra  ció che potrebbe essere e la realtá crea un senso d’insoddisfazione e di sconforto che necessita di essere curato.  Al momento questa insoddisfazione viene “curata”  attraverso un  sentimento ostile che si rivolge (a torto o a ragione) essenzialmente contro la classe politica, ma nulla vieta che alla fine sia la stessa democrazia come sistema di governo ad essere messa in  discussione per essere incapace di soddisfare le aspettative generate dalle continue promesse. Basta farsi un giro per la rete per notare i primi sintomi di questo malessere crescente nei confronti della democrazia. I social network sono diventati una cassa di risonanza di slogan fascisti e un luogo dove si annida la nostalgia per il ventennio. Le persone che manifestano una simpatia nel confronto del fascismo intendono prima di tutto mostrare la loro disaffezione nei confronti della democrazia accusata di averli lasciati indietro. L’incapacitá di comprendere il presente non li permette di entare nel dibattito politico. Questo li obbilga ad evitare il confronto sui singoli temi trincerandosi su posizioni radicali e di critica totale al sistema. In questo caso l’adozione di posizioni radicali viene usato per dare un senso alla realtá e levarli dalla situazione di essere inadeguati culturalmente davanti alla realtá. Il fascismo (in una forma edulcorata) diventa un’opzione di facile comprensione: basta con la democrazia con i suoi inutili riti, per risolvere tutto abbiamo bisogno di un altro “Lui”.Non tutti sono veramente fasciti, ma tanti hanno individuato nella democrazia il capro espiatorio dei loro problemi.

In questa maniera il dibattito politico non sembra piú limitato a trovare le soluzioni ai nostri problemi all’interno di un regime democratico ma ormai si va oltre mettendo in discussione la stessa democrazia. All’interno di una logica consumistica  incentrata solo al soddisfacimento immediato del proprio piacere, tutto diventa secondario e valutato solo nella sua capacitá o meno di raggiungere quei modelli di vita imposti dal consumismo stesso. Nel momento in cui la democrazia sembra essere un ostacolo al raggiungimento di questi modelli (che sono e rimangono irrangiungibili) non rimane altro che metterla in discussione. Questa é una delle ragioni che hanno portato Trump al potere come discusso in un precedente articolo ma nulla vieta che nel futuro possa arrivare al potere qualcuno piú pericoloso sull’onda di uno spirito antidemocratico. E’ avvenuto nel passato, puó avvenire nel futuro in maniere diverse ma con la stessa sostanza. Se la democrazia vuole salvarsi bisogna migliorare la qualita del dibattito politico partendo dai problemi e non dalla fantasia con cui si creano programmi e promesse elettorali. Un vecchio slogan sessatontino diceva: la fantasia al potere. Forse é arrivata ma nella maniera sbagliata.