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Trump e libertá sui social

La questione dell’interdizione di Trump dai social è un tema delicato sul cui sviluppo si giocherà il destino della democrazia ai tempi di internet. La questione è molto complessa e si colloca in una zona grigia dove diversi diritti entrano in conflitto tra loro: la libertà di espressione di Trump da una parte e dall’altra gli interessi della collettività di salvaguardare le proprie istituzioni in un momento in cui il presidente stava usando i social per incitare alla violenza nel tentativo di rovesciare un’elezione. Questo tipo di contrasto è tipico delle società aperte che garantendo diversi diritti esse non possono garantire che questi non entrino i conflitto tra di loro. Ogni volta che questi diritti entrano in conflitto, l’intero sistema entra in crisi. Non esiste una soluzione semplice proprio perché le società aperte sono aperte perché non delegano ad un’autorità il dovere d’imporre una direzione sempre coerente a se stessa. I contrasti tra diritti, la continua ricerca di un equilibrio tra libertà e uguaglianza, le ridefinizione senza fine del confine tra individuo e collettività sono i prezzi da pagare per permettere alla società e alle nostre istituzioni di restare aperte e inclusive il piú possibile.

Rimane comunque il problema di società private che hanno un potere enorme sulla libertà di espressione degli individui e possono cambiare i confini delle libertà di espressione degli individui al di fuori di un controllo democratico. Questo non significa che i social debbano permettere ai propri utenti di dire e fare quello che vogliono sui loro siti. Incitare alla violenza e la violenza verbale non possono essere tollerate e i social hanno il dovere di contrastare l’uso dei social per propagare violenza. La violenza non può far parte di una società civile e non ha protezione all’interno delle nostre costituzioni. I social avrebbero anche il dovere di combattere la diffusione cosciente d’informazioni false. Qui la situazione diventa complessa. Non tocca certamente ai social distinguere cosa sia vero o falso e qualsiasi decisione comporta una limitazione del diritto di espressione degli individui. Le società sono aperte perché aperte al confronto tra diverse posizioni. Questo comporta inevitabilmente una tolleranza verso notizie false per salvaguardare il piú possibile la libertà di espressione. Negli ultimi anni, tante forza politiche hanno approfittato di questo per diffondere notizie false, animare l’antipolitica, generare rabbia che stanno mettendo in crisi le nostre democrazie. In altre parole, la liberta concessa dai social viene usata per danneggiare le istituzioni democratiche finendo per uccidere la stessa libertà. Come negli anni 20 e 30 del secolo scorso ci troviamo ad affrontare una versione piú subdolo del “paradosso della libertà”. La libertà e la tolleranza non possono essere usate per rovesciarle.

Come risolvere questi conflitti? Come evitare che i social diventino il mezzo per distruggere la liberta nel nome della libertà? Come evitare che organizzazioni private come i social diventano gli arbitri di libertà pubbliche?

Come detto prima la soluzione non è semplice e richiede un lunghissimo dibattito sganciato dalla contingenza (caso Trump). Non credo esista una soluzione efficace capace di salvare capre e cavoli. Credo che l’unica cosa possibile sia un modus operandi non soltanto a livello legislativo che dia delle indicazioni su come muoversi. Modus operandi che non può funzionare a livello nazionale costituendo un altro limite del sovranismo all’interno di una realtá che se ne infischia dei confini. Non è pensabile che uno stato sia in grado di risolvere il problema da solo considerando la natura multizonale di queste organizzazioni e il fatto che la trasmissione dei dati non conosce barriere e limiti geografici. Da un punto di vista legislativo è necessario un ampio accordo internazionale che disciplini l’uso dei social: “user agreement”, definizione delle responsabilità dei social, loro doveri, arbitrati etc. Certamente questi accordi non avranno l’adesione di paesi autoritari, ma i social che operano in paesi democratici devono sottostare a delle regole.

Ammesso e concesso che si possa ad arrivare ad una disciplina efficace da un punto di vista legislativo, il problema non verrebbe comunque facilmente risolto. Quello che serve é soprattutto un uso responsabile da parte politici e cittadini dei social. Tutte le libertà vanno declinate con responsabilità. Le libertà non vengono in un assoluto ma all’interno di un sistema dove la mia libertà finisce dove inizia la liberta di un altro. Non possiamo sempre chiedere ai social o ai giudici d’intervenire ogni volta che c’è uno sconfinamento, non è possibile. Un sistema plurale aperto dove gli individui non sono coscienti dei propri limiti e non rispettano la liberta gli altri è destinato a fallire e lasciare il posto ad un potere autoritario che ponga fine al caos. La tecnologia e internet in particolare ha dato un grosso potere agli individui. Per la prima volta nella storia dell’umanità, il comportamento del singolo individuo (non importa il potere a sua disposizione) ha delle conseguenze molte piú ampie che vanno oltre la stretta sfera individuale. Questo non riguarda soltanto la diffusione di notizie false su internet ma pensate all’impatto sull’ambiente e sul futuro delle prossime generazioni che ogni scelta dell’individuo comporta. Se vogliamo mantenere una società aperta non possiamo accettare che ogni singola azione dell’individuo venga monitorata da un potere che tutto può e nulla deve perché significherebbe rinunciare alla società aperta. Le tecnologie hanno aperte infinite possibilità ma l’essere umano e rimasto uguale con i propri limiti forse incapace di comprendere e gestire queste possibilità. L’unica via di uscita non può che essere l’educazione e rendere la gente cosciente e responsabile delle proprie azioni. Questo non riguarda solo Trump ma tutti noi. Sull’uso cosciente dei social, sulla capacitá autonoma del singolo di valutare le informazioni e sanzionare gli abusi e sui limiti e doveri che i social hanno sulle loro piattorma si gioca la libertá del secolo 2.0.

Cronaca e politica

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Condivido l’idea di Salvini di fare Checco Zalone senatore a vita ma credo che abbia cambiato idea dopo aver visto “Tolo Tolo”. Scherzi a parte, l’ennesimo intervento di Salvini riguardo un aspetto di cronaca che ha poco a che vedere con la politica in senso stretto impone una riflessione sul rapporto tra cronaca e politica. Perché i politici si occupano tanto di cronaca soprattutto quella nera? Perché sentono la necessità di esprimere un’opinione su ogni avvenimento anche quando non hanno tutte le informazioni come nel caso di “Tolo Tolo” non ancora uscito nelle sale?

La prima ragione è strettamente legata ad un uso tecnico dei social a fini di marketing. Un avvenimento di cronaca crea un dibattito sulla rete oltre ad una serie di hashtag che diventano popolari e necessari per seguire gli sviluppi. Il politico parlando di quel tema e usando quell’hashtag ha la certezza di rafforzare la propria presenza sui social. In altre parole, si usa la popolarità di un tema per modificare gli algoritmi in maniera da rendere sempre più rilevante la propria presenza sulla rete. Quest’articolo lo spiega in maniera tecnica ma molto chiaramente come questo accade. Alla fine a Salvini non interessa molto la Nutella o il film di Zalone ma solo e soltanto la propria presenza sulla rete. Si usano gli hashtag come delle boe a cui aggrapparsi per rimanere a galla nel mare dei social e non sprofondare nell’oblio. Per far ciò si usa di tutto, anche creare un video parodia sul papa in maniera da usare anche quello per vincere la guerra contro l’oblio telematico. Si può discutere se sia morale o rispettoso nei confronti degli elettori e della stessa democrazia ma quello che conta veramente è constatare purtroppo la sua efficacia per arrivare al potere e mantenerlo, l’unico scopo di ogni uomo politico. Se il resto della politica non sarà in grado di arginare questo strapotere mediatico, si lascia a Salvini il quasi monopolio della rete a fini di propaganda politica. Anche il M5S sta attraversando un momento di difficoltà sulla rete per due motivi: l’impossibilita di usare un leader per imporre la stessa strategia (Di Maio non è adatto) e il fatto di essere al governo al PD che pone un limite alla possibilità di sfruttare il risentimento dei cittadini nei confronti della politica accentuato da fatti di cronaca nera.

Alla fine un voto di una persona informata ha lo stesso valore di una persona non informata e quello che conta è mettere insieme il maggior numero di voti. Parlare di cronaca permette di raggiungere anche la persona disinteressata di politica attraverso la rete. Mentre prima si aveva difficoltà a parlare a chi non era interessato della cosa pubblica, occupandosi di cronaca tramite la rete, il politico ha la possibilità di raggiungere anche coloro che sono poco informati sugli sviluppi politici. In passato, il politico agiva in contenitori ben definiti: la tribuna elettorale o il talk show in televisione, l’intervista sul giornale o attraverso i comizi. Chi non era interessato alla politica poteva facilmente evitarla cambiando canale, non andando ai comizi senza parlare del fatto che non era obbligato a comprare un giornale. La rete insieme alla cronaca dà la possibilità al politico di raggiungere e creare “brand awareness” anche tra coloro che non sono interessati alla politica. Il caso della Nutella ci può aiutare ancora una volta a comprendere questo. L’hashtag della Nutella era molto popolare a causa dei biscotti introvabili. La popolarità di questo tema era forte tra giovanissimi spesso non interessati alla politica. Salvini ha semplicemente usato quell’hashtag per inserire e far arrivare un messaggio a queste persone: la Ferrero deve comprare nocciole italiane. Un messaggio di forte presa e apparentemente pieno di buon senso soprattutto se non ci si informa per esempio sul fatto che la produzione italiana di nocciole non è sufficiente per la produzione mondiale della Nutella. A furia di usare la cronaca, Salvini crea una forte “brand awareness” tra le persone meno informate di politica. Quando questa gente andrà al voto, voteranno soprattutto per coloro che ricordano (Brand recall) e a cui sono in grado di associare degli elementi apprezzati che lo contraddistinguono (Brand equity) come il difendere le nocciole italiane o un attore amato come Checco Zalone. Naturalmente questo non vuol dire che tutti gli elettori sono disinformati o che sono facilmente manipolabili ma questo modo di operare permette di portare a casa quei voti importanti da quella fascia di elettori indecisi che decide le elezioni. L’obbiettivo di Salvini di creare brand awareness soprattutto tra i giovanissimi è confermata anche dalla sua decisione di portare la sua presenza su Tik Tok, un social molto usato da questa fascia della popolazione. Un social che si presta poco alla politica ma che gli permette di farsi conoscere senza competizione dato che il resto della politica si tiene fuori. Questo ha scatenato una forte critica che non ha fatto altro che alimentare e nutrire la forza di Salvini nella rete. Tutto questo genera articoli online e post sui social con tanta gente disinteressata alla politica che legge solo i titoli e alla fine ricorderá solo il nome di Salvini aiutandolo a rafforzare la “brand awareness”. A furia di leggere il nome di Salvini ovunque, quando andranno a votare si ricorderanno solo di lui. Ragione per cui il nome dei capi politici compare sempre di piú nei simboli dei partiti nelle schede elettorali.

Il marketing e l’uso della rete non spiega tutto perché il parlare di cronaca è anche una conseguenza naturale di come oggi viene fatta la politica e l’informazione. Parlare di cronaca significa evitare di prendere posizioni politiche che creano divisioni e si sposa benissimo con una destra che mira proprio a questo come abbiamo scritto in precedenza. Mettere la cronaca al centro della propria comunicazione permette al politico di discutere argomenti di cui la gente parla tutti i giorni in famiglia, tra amici o a lavoro. Questo fa sentire il politico più simile a loro e meno lontano. Questo artificio contribuisce a creare l’effetto “parla come uno di noi”, perché parlare di cronaca significa usare il linguaggio e gli argomenti di tutti i giorni. Si evita di parlare di cose complicate dove non tutti sono capaci di comprenderne il significato. Dalla reazione sui social (ci sono software che lo fanno) basta prendere una posizione fortemente condivisa dalla maggioranza riguardo un avvenimento , accentuare i toni per assicurarsi visibilità ed ecco che il politico si costruisce l’immagine di un uomo dal buon senso. In questa maniera il politico crea un falso sentimento di rappresentatività soprattutto quando la distanza tra governati e governanti accresce il bisogno di sentire qualcuno che si faccia carico dei propri problemi. Questo si rafforza ancora di più quando dall’altra parte i politici si concentrano solo e soltanto su argomenti strettamente politici. Nel passato, prima dell’avvento della politica su internet, ma ancora oggi offline, i politici hanno sempre cercato di creare un immagine che li renda simili alla stragrande maggioranza dei propri elettori. Berlusconi operaio con il casco di sicurezza o Trump su un camion sono tutti tentativi di far dimenticare il fatto di essere milionari e nulla di più lontano dalla gente comune. Possiamo riderci sopra ma queste trovate hanno un successo indiscusso. Il voto non è solo un atto razionale ma ha anche una forte componente emotiva. Oggi la democrazia si muove in un’epoca dove non si è informati della cosa pubblica, i politici sono considerati tutti corrotti e interessati solo al proprio interesse, scarsa fiducia nella politica e il pensiero comune é dominato da una forte propensione a cercare soltanto il proprio interesse. In un contesto del genere, quali sono gli elementi che portano a scegliere un politico e non un altro? Naturalmente quello dell’identificazione che permette di ridurre il rischio percepito. Se non posso andare io al comando, voto uno come me che mi appare simile e quindi con gli stessi interessi. Questo soprattutto quando il ruolo dei partiti è diminuito e la politica si esprime soprattutto attraverso la personalizzazione. Con poche idee e soltanto persone da scegliere, gli elettori scelgono le persone che piacciono di più e con cui si relazionano meglio e naturalmente la somiglianza gioca un ruolo importante in tutto ciò.

L’utilizzo massiccio della cronaca da parte dei politici è anche la conseguenza dei cambiamenti dell’informazione come evidenziati da Sartori nel suo “Homo Videns”. La televisione ha imposto la necessità di dare notizia solo e soltanto se ci sono immagini. L’avvento di internet ha peggiorato la situazione con il predominio dell’immagine sui social come youtube o instagram. Se non ci sono immagini, non c’è notizia. Quando avviene un fatto di cronaca, è facile parlarne televisivamente: basta mandare un inviato a fare qualche domanda ai testimoni per esempio. Questo significa avere telegiornali e giornali infarciti di cronaca imposti ad un pubblico incapace di pensare senza immagini. Discutere e informare di economia o di quello che discute il parlamento andando oltre la classica intervista al politico diventa difficile perché impone la necessita di parlare di un qualcosa senza il supporto delle immagini. Fare informazione costa e chi detiene i mezzi d’informazione non ha lo scopo primario d’informare ma quello di vendere. La cronaca con i suoi aspetti pruriginosi permette di dare quello che il pubblico chiede. La cronaca nera ha inoltre successo perché permette ai suoi fruitori di sentirsi meglio avendo un facile paragone con persone che commettono atti deprecabili. Dato che l’informazione si concentra sulla cronaca e la gente parla essenzialmente di cronaca, il politico è costretto ad adeguarsi per essere rilevante.

Tenendo un discorso politico centrato sulla cronaca si evita inoltre l’astrazione, indigesta in un’epoca dove tutti parlano solo e soltanto in base alla propria esperienza personale come se fosse sufficiente a spiegare tutto. I discorsi e le conclusioni sulla realtá più in generale vengono basati soltanto sulla propria esperienza usata come unico metro per giudicare e comprendere quello che accade. Da qui nasce per esempio la sfiducia nei giornalisti e nell’accettare altri mezzi per tirare conclusioni come le statistiche, soprattutto quando sono in contrasto con la propria percezione. Questo stato di cose viene usato per far filtrare e adottare idee senza la possibilità che un ragionamento o spiegazioni alternative possano in qualche maniera far cambiare idea. Questa è la ragione per cui Salvini usa qualsiasi avvenimento di cronaca nera che coinvolgono gli immigrati. Un fatto di cronaca nera seguito in televisione contribuisce ad arricchire in maniera indiretta la propria esperienza personale con cui viene filtrata e compresa la realtá. In questa maniera si fa veicolare un messaggio che viene recepito dalla gente comune che tutti gli immigrati siano criminali a furia di ascoltare solo casi di crimini compiuti da stranieri. In questa maniera Salvini non ha bisogno di usare un linguaggio esplicitamente razzista per attirare il voto dei razzisti ma allo stesso tempo usa la cronaca per attirare il voto di persone che non sono razziste ma che sono semplicemente preoccupati per la propria sicurezza. Senso di insicurezza che viene aumentato dando risalto solo a notizie di omicidi, rapine e violenza su gente comune con cui è facile identificarsi. Possiamo fornire tutte le statistiche che vogliamo che dimostrino il calo dei reati ma servirà a poco. A furia di ascoltare fatti di cronaca ci si convince piano piano di vivere in un modo insicuro dove appena esci di casa ci sono individui pronti a rapinarti oad amazzarti. In questa maniera si crea quel paradosso già evidenziato da Bauman che faceva notare come l’occidente vive nell’era più sicura della storia dell’umanità e continua a cercare una sicurezza senza fine. Questo è uno dei sintomi del fallimento dell’istruzione pubblica degli ultimi anni che ha creato una scuola a uso e consumo del mondo del lavoro dimenticandosi di formare cittadini capaci di pensare oltre la propria esperienza personale che non racchiude e non può spiegare da sola qualsiasi cosa accada.

Avendo la politica perso l’aspetto razionale (risolvere i problemi comuni) e qualsiasi forma di programmazione del futuro, tutto ciò che conta per vincere le elezioni è avere un impatto emotivo sugli elettori. La cronaca viene usata per creare quel legame emotivo di cui abbiamo parlato in precedenza. Siccome tanti elettori sono male informati e soprattutto incapaci e disinteressati a qualsiasi forma di discorso pubblico, il politico parla di cronaca per aizzare i propri elettori fornendo argomenti che verranno moltiplicati sui social. Si usa la cronaca per cavalcare e aizzare la rabbia e lo scontento. Salvini ancora una volta è maestro in questo quando si fa fotografare con il benzinaio vittima di una rapina o parla di castrazione dopo casi di stupro. Ancora una volta si usa la cronaca per arrivare alla gente meno interessata alla politica per dirgli che lui è lì per difenderli e la pensa come loro al netto dei diritti civili, un giusto processo e filosofie varie. Questo obbliga il resto della politica a prendere posizione con argomenti che risultano lontani e senza senso a chi teme per la propria sicurezza e vede la giustizia solo in termini di punizione.

La cronaca ha una grandissima forza nell’impossessarsi dell’attenzione della gente perché permette di relazionarsi immediatamente perché genera un qualche forma di risposta emotiva. Questo viene sfruttato abilmente dai politici per distrarre l’attenzione e il dibattito pubblico. Nulla di nuovo sotto al cielo ma che con i social diventa ancora più rilevante. Ancora una volta, Salvini ci aiuta a comprendere meglio come funziona. La questione dei fondi russi stava prendendo una brutta piega per lui all’interno dell’opinione pubblica e per sviare il tutto si è usato la questione dei bambini di Bibbiano. Ad ogni articolo sui fondi russi, arrivavano come mosche chi pretende notizie sui fatti di Bibbiano con una morbosità francamente spaventosa. A questa gente non interessa nulla di questi bambini ma solo la possibilità di strumentalizzare politicamente la vicenda. Questa continuo bombardamento sulla questione di Bibbiano anche quando c’era veramente poco da aggiungere mostra anche una trasformazione dell’uso della massa nello scontro politico. Eravamo abituati ai partiti di massa dove gli iscritti prendevano parte alla vita interna dei partiti attraverso l’attività delle sezioni e aiutavano il partito durante le campagne elettorali. La politica sui social si appoggia ancora moltissimo sulla massa ma in maniera diversa. Esiste ancora una massa usata dalla politica ma in maniera meno organizzata. Non vi è più un’organizzazione militare sul territorio fatta di sezioni e segretari, ma una massa di individui disconnessi che “motu proprio” si trasforma in mezzo di propaganda politica. Per dirigerla e usarla si usa anche la cronaca e i sentimenti che essa genera per invogliare questa massa a prendere parte e intervenire nei dibattiti sulla rete. Prendere posizione e scrivere un qualcosa non viene naturale a meno che si creino le condizioni emotive per farlo. Una volta fatta bollire di rabbia una parte dell’opinione pubblica al punto giusto, basta dare lo slogan o un semplice ragionamento in sintonia con l’umore creato e il resto segue. Da qui il bombardamento di “parlateci di Bibbiano” che doveva essere tradotto con “non parlateci dei fondi russi”. La cronaca diventa una specie di cane da guardia per dirigere un gregge disordinato verso obbiettivi specifici. Si crea cosi una minoranza chiassosa e rumorosa che prende il sopravvento su chi magari ha delle idee ma che rinuncia a esprimerle per non essere bombardato con attacchi di isteria. In questa maniera chi non ha opinioni si adegua all’apparente maggioranza per conformismo e per sentirsi dalla parte dei vincitori. Gramsci ci aveva spiegato che i partiti politici servivano anche per gestire e ridurre il l’impatto dai boom dell’opinione politica. Nella politica di oggi, senza partiti in grado di svolgere questo ruolo, gli esperti di comunicazione creano e gestiscono questi boom attraverso un uso sapiente della rete. D’altronde siamo il paese che ha quasi iniziato una rivoluzione per i 2 centesimi sulla busta di plastica  e non proferisce parola su temi molto più importanti e che toccano in maniera molto più pesante le nostre tasche.

Leaders, partiti e crisi della democrazia

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Abbiamo visto nell’articolo precedente come avere un leader carismatico può servire a vincere le elezioni ma senza una visione diventa difficile governare. Basare la comunicazione politica solo e soltanto sulla personalità di un politico non è solo una ricetta per un fallimento politico una volta al governo, ma è la conseguenza e una delle cause stesse di quella che viene comunemente chiamata “crisi della democrazia”. Una politica che si sviluppa solo attorno alla capacità dei politici di entrare in sintonia con il popolo indeboliscono il ruolo dei partiti e di conseguenza la democrazia per tante ragioni. Come abbiamo visto, un leader di successo può certamente aiutare a vincere le elezioni ma non sempre rende un favore all’organizzazione per cui lavora in quanto le organizzazioni, come i partiti, dovrebbero avere un orizzonte temporale che va oltre quello di un uomo politico. Con partiti politici sempre più deboli, la tensione generata dagli interessi diversi tra politico e partito si risolve spesso a favore del primo. Non è un caso che Forza Italia non sia in grado di andare oltre Berlusconi, mentre Il partito laburista inglese ha enormi difficoltà nel dopo Blair. Un leader che ha con se solo il consenso può essere nocivo per il partito o per le idee che porta in quanto tutto s’identifica con il politico e se il politico cade in disgrazia porta con se tutto quello a cui lui è stato associato. Negli ultimi hanno abbiamo visto una crescente importanza del ruolo giocati dai singoli politici e una diminuzione dell’importanza e del ruolo dei partiti. Questo non riguarda solo i partiti politici ma purtroppo anche tutte le forme organizzate all’interno della società: sindacati, associazioni, movimenti etc.

Quali sono le ragioni che hanno visto i singoli politici diventare più importanti dei partiti? Qual è l’impatto sulla democrazia e nel rapporto tra elettori e democrazia?

Per anni i partiti hanno svolto un ruolo predominante in politica e i leader, non importa quanto popolari, venivano sempre visti come funzionari ed espressione di tutto quello che il partito rappresentava. La fortuna del singolo politico dipendeva dal prestigio e dalla forza del partito di appartenenza. I partiti protagonisti della prima repubblica sono rimasti più o meno gli stessi perché era difficile per qualsiasi personalità riuscire a imporsi con un partito personale. Questo dipendeva essenzialmente dalla scarsità e dalla limitazione dei mass media. La politica dipendeva dall’organizzazione capillare dei partiti di massa che riuscivano a far trapelare il proprio messaggio attraverso l’opera dei propri iscritti, mentre i partiti di notabili puntavano sulla forza che essi avevano sul territorio anche se con molta più difficoltà. Con la frammentazione dei mass media e l’affermarsi di internet, è stato possibile per i politici rapportarsi direttamente con l’elettore facendo diventare secondario la capillarità sul territorio e dunque l’importanza del partito. La rete ha dato la possibilità di essere ovunque senza la necessità di avere un’organizzazione sul territorio, permettendo di modellare il messaggio politico attorno al singolo elettore quasi senza contradittorio.  Il Movimento 5 Stelle e l’affermarsi in breve tempo della Lega nel meridione sono i migliori esempi di questo essendo stati capaci di creare consenso quasi esclusivamente attraverso un uso sapiente delle possibilità offerte dalla rete.

Inoltre vi era quasi un’univocità tra gruppi sociali e  partiti con la politica che dava priorità e discuteva molti meno temi e quasi tutti legati alla questione sociale. A tratti la politica si occupava di altri argomenti, soprattutto in caso di referendum, ma la politica si concentrava prevalentemente intorno allo scontro sociale. Questo era dovuto essenzialmente a due ragioni: i limiti intrinsechi dei mass media tradizionali e la percezione degli elettori. Radio, televisione e giornali hanno limiti di spazio e non possono permettere dibattiti su tutti i temi a differenza di internet che può dare spazio a tutto e poi l’elettore sceglie il tema che gli sta più a cuore. La limitazione dei media imponeva ai partiti di scegliere i temi che potessero essere più a cuore ai propri elettori. Per i partiti di sinistra questi temi non potevano che essere quelli legati alla lotta di classe e all’economia in generale alla luce della loro ragione d’essere. Dato che tutto il dibattitto era organizzato e si sviluppava attorno a pochi temi, lo stesso elettore arrivava alla conclusione che tutto il resto era di secondaria importanza.  Il dibattito limitato non permetteva l’ascesa di partiti personali che avevano difficoltà a imporre nuovi temi sulla scena politica (o per lo meno questi temi non erano abbastanza forti per creare un consenso significativo) mentre i temi ritenuti importanti dagli elettori erano  già rappresentati dai partiti esistenti. Il partito radicale è un esempio di come la sua capacità di imporre dei temi nel dibattito nazionale impattava la sua fluttuante fortuna elettorale. Con l’esplosione degli argomenti, la frammentazione di richieste sociali e la perdita della coscienza di classe capace di raggruppare diversi strati della popolazione ha trovato i partiti impreparati. Le forze politiche organizzate, soprattutto a sinistra, hanno iniziato ad avere difficoltà a tenere insieme un messaggio politico capace di rappresentare una parte significativa dell’elettorato.

Il singolo elettore non ha il tempo e la capacità di farsi un’idea su tutto soprattutto in un periodo dove l’interesse verso la politica è debole. Tutto questo facilita il ruolo del leader che non ha bisogno di rappresentare un gruppo sociale ma può creare consenso creando un legame a livello emozionale con l’elettoreun legame a livello emozionale con l’elettore.  Il politico da solo è in grado di creare consenso apparendo simile al proprio elettore cavalcando la sua rabbia e usando lo stesso linguaggio senza la necessità di elaborare troppo la propria proposta politica. Questa flessibilità lo rende più dinamico e pronto a seguire gli umori degli elettori in base ai suoi comportamenti sulla rete (parole e temi trend) a differenza di un partito che ha la necessità di un dibattito e di una elaborazione al proprio interno. Puntando sulla propria persona, non é costretto a prendere posizione su tutto o a rivolgersi a tutti con una proposta politica specifica che apparirebbe sempre limitata. Puntando sulla sua figura, il politico incanala il dibattito su se stesso mettendo in secondo piano tutto il resto. Invece di chiedere all’elettore di farsi un’idea precisa su tutto (praticamente impossibile) gli viene chiesto di scegliere il leader invece di un partito. Il leader viene venduto come toccasana di tutti i problemi riducendo tutto alla semplice volontà politica necessaria per risolvere questi problemi.  Avendo focalizzato il dibattito su se stesso, diventa anche più facile controllarlo. Trump, Salvini e Boris Johnson sono gli esempi migliori di tutto questo dove ogni singola uscita, apparentemente fuori le riga, serve per distogliere attenzione da un qualcosa che li danneggia per ripuntarla sulla propria persona.

La maggiore individualizzazione della società e la cattiva reputazione dopo gli scandali di corruzione hanno allontanato le persone dai partiti generando una serie di condizioni che avvantaggiano una politica e una comunicazione a uso e consumo dei leader. La prima condizione è quella che i partiti hanno visto diminuire i propri membri rendendo difficile quel lavoro casa per casa su cui i partiti di massa poggiavano la loro forza. Questo ha indebolito la funzione dei partiti politici ai fini della creazione del consenso obbligando a puntare di più sul leader che permette di usare meglio la rete semplificando il messaggio intorno ad una persona piuttosto che a un messaggio più complesso. La seconda riguarda la scomparsa della fedeltà dell’elettore nei confronti del proprio partito aprendo una prateria per nuovi gruppi politici e personaggi per cercare il consenso soprattutto attraverso la creazione di una nuova identità da far adottare all’elettore.

Tutte queste condizioni non hanno solo permesso l’ascesi dei partiti personali ma anche la trasformazioni dei partiti esistenti costretti a rimodellarsi intorno alla figura di un leader come accaduto per il partito repubblicano dopo l’ascesa di Trump. I partiti che non riescono ad esprimere un leader capace ne pagano le conseguenze da un punto di vista elettorale come il PD in Italia o il Partito Socialista in Francia o la SPD in Germania. L’alternativa diventa quella tra rassegnarsi all’estinzione o trovare un leader su cui modellare la propria identità. L’incapacità dei partiti di ritagliarsi uno spazio autonomo dai leader ha delle conseguenze molto più ampie che non riguardano solo i partiti. Una politica ripiegata troppo sulle personalità politiche, senza visione per il futuro e forme di partecipazione e organizzazione all’interno della società civile è infatti dannosa per la stessa democrazia. Quello in cui ci troviamo è un ciclo vizioso distruttivo che si auto alimenta. Senza partiti e progetti per il futuro si punta a vincere le elezioni attraverso la “santificazione” del politico di turno. Questa “santificazione” mette sempre più in secondo piano i partiti e il loro ruolo. Senza partiti non c’è rappresentatività e diventa ancora più necessario usare un leader per attirare voti e creare quel legame che porti la gente a votare riducendo ancora di più l’importanza dei partiti. Non c’è una vera democrazia senza rappresentatività e da qui nasce quella che oggi viene chiamata crisi della democrazia.

Viviamo un momento dove la politica si rassegna a fare solo gestione, con una partecipazione popolare che non va oltre i like, una società sempre meno organizzata dove la politica attraverso i leader sembra l’unica possibile. Questo tipo di politica sembra essere molto simile a quella delle democrazie liberali prima del suffragio universale con partiti che erano club di notabili che si coagulavano intorno a dei politici carismatici e si adoperavano intorno alle elezioni. Cosi come quelle democrazie, anche le nostre soffrono di un problema di rappresentatività anche se tutti sono chiamati a dare il voto. Senza forme di organizzazione, nascono spontanei movimenti come i “Giletti gialli” o le “sardine” che cercano di colmare quel vuoto tra istituzioni e cittadini riempiendo le strade cercando di farsi ascoltare.  Questa crisi è generata dal fatto che è venuto a mancare quella cinghia di trasmissione tra politica e popolo rappresentata proprio dai partiti o da altre forme di organizzazione come i sindacati ormai messi da parte dalla cultura dominante che esalta l’individuo oltre alla corruzione e al loro mal funzionamento. In questa maniera, si crea quella frattura tra governati e governanti già evidenziata da Gramsci. In questa frattura si inseriscono attori politici che cavalcano il malcontento generato da questa frattura con l’obbiettivo di allargare questa frattura piuttosto che chiuderla perché il loro successo dipende essenzialmente da questa separazione. Il politico di turno con la sua demagogia si pone come un cuneo in mezzo a questa spaccatura tra governati e governanti; apparentemente questo cuneo sembra chiudere questa frattura tra popolo e politica ma in realtá la si sta allargando attraverso una demagogia che cerca di delegittimare le istituzioni e chi le occupa. L’obbiettivo è quello di separare definitivamente i due lati e sostituire una parte con il cuneo, ma una volta compiuta la separazione tutto crolla perché la demagogia non può reggere e tenere uniti a se i governati per un lungo periodo.

Quando il successo elettorale dipende soprattutto dalla capacità dei politici di attirare il consenso tutto si gioca sulla forza di questo politico di essere ben voluto dagli elettori. Essere ben voluti non ha nulla a che fare con le sue capacità o con la validità delle idee che porta avanti. Per avere successo un leader deve essere di bel aspetto (saper bucare lo schermo), apparire simile all’elettore (dire e fare come loro) per dare un illusione di rappresentatività, dire banalità che non scontentino nessuno e apparire come infallibile. Da questo si capisce perché un leader deve apparire senza macchia e atteggiarsi come un Superuomo che non sbaglia mai e non chiede mai scusa. La politica e le campagne elettorali non sono altro che una mercato dove l‘elettore compra un leader attraverso il proprio voto perché non c’è altro da comprare o dare fiducia. Siccome si ha un solo voto a disposizione si deve comprare il meglio e gli esperti della comunicazione devono cercare di far sembrare il politico il migliore che ci sia in circolazione. Questa è una delle ragioni per cui Salvini non hai mai chiesto scusa in maniera chiara alla sorella di Cucchi per le sue parole preferendo girandoci intorno. Chiedere scusa è un’ammissione di debolezza che rischia di distruggere un piedistallo fragilissimo fatto di tanta comunicazione e poca sostanza. Questo significa andare avanti senza possibilità di tornare indietro anche quando la strada è sbagliata. Mettendo prima di tutto la propria immagine come unico fine politico, le scelte politiche si riducono a iniziative che permettano di rafforzare questa immagine. L’azione governativa di questi anni si è contraddistinta soprattutto per iniziative mirate ad essere utilizzate per dare luce al leader che li proponeva più che all’interno di un progetto di cambiamento per il paese. Renzi con il suo referendum costituzionale è un chiaro esempio di tutto ciò. Prima, porta avanti una riforma costituzionale solo per rafforzare la sua immagine dell’uomo del fare capace di rottamare la politica, e poi continua ad andare avanti e difendere quella decisione scellerata anche quando è chiaro a tutti che fu una scelta disastrosa non solo per lui ma per tutto il suo vecchio partito di riferimento. Per questo motivo la personalizzazione della politica porta ad un deterioramento del dibattito politico e con esso un peggioramento della democrazia incapace di elaborare soluzioni.

Una politica costruita solo sul consenso e la popolarità dei politici diventa dannosa per la democrazia anche perché diventa naturale fare paragoni con il passato. Quando la politica si attorciglia attorno alle persone diventa facile fare confronti con i politici del passato che diventano la pietra di paragone per tutti gli altri che seguono, con il rischio che nessuno appaia all’altezza in quanto si finisce per idealizzare il punto di riferimento. Si finisce ad osannare il passato con un presente che non risulta mai all’altezza delle figure del passato come Nietzsche ci aveva messo in guardia. Non a caso si rimpiangono personaggi come Pertini, Berlinguer da una parte e Almirante e Mussolini dall’altra. I politici sono l’incarnazione delle istruzioni e della democrazia stessa. Se i politici non risultano all’altezza, tutto il sistema non risulta all’altezza. Questa è la ragione per cui, inconsciamente o consciamente, chi è all’estremo dello spettro politico e non ritiene centrale il mantenimento di un sistema democratico continua a fare paragono con politici del passato o con proiezioni ideali di politici del presente come Putin. Tutto questo rende più facile l’ascesa al potere degli estremisti. Mettendo in secondo piano le idee e criticando la classe politica attuale, l’estremista raccoglie il voto facendo dimenticare quello che veramente pensa permettendogli di andare oltre la solita cerchia di elettori soprattutto quando il clima sociale è solcato da tensione e insoddisfazione. L’ascesa di Maria Le Pen è stata possibile anche attraverso una comunicazione che la metteva al centro facendo passare in secondo piano tutto il resto legato legato alla sua provenienza politica.

La personalizzazione della politica trasforma le differenze programmatiche in battaglie personali dove alla fine tutto si riduce nell’essere o contro qualcuno. Per capire questo basti pensare a Renzi e al dibattito all’interno del PD prima della sua fuoriuscita. Le divisioni all’interno di un partito diventano più difficili da sanare in quanto le divisioni programmatiche si sovrappongono alle divisioni personali come è accaduto al partito laburista nell’ultimo periodo. Corbyn incarnava la “sinistra pesante” in una continua guerra di frizione con Blair alfiere della “sinistra leggera”. Il partito laburista è apparso in preda a lotte di potere interne che hanno pagato in termini elettorali. Le differenze programmatiche si trasformano velocemente in differenze personali, e invece di avere un dibattito politico foriero di idee si ha una lotta al potere tra diverse fazioni a sostegno del proprio capobanda.

Quando un leader si impone e inizia ad avere a una forza di attrazione sull’elettorato,  i rispettivi partiti che devono il loro successo al loro leader diventano dei partiti imbavagliati e incapaci di svolgere al meglio la loro funzione. Questa è una difficoltà non solo per i partiti personali legati a doppia mandata con il leader ragione d’essere della loro esistenza, ma anche per quei partiti in cui la personalità di un politico diventa così ingombrante da diventare il partito stesso. Le difficoltà della vecchia Lega Nord nel post Bossi possono essere spiegate anche in questa maniera, cosi come la scomparsa di Alleanza Nazionale nel dopo Fini. Anche un partito con un bagaglio ideologico ben definito come Rifondazione Comunista si è trovata in difficolta nel gestire il dopo Bertinotti. Quando il partito si confonde con il leader (Meloni e Salvini sono i migliori esempi al momento) tutti sentono il dovere di seguire e trovarsi d’accordo con il leader in quanto la loro elezione non dipende dal partito ma dal leader. Quando un leader è troppo popolare senza una visione, o la sua persona diventa così ingombrante da far sparire il resto, il leader politico diventa necessario alla sopravvivenza del partito di cui è a capo. Avere un’opinione diversa dal proprio capo diventa pericoloso in quanto si rischia di essere estromessi perché la “santificazione” del leader ai fini del marketing politico non permette obiezioni. Questa è un tipo sbagliato di leadership che ha paura del dissenso e crea conformismo. Una vera leadership non va confusa con il conformismo intoro al capo perché non tira fuori il meglio dei singoli ma premia soltanto la fedeltà. Proprio perché non può permettersi una discussione interna che mini la sua immagine di uomo forte e capace, i capi politici tengono a circondarsi e dare risalto a personaggi che hanno l’unico merito di essergli fedeli. I partiti smettono di avere la funzione di selezione di una classe dirigente dotata di idee proprie per diventare luoghi dove si premia l’adulazione e l’ossequio. Naturale conseguenza di tutto ciò è che se il leader sbaglia, nessuno lo contesta e tutti lo seguono fino a quando cade in disgrazia. Il partito non ha più un respiro temporale che va oltre il leader in quanto non vive più una vita propria ma dipende da quella del proprio capo

Una forte leadership senza una visione, un’organizzazione indipendente e una classe dirigente non permette al partito di svolgere al meglio le proprie funzioni: dalla selezione di una classe dirigente a rappresentare gli elettori, da centro di elaborazione di idee a sostegno degli eletti, dalla formazione degli eletti a centri di educazione politica delle masse. Il partito diventa soltanto una macchina elettorale nelle mani del capo politico con l’unico scopo di “santificare” e sostenere il proprio leader. In termini gramsciani, il partito smette di attirare e far funzionare al proprio interno gli intellettuali che hanno un ruolo guida per vincere la battaglia culturale necessaria per vincere quella politica. Solo funzionando bene, il partito può iniziare “il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta…riassumendo le volontà collettive parziali che tendono a diventare universali e totali”. In altre parole, solo un partito politico autonomo dal proprio leader può essere in grado di rappresentare il popolo sanando la frattura tra governati e governanti andando oltre le divisioni all’interno della società. Solo i partiti possono risolvere il problema della rappresentatività alla base della crisi della democrazia. Una democrazia è in grado di rispondere alle esigenze degli elettori solo se la classe politica è in grado di farlo.  Solo attraverso l’organizzazione degli intellettuali si può selezionare una classe politica adeguata capace di elaborare programmi per i futuro. Senza tutto ciò la democrazia diventa inutile perché incapace di risolvere i problemi dei governati. Quando questo accade, prima si contestano i partiti, poi i politici e alla fine la democrazia stessa.

Fake news: il perché del loro successo.

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Si fa un gran parlare di “Fake News” ovvero le notizie contenenti false informazioni o  parzialmente vere con dettagli omessi per dare una visione distorta a fini politici. Le fake news vengono accusate di cambiare i corsi politici e di essere una nuova arma geopolitica usata da paesi terzi per condizionare la vita politica di altri paesi. La disinformazione è sempre esistita ma ha acquisito un peso considerevole grazie a internet e ai social media dove ognuno può creare e far circolare all’infinito qualsiasi informazione vera, verosimile o palesemente falsa. Quando si discute di fake news lo si fa sempre da un punto di vista razionale. Alla base di questo modo di vedere le cose, l’elettore è sempre e totalmente un agente pensante che modifica il proprio pensiero, e di conseguenza il proprio voto, in base alle informazioni ricevute. Secondo questa prospettiva, le fake news mirerebbero a ingannare le persone facendogli cambiare opinione sulla base di informazioni false. Più semplicemente mirerebbero a cambiare la percezione della realtà fornendo una visione distorta creata ad arte attraverso informazioni false. Il dibattitto sull’immigrazione è forse l’esempio più palese dove la gente pensa che la percentuale di immigrati e islamici sia molto più alta della realtà. In alcuni casi le fake news hanno raggiunto risultati paradossali come evidenziato dal caso di Ebbw Vale in Galles che ha votato in massa per la Brexit per paura dei flussi migratori e contro un Europa che non ha fatto nulla per loro. Il paradosso? A parte la quasi totale mancanza di immigrati in questo paese, quello che sorprende è che abbiano votato per la Brexit nonostante i massici finanziamenti ricevuti dall’UE usati per la sua riconversione industriale. In altre parole hanno creduto più alle fake news che alla realtá circostante fatta da tante opere finanziati dall’UE.

Analizzare comunque le fake news solo da un punto di vista razionale produce una visione molto parziale del fenomeno. Come abbiamo visto in precedenza, l’elettore non è un essere puramente razionale ma le sue decisioni spesso e volentieri sono il frutto della sua sfera emotiva. Analizzare le fake news solo e soltanto da un punto di vista razionale non ci darebbe una visione corretta del fenomeno in quanto esse agiscono più a livello emotivo che razionale. Infatti, le fake news sono principalmente mirate a cambiare le emozioni delle persone e il cambio d’opinione è solo una conseguenza del primo cambiamento. Le fake news non hanno il fine di convincere le persone ma quello di cambiare la loro predisposizione emotiva nei confronti della realtà e questo le rende più insidiose e difficili da combattere. Sono create non per far pensare ma per scatenare una reazione impulsiva. Il fatto che le fake news tendono a giocare sulle emozioni delle persone è chiaro se si pensa al fatto che non si limitano a dare una semplice informazione ma hanno sempre l’obiettivo di far arrabbiare, indignare e disgustare chi le riceve. Vengono anche usate per cambiare in positivo la predisposizione emotiva verso un governo una volta al potere ma non sono cosi efficaci: un po’ perché la gente è disillusa nei confronti della politica, un po’ perché in una società dei consumi che crea infelici è più facile convogliare emozioni negative. Infatti una volta al potere, i politici continuano a usare fake news soprattutto per continuare a denigrare le opposizioni. Analizzare le fake news da un punto di vista emozionale ci può aiutare a comprendere meglio questo fenomeno e soprattutto il suo successo.

Perché siamo inondati da fake news e perché ne siamo tutti vittime? Troppo spesso ci si limita ad accusare l’ignoranza ma è una spiegazione troppo semplicistica che si ostina a vedere le fake news solo da un punto di vista razionale. Siamo tutti vittime delle fake news non importa il nostro grado d’istruzione perché le fake news non hanno bisogno neanche di essere credute per avere successo. Possiamo anche razionalmente e velocemente ignorarle ma se ci hanno fatto arrabbiare o indignare anche per un secondo (prima che intervenga la nostra parte razionale) hanno raggiunto il loro obiettivo. Quando veniamo bombardati da tante fake news e non abbiamo tempo per  fare il “fact cheking” o non sappiamo come farlo, piano piano le fake news cambiano la nostra predisposizione verso la realtá senza neanche ce ne rendiamo conto in quanto lavorano a livello emotivo. Possiamo ignorare la singola fake news a livello razionale ma la valanga di informazioni false ha tutto il tempo per cambiare le nostre emozioni perché alla fine la quantità schiaccia tutto il resto e si impone come verità.

Il cercare una risposta emotiva immediata è anche alla base della loro rapida diffusione. Il fatto di arrabbiare e indignare fa sì che la notizia venga immediatamente condivisa senza starci troppo a pensare. Da qui la facilitá con cui si moltiplicano sulla rete. Difficile anche cercare di contrastarle razionalmente. Il fact checking richiede tempo e non siamo specialisti di tutti i rami della conoscenza umana per permetterci sempre di scindere il falso dal vero, senza parlare delle fake news che parlano di fatti che sono accaduti che possono essere confermati solo da eventuali testimoni. Per fortuna ci sono anche siti che combattono le fake news ma, nonostante l’egregio lavoro fatto, sono dei Don Chisciotte contro i mulini a vento. Prima di tutto sono talmente tante che è difficile andare dietro ognuno di essa. Le fake news sono brevi, e quasi sempre si basano su immagini e titoli forti per attirare l’attenzione. Le spiegazioni richiedono argomentazioni che mal si conciliano con la scarsa propensione alla lettura dei tanti che usufruiscono dei social. Anche chi ama leggere, sui social preferisce informazioni facili da digerire perché i social non sono fatti per la riflessione ma principalmente per lo svago.

Contrastare le fake new richiede un amore per la verità che non tutti abbiamo e per lo meno non sempre lo abbiamo. Non importa quanto istruiti o oggettivi siamo, non siamo sempre interessati a conoscere la verità soprattutto quando la fake news rafforza le nostre opinioni. In questi casi evitiamo di controllare se le informazioni ricevute siano vere perché il fatto che confermi un nostro pregiudizio rafforza la sua veridicità. Anche se ci prendessimo la briga di controllare la veridicità di un qualcosa che si sposa con le nostre convinzioni,  il fact-checking viene preso per le pinze o immediatamente accusato di fake news a sua volta delegittimando la fonte. A nostra volta diventiamo dei piccoli Trump quando messi davanti a verità scomode appicicando l’etichetta di fake news a tutto quello che risulta non alineato con la nostra visione. Come precedentemente discusso, la verità ha perso la parvenza di oggettività in quanto un qualcosa diventa vero solo e soltanto se diventa utile per raggiungere un fine personale. Nel momento che una fake news conforta le nostre posizioni non obbligandoci a dolorosi cambiamenti d’opinione, l’accettiamo e non ci sforziamo di verificare l’attendibilità. Le fake news offrono un vasto campionario di attrezzi che se diligentemente usati, ci permettono di creare una percezione della realtà che ci fa comodo. Più intelligenti siamo, più cultura abbiamo, più siamo in grado di utilizzare le fake news a nostro favore facendole interagire e tirando conclusioni logiche basate su presupposti non corretti. Non ci si pone più nella posizione di interrogare la realtà per formare un’opinione ma si adotta il processo inverso: una volta che abbiamo un opinione andiamo a cercare gli elementi che confermano la nostra visione. Per questo motivo le fake news hanno successo: ci rassicurano, danno un ordine alla realtà circostante e la semplificano in maniera tale da essere facilmente digerita. Dietro ogni problema c’è un villano (immigrato, Soros, PD o UE) e basta combattere il villano per cui porto un odio feroce per risolvere il problema.

Le fake news ci mostrano un aspetto interessante dei nostri giorni che non vale solo per il mondo dell’informazione: la diminuzione del ruolo dello stato e delle forme organizzate della societá (partiti e sindacati prima di tutto) e della loro funzione di controllo dá maggiore responsabilità al singolo individuo che a sua volta si sente meno responsabile nei confronti della collettività a seguito di un cambio culturale che premia l’egoismo e il successo personale soprattutto da un punto di vista finanziario. Il neoliberismo ha ridotto il ruolo dello stato facendo appello alla responsabilità dell’individuo ma allo stesso tempo ha atomizzato la società cancellando le responsabilità degli individui verso la collettività attraverso  un appello al loro edonismo per tenere in piedi un sistema capitalistico basato sui consumi personali. Questo non è solo il frutto di politiche economiche o di un cosciente piano politico ma è anche frutto dei cambiamenti tecnologici che hanno reso l’individuo sempre più autosufficiente e sganciato dalla comunità. Le fake news mostrano forse più di altri campi questo paradosso e delle sue conseguenze. L’individuo non è solo responsabile come utilizzatore dell’informazione a cui è chiesto sempre un lavoro di controllo che non sempre avviene, ma puó diventare anche responsabile della produzione dell’informazione stessa. Internet ha permesso la frammentazione dell’informazione in quanto le informazioni non vengono da relativamente poche fonti come nel passato. Ognuno di noi può creare informazione. Se nel passato tutti coloro che fornivano informazione erano soggetti a una deontologia professionale e a vari controlli, oggi ognuno sulla rete risponde solo alla propria coscienza quando crea “informazione”. Ognuno di noi può creare false notizie e farle girare anche solo per divertimento, attraverso un meme per esempio. In un dibattitto politico dominato dall’identità senza ideologie, dove l’appartenenza politica e il successo di questa parte politica contribuiscono non solo alla formazione della propria identità personale ma alla costruzione della propria autostima, vi è un forte senso di partigianeria che spinge alla creazione di notizie false pur di vedere la propria parte politica vincere e rafforzare il proprio ego.

La tecnologia ha fatto passi da giganti ma l’uomo non si é evoluto di pari passo. Un sistema dove ognuno può creare informazione e ognuno è responsabile della consumazione di questa informazione, richiederebbe un uomo o donna sempre presente a se stesso con un alto senso etico e democratico. Ognuno di noi dovrebbe verificare le informazioni che riceve, ascoltare l’altra campana, condividere o creare informazione solo se sicuri della sua veridicità e con il solo scopo d’informare correttamente. La verità è che siamo molto lontani da questo ideale. Qui non si tratta di tornare ad un passato dove l’informazione è controllata dall’alto o l’instaurazione di controlli sulla rete come in Cina, ma se non vogliamo che il mondo dell’informazione degeneri e con essa la democrazia qualcosa va fatto. Certamente i social devono impegnarsi di più a eliminare pagine che hanno il solo scopo di diffondere informazioni false ma  questo non basta. I loro algoritmi non possono continuare ad essere un segreto. Forse sarebbe opportuno una discussione su come essi funzionano in maniera da penalizzare in qualche maniera chi usa i social in maniera scorretta. Un impregno maggiore da parte di scuola e politica é necessario. La scuola deve insegnare l’utilizzo del mezzo e rafforzando il senso critico degli studenti. I politici dovrebbero invece smetterla di usare fake news, di dare un tono indignato ai loro proclami e di usare il tribalismo per mantenere il consenso. In un sistema informativo dove ognuno è responsabile, o diventiamo tutti più responsabili oppure il sistema informativo è destinato a collassare e con essa la democrazia. Le fake news sono il sintomo di un malessere generale che rischia di diventare pericoloso se non lo si combatte in tempo.

Identitá e democrazia!

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Gli esseri umani hanno in qualche maniera la necessità di dare un senso alla realtà che li circonda. Questo è forse uno dei tratti che ci differenzia dal resto del mondo animale. Per far ciò accumuliamo informazioni ed elaboriamo opinioni su quello che ci accade intorno. Queste opinioni e idee ci permettono di evitare di vivere in un vuoto senza senso, consentendoci di essere ancorati al presente fornendoci delle coordinate su cui basare le decisioni di tutti i giorni. Abbiamo già analizzato come la crescita della complessità della vita moderna sia una delle chiavi per comprendere il populismo che fornisce una semplificazione del mondo pronta per essere consumata e utilizzata da chi non ha tempo o i mezzi culturali per farsi un’idea di quello che lo circonda. Comunque la vogliamo vedere, le idee e le opinioni che ci facciamo sono un ponte tra noi e la realtà. Essendo un ponte, sono in qualche maniera esterne a noi. Queste idee dovrebbero essere cambiate o abbandonate quando ci accorgiamo che sono sbagliate o che ci danno un’idea distorta di quello che ci circonda. Può capitare che la realtà stessa cambi o semplicemente entriamo in contatto con nuove informazioni. Qualsiasi idea che ci contraddistingue dovrebbe essere sempre temporanea e pronta ad essere cambiata tenendo sempre presente che l’obbiettivo finale dovrebbe essere quello di avvicinarci il più possibile alla verità. In termini democratici, dovremmo essere guidati dalla razionalità quando chiamati ad esprimere il voto o una semplice idea. Per quanto questa visione popperiana della democrazia sia auspicale, la realtà è completamente diversa. Il voto e le nostre opinioni sono guidate dalle nostre emozioni che sono ampiamente sfruttate da chi è chiamato a creare il consenso per un partito o un uomo politico. Il ruolo delle emozioni in politica sono amplificate dall’uso del concetto d’identità. Quando entra in gioco l’identità, le nostre opinioni non sono più un ponte verso la realtà ma sono parte integranti di noi stessi. Una volta che le nostre opinioni non sono più usate per rapportarci a quello che ci circonda ma per rafforzare la percezione di noi stessi, esse si ritrovano scollegate dalla realtà. In questa maniera la realtà è usata per rafforzare le nostre idee andando a prendere solo le informazioni che ci interessano o che ci sono utili. In altre parole, le idee non vengono cambiate per aderire alla realtà ma interpretiamo la realtà fino a quando otteniamo la risposta che combacia con le nostre idee. Le nostre opinioni non sono più uno strumento per dare un senso al presente ma un mezzo per cercare il riconoscimento da parte degli altri. Le nostre convinzioni diventano un tutt’uno con noi stessi rendendo molto difficile cambiare idea perché significherebbe cambiare quello che noi siamo. Cambiare noi stessi è doloroso con un impatto non indifferente sulla nostra autostima. Per evitare questa spiacevole operazione, preferiamo vedere la realtà solo e soltanto dall’angolo che ci fa comodo, oppure ci rifugiamo nel branco che condivide la nostra opinione. I social sono il rifugio perfetto per chi cerca il branco per sostenere le proprie idee anche quando sono palesemente infondate. Il trovare persone che la pensano come noi, che premiano con like e apprezzamenti chi rimane fedele alla linea sono un rifugio perfetto per chi voglia evitare il rischio di cambiare idea ormai sinonimo di sconfitta ai nostri giorni. Una massa crescente di elettori fortemente condizionati dall’identità pone una serie di sfide alla democrazia. Creare e usare l’identità per creare consenso è molto efficace ma rischia di snaturare la democrazia. Nel precedente articolo ci siamo soffermati su come la Casaleggio Associati abbia creato un’identità a 5 stelle e sia riuscita a passarla a milioni di elettori; in questo articolo faremo un passo ulteriori riflettendo sui rischi che l’uso dell’identità pone alla democrazia.

La prima conseguenza sulla democrazia quando l’identità gioca un ruolo preponderante è la fine del dibattito almeno nel senso dialettico. Il dibattito non viene più usato come una maniera per confrontare le idee (tesi e antitesi), trovare punti deboli o spunti interessanti per migliorale in maniera da arrivare o almeno provare ad arrivare ad una sintesi. Anche se la sintesi non viene raggiunta e le due parti rimangono distanti, il confronto dovrebbe almeno avere il pregio di migliorare le proprie opinioni, adattarle per far in maniera che siano più aderenti alla realtà dopo le informazioni ricevute o per lo meno instaurare un minimo di dubbio che spinga alla riflessione. Essere aperti al confronto e al dibattito presuppone la possibilità di cambiare posizione per lo meno nel lungo periodo. Dal confronto e dall’approccio razionale, le idee palesemente false dovrebbero essere accantonate o per lo meno prese con le pinze. In questa maniera lo scambio di opinioni aiuta a migliorare le decisioni. Quando si è mossi invece dall’identità, non solo la possibilità di cambiare idea non è data ma soprattutto non c’è nessun spazio né per il dubbio né per la possibilità di esser contaminati in qualche maniera. Il dibattitto diventa uno scontro tra identità granitiche che mirano alla distruzione dell’altro. Il dibattito non viene usato per migliorarsi o comprendere meglio la realtà ma solo e soltanto per rafforzare la propria identità e obbligare il nostro interlocutore a riconoscere quello che siamo. Dato che la possibilità di cambiare posizione non è contemplato, diventa impossibile anche trovare un compromesso inteso come terza posizione o sintesi. Questa è una delle ragioni per cui il dibattitto democratico dei nostri giorni é sempre polarizzato su posizioni estreme che non permettono una via di mezzo. Tutto diventa bianco o nero senza la possibilità non solo di trovare punti di incontro ma anche di riflettere. L’unica riflessione concessa e quella che ci permette di difendere le nostre posizioni e di conseguenza la nostra identità. Da questo punto di vista, internet è un’arma eccezionale che ci permette di trovare le informazioni di cui abbiamo bisogno per confermare il nostro punto di partenza. Nel mare di dati, opinioni e informazioni che compongono la rete risulta fin troppo facile trovare quello che ci serve ignorando tutto quello che risulta contrario. Allo stesso tempo internet permette di rifugiarsi in comunità online dove poter annacquare qualsiasi dubbio e trovare forza a quello che pensiamo. I social sono diventato il regno di “condivisori compulsivi” che propagano qualsiasi cosa in linea con la propria identità senza pensarci due volte. Schiacciati da una valanga di commenti a senso unico, diventa difficile qualsiasi forma di discussione. Chi non ama essere offeso, deriso o stanco di dover spesso affermare l’ovvio non può far altro che chiudersi in un silenzio telematico lasciando ancora di più spazio libero a queste orde che confondono il diritto di opinione con la prevaricazione.  Il risultato finale è un dibattito politico povero che svuota la democrazia. In questa maniera diventa facile persistere nell’errore senza la possibilità correttiva che il confronto può avere con un impatto devastante sulla qualità delle decisioni prese.

La seconda conseguenza dell’identità e quella di limitare la democrazia aprendo la strada a democrazie illiberali. La democrazia si basa sull’idea di compromesso dove forze politiche, élite con interessi contrastanti e parti sociali diverse decidono regole comuni per gestire la vita sociale. Il compromesso parte dall’accettazione dell’altra parte e dalla volontà comune di confrontarsi in maniera pacifica permettendo a chi vota o a chi prende delle decisioni di farsi un’idea sulla base del confronto democratico. L’identità in politica ha portato a una forma di tribalismo che mal si concilia con la democrazia. Il mondo si divide tra chi condivide la nostra identità e chi è al di fuori della nostra tribù, tra amici e nemici, tra chi è con noi o contro di noi: tertium non datur. In questa maniera la democrazia è ridotta a scontro d’identità dove l’altra parte è un qualcosa da distruggere e non un qualcosa con cui interagire e confrontarsi come abbiamo già accennato. Tutto si gioca sul senso di appartenenza abilmente sfruttato su internet. La rete offre sempre uno spazio comune a chi la pensa nella stessa maniera, dove si punisce chi la pensa in maniera diversa e si premia chi si conforme. Provate ad elogiare il M5S su di un articolo postato da Repubblica su facebook oppure dire qualcosa di positivo su Renzi in un articolo de “Il fatto quotidiano”. Chi non si adegua viene deriso, offeso o al massimo ignorato. Chi si adegua viene premiato con la riconoscenza da parte del resto della tribù. Questo non accade solo in Italia ma pensate a come polarizzato sia il dibattito negli USA attorno a Trump. La polarizzazione del dibattito precedentemente accennato e un fattore che porta ad un ulteriore aumento della conflittualità e del tribalismo. Chi non la pensa in maniera diversa é un nemico da distruggere: un pidiota, grillota o legaiolo. L’aumento della conflittualità obbliga le persone a schierarsi in qualche maniera in quanto posizioni terze, neutrali o aperte al confronto sono comunque considerati ostili perché diverse. Il risultato finale è la fine del centro e della maggioranza silenziosa ovvero quella parte dell’elettorato che era possibile conquistare per spostare gli equilibri elettorali da una parte o dall’altra. La conflittualità è sempre esistita: DC contro PCI, Berlusconiani contro antiberlusconiani ma si poteva comunque contare su quella parte di elettorato silenzioso (magari senza un’opinione precisa) per alleviare lo scontro. La presenza di una larga fetta di elettorato non ideologizzato, o per lo meno dove l’ideologia non era una componente importante della propria identità, obbligava a moderare in qualche maniera il confronto nel tentativo di vincere questa parte di elettorato, con la conseguenza che la battaglia politica fosse aspra ma non lacerante al punto tale da distruggere la democrazia stessa. Fino a quando vi era una parte dell’elettorato che non usava la politica a fini identitari, era sempre possibile per una minoranza diventare maggioranza un giorno. Quello che sta accadendo è che questa parte di elettorato da convincere si restringe sempre di più perché intrappolato in qualche identità o semplicemente non si reca più a votare. Con spostamenti elettorali sempre più difficili da un’identità all’altra, sarà arduo avere cambi di maggioranza all’interno delle nostre democrazia una volta che un’identità ha preso il controllo di una parte sufficiente di elettori. L’unica maniera per la minoranza perdi vincere le elezioni é quella di un cambiamento radicale o di un peggioramento evidente delle condizioni di vita. Se Popper vedeva la democrazia in un’ottica scientifica dove le decisioni politiche vengono prese in base al “trial and error”, la democrazia dei prossimi anni vedrà solo error senza trial. In fatti vedremo cambiamenti solo e soltanto davanti a disastri quando diventa impossibile non guardare la realtá cosi com’è… sempre se chi è al potere non sia in grado di trovare colpevoli con elettori pronti ad accettare il capro espiatorio pur di non cambiare opinione. Gli ultimi anni hanno visto forze politiche punite ogni volta che andavano al potere ma le forze politiche che stanno emergendo in Europa interagiscono in maniera diversa con i propri elettori. Una volta al potere, useranno l’azione governativa non per creare consenso (quello ce l’hanno già se hanno vinto le elezioni) ma per rafforzare l’identità in maniera da non permettere il cambiamento. Orban in Ungheria, il PIS in Polonia e l’attuale governo italiano ne sono una dimostrazione attraverso la loro strategia di comunicazione. L’unica cosa positiva in questo senso è che il governo Conte si regge in piedi su due forze politiche ognuna interessata a rafforzare l’identità dei propri elettori. Prima o poi queste identità arriveranno al conflitto ma la sinistra rischia di rimanere irrilevante con il pericolo sempre maggiore di vedere i propri elettori assorbiti da uno delle due identità alla base del governo Conte. Nel contesto Ungherese o polacco, lo scontro politico è molto polarizzato con il rischio di lacerare le rispettive società . Potendo contare su una base solida di elettori fortemente identificati con i politici al potere, questi governo riescono piano piano a modificare la costituzione in senso illiberale additando gli oppositori di essere nemici del popolo. Una volta diviso e polarizzato il mondo politico in “buoni” e “cattivi”, risulta più facile implementare queste riforme perché il dibattito non si svolge sul merito della riforma ma sull’essere patrioti o meno, amici di Soros o meno, per il popolo o per le élite. Stessa maniera di fare politica da parte di Trump quando trasforma la stampa in nemici del popolo o aizza i propri seguaci contro la celebrità di turno che osano criticarlo. In questa maniera Trump è riuscito a trasformare il pensiero della base di un intero partito su tanti temi: Russia, debito pubblico, commercio etc. In un’epoca priva di contenuti politici, senza un’idea di futuro e in continua trasformazione quello che conta è l’appartenenza ad un qualcosa che possa dare una direzione. L’identità trasforma le posizioni politiche in tribù e queste a loro volta diventano un rifugio per chi cerca stabilità e direzione in mondo privo di punti di riferimento costanti. Una tribù ha bisogno di nemici per definirsi, consolidarsi e tenere motivati i propri aderenti. La piega che le nostre democrazie hanno preso é quella del conflitto perenne, conflitto senza nemmeno una visione cosi differente della società come poteva essere tra comunisti e democristiani durante la guerra fredda. Una conflittualità che serve per mantenere e giustificare le identità a servizio del potere fine a se stesso. Che sviluppo può avere una democrazia dove chi non la pensa come me è considerato un nemico? Come possono sopravvivere le democrazie con queste lacerazioni? Che futuro hanno le nostre decisioni politiche quando il dibattito è praticamente privo di idee? Le divisioni sociali, politiche, religiose, etniche hanno sempre rappresentato una sfida per le democrazie. Quando i partiti si creano attorno a queste divisioni con il compito di rappresentare e difendere una parte sola, la democrazia ha poche possibilità di sopravvivere. Quello che rischiamo sono delle fratture diverse da quelle finora viste. Fratture meno evidenti senza un criterio etnografico o economico per distinguerle ma pur sempre divisioni capaci di lacerare le nostre democrazie. Nel processo di spettacolarizzazione della politica, la scena democratica appare sempre più simile a quella del calcio, uno sport anch’esso trasformato in spettacolo. Come nel calcio, si tifa la propria squadra nel bene e nel male e cambiare tifo non è nell’ordine delle cose.

Un ulteriore rischio in una democrazia dominata dal gioco dell’identità è quello della partitocrazia. Una volta trasformato i propri elettori in tribù contrapposte ad altre tribù politiche, viene meno il controllo democratico all’interno del partito o del movimento. I nemici sono all’esterno e quello che fanno i nostri non ha bisogno di essere criticato. Il rischio non è solo il manicheismo ma il fatto che il conformismo spinge a favorire coloro che la pensano come noi. Favoritismi all’interno della pubblica amministrazione, forzature delle procedure democratiche e spartizioni di incarichi diventano la norma. I politici accusati di corruzione sono amici che sbagliano e tutto viene trascinato in una melassa di conformismo dove chiudere l’occhio e far finta di nulla diventa la norma davanti ai comportamenti della propria parte politica. Per questa ragione, non mi sorprenderei se nei prossimi anni anche il M5S si ritroverà davanti una propria questione morale con un cambiamento radicale della posizione dei propri elettori verso una posizione più benevola (per la verità si è già iniziato a vedere). In questa maniera diventa facile per i politici ed élite al potere mantenere il potere distraendo l’attenzione verso il nemico. Per capire cosa intendo, basta pensare al famoso “Eh il PD allora?” Tutto diventa giustificabile e perdonabile alla luce di quanto gli altri sono cattivi. Basta usare sapientemente la propaganda per dipingere come male assoluto chi è fuori dalla tribù per mantenere il consenso. In questa maniera la democrazia diventa non una selezione votata al miglioramento ma una corsa verso il basso. Ammesso e concesso che il modello preso sia il male assoluto, per essere assolti dai propri elettori basta fare un po’ meglio. Non si cerca di migliorare le cose avendo in mente un progetto virtuoso ma si usa qualcosa di male come punto di riferimento anche per distogliere l’attenzione. Il problema è che con il passare del tempo si tende a dimenticare o a mitizzare l’esempio di male con la conseguenza di fare peggio. E’ quasi un ciclo che si ripete puntualmente. Forza Italia e Lega si proponevano di fare meglio della corrotta classe politica delle prima repubblica e a furia di usare questi partiti come punti di riferimenti sono diventati come loro. Lo stesso è accaduto al PD in chiave antiberlusconiana con militanti pronti a giustificare molte scelte discutibili del partito dietro al mantra “eh Berlusconi allora?”. Se tanto mi dà tanto, soprattutto in un movimento dove l’identità e il senso di appartenenza è alla base di ogni buon militante grillino, il risultato finale sarà un M5S non distante dalle pratiche dei predecessori al governo. La maniera su come sono state gestite tutte le nomine fino a questo momento o il silenzio sull’indagine su Savona confermano già questo senso di marcia o per lo meno un diverso approccio dai primi giorni del movimento riguardo la questione morale.

Come scritto in precedenza, l’uso dell’identità in politica non è qualcosa di nuovo ma è sempre esistito fornendo una ragione a tante persone per interessarsi di politica. La differenza con il passato è l’uso di internet che rafforza questa componente e la scomparsa di progetti per il futuro. Con una politica sempre più impotente con decisioni lasciate all’economia e alla tecnica, la creazione d’identità (M5S), l’uso dell’identità (Lega) diventa l’unica maniera per la creazione e il mantenimento del potere. In questa maniera, senza la possibilità di confronto o di cambiamento, il risultato finale saranno delle democrazie illiberali dove una maggioranza compattata dal comune senso di appartenenza limiterà l’azione politiche di tutti coloro che non condividono la loro maniera di pensare.  Se per Popper, la democrazia è un regime dove le minoranze controllano il lavoro della maggioranza mantenendo la possibilità un giorno di diventare maggioranza, questo non e piú possibile con forze politiche che sfruttano il fattore identitario. L’incubo di Tocqueville di una dittatura della maggioranza é forse un rischio piú concreto oggi di quanto non lo fosse in passato. Paesi come Turchia, Russia e Ungheria ne sono forse un esempio. Paesi democratici sulla carta ma dove chi è al potere usa il consenso per prevenire che le minoranze possano un giorno vincere le elezioni. Consenso creato incolpando chi non si alinea al pensiero governativo come antirussi, globalizzatoti, amici di elite etc. Chi sostiene Putin, Orban o Erdogan vive nella certezza di essere un patriota, nel giusto e dalla parte del popolo inteso come maggioranza. In occidente questo fenomeno é appena iniziato e se non siamo arrivati ai livelli dei tre paesi usati come esempio é perché abbiano una tradizione democratica più lunga con tutti gli anticorpi che ne derivano. Dobbiamo essere attenti pero’ perché l’ambiente grazio alle tecnologie cambia velocemente e gli anticorpi possono risultare inefficaci. Quando ci si accorge che tutti i sistemi di “check and balance”, libertà dell’informazione, ruolo delle associazioni etc non funzionano più è già troppo tardi per salvare una democrazia da una deriva illiberale.

 

M5S e identità: il capolavoro della Casaleggio Associati

M5S

Abbiamo già analizzato il concetto d’identità con riferimento all’uso dell’identità culturale evidenziando i rischi che questo concetto pone alla libertà. Nello stesso articolo avevamo brevemente accennato all’uso del concetto d’identità nella costruzione delle fortune politiche. Quello a cui le forze politiche mirano oggi é creare un’identità che viene indossata dall’elettore. Nel momento questa identità viene indossata sarà difficile per questo elettore aprirsi al confronto e magari cambiare idea. Il voto viene slegato da un progetto e diventa una maniera per costruire la propria identità personale. In un mondo post ideologico e con la politica privata di strumenti per risolvere i problemi del presente, la creazione di un’identità a uso e consumo degli elettori diventa una maniera efficace per creare un consenso duraturo. Una forza politica non e più una portatrice di istanze sociali ma diventa un brand dove i politici sono allo stesso tempo testimonial e marketer di quel brand. Al partito/brand vengono associate caratteristiche che gli elettori desiderano impossessarsi e impadronirsi in maniera indiretta. Il partito o uomo politico diventano un vestito da indossare che dice quello che siamo, quello che non siamo e nutre la nostra autostima. Se il partito crea un’immagine di onestà, di essere il voto delle persone intelligenti e di essere al passo con i tempi, attraverso il voto o il sostegno a quel partito la persona si sente onesta, intelligente e moderna. In questa maniera le politiche che vengono condotte diventano secondarie, perché il voto non ha nulla a che fare con un progetto politico ma aiuta a definirsi.

Per secoli l’identità personale ha svolto un ruolo secondario. L’individuo si definiva solo e soltanto attraverso la comunità di appartenenza e la sua vita aveva senso solo e soltanto all’interno della comunità. Non a caso, nell’antica Grecia, la pena più severa era l’esilio, ovvero l’esclusione di una persona dalla comunità che lo costringeva ad essere nessuno. Nel corso degli ultimi secoli abbiamo assistito alla lenta ma inesorabile emancipazione dell’individuo dalla comunità. Avendo acquistato la propria indipendenza, l’individuo è stato costretto non solo a decidere cosa fare con essa ma anche ad autodefinirsi davanti alla collettività e agli altri individui. Il tutto è stato aggravato dalla crisi delle ideologie, del senso religioso e soprattutto dalla società dei consumi che ha esasperato l’individualità al fine di vendere merci che vengono utilizzate non per soddisfare un bisogno ma per definirsi. La politica non ha fatto altro che adeguarsi sfruttando il bisogno dell’individuo di definirsi per creare il consenso.

L’uso dell’identità in politica è sempre esistito. Il definirsi comunisti faceva parte dell’identità di tante persone. Tantissima gente indossava (e tuttora indossa) t-shirt di Che Guevara, andava a manifestazioni e votava PCI senza sapere o la voglia di sapere cosa il comunismo implichi. Da questo l’incoerenza di tanta gente che oltre a definirsi comunista indossava il cosiddetto Rolex. Quello che contava per queste persone non era tanto l’ideologia ma la possibilità di far parte di un qualcosa che li aiutava a definirsi, essere riconosciuti dagli altri e far parte di qualcosa di più grande. Quello che caratterizza invece le nuove identità politiche è che sono costruite praticamente nel nulla in quanto, oltre a fornire una definizione di se stessi all’individuo, hanno ben poco altro. Il primo tentativo di far politica basando il proprio messaggio politico prevalentemente sull’identità è stato probabilmente Forza Italia. La creatura di Berlusconi infatti è nata negli uffici di Publitalia che ha forgiato il partito come un brand sfruttando il collasso delle ideologie e la crisi della politica italiana post tangentopoli. Berlusconi (come Trump oggi) vendeva l’idea di uomo di successo e chi lo votava, non solo aspirava al successo, ma se ne sentiva già parte. Votare Forza Italia significava essere moderni, rivoluzionari (la rivoluzione liberale), anticomunisti e contro i partiti.  Il Movimento 5 Stelle è una Forza Italia agli steroidi, un voto identitario potenziato dall’uso della rete. Oltre al vuoto ideologico, quello che caratterizza le nuove identità  sono la velocità con cui l’identità si crea e l’uso delle immagini a sostegno dell’identità, due caratteriste potenziate proprio dalla rete ma soffermiamoci prima sul vuoto ideologico.

Il non essere né di destra né di sinistra è il riassunto migliore di questo. Non si tratta semplicemente della mancanza di coordinate filosofiche o economiche ma soprattutto evidenzia l’assenza di un progetto coerente per il futuro. Quello che manca è un filo conduttore e una lista di sogni o progetti disparati non costituiscono una direzione.  Il programma politico e i discorsi del M5S sono basati su pochi temi ma di ampio consenso: temi poco divisivi (riduzione del costo della politica, lotta alla corruzione, rinnovamento della classe politica etc) o equilibrismi per non scontentare nessuno (dai vaccini alla posizione sulla Cirinná). In questa maniera ognuno ci vede quello che vuole nel M5S che è una delle ragioni dell’ampio consenso. La Casaleggio ha creato un brand che può essere adottato da chiunque sia insoddisfatto con la politica o con la situazione attuale. Il M5S è come una scatola vuota che viene riempita a seconda delle circostanze; i discorsi e le proposte cambiano a seconda della convenienza politica. Non ci sono principi ma solo posizione tattiche e i dietrofront sono la norma se capaci di portare consenso. Per esempio: la scorsa legislatura si era aperta con una proposta dal parte del M5S di una legge sullo Ius Soli molto più radicale di quella proposta dal Pd mentre ora vanno al governo con la Lega. Questo permette di adattare la propria comunicazione senza problemi a seconda degli umori del paese. Durante le settimane precedenti alla formazione del governo, Il M5S ha flirtato con Lega e PD senza colpo ferire come se fare un governo con uno o con l’altro fosse la stessa cosa. Questo è stato possibile perché i propri elettori votano M5S non per i contenuti ma per quello che il M5S permette loro di fare: la possibilità di darsi un’identità. L’essere associati al M5S permette di sentirsi nel giusto, onesti, moderni, in lotta conto il male rappresentato dalla vecchia politica, coraggiosi insomma degli eroi moderni che lottano contro il male. Essere Grillini infatti da la sensazione di essere degli eroi che combattono mafie, pidioti, mala politica etc. Il vestito che si indossa, la sensazione che quel vestito dona è più importante del contenuto. Il voto e la militanza virtuale nel M5S hanno una funzione personale piuttosto che politica. È una risposta ai propri bisogni personali piuttosto che una soluzione ai problemi collettivi. La Casaleggio considera il voto come una specie di valuta per comprare qualcosa che solo loro possono dare. Il M5S è una merce con una serie di benefici sull’autostima di tante persone che viene comprata appunto con il voto o con la militanza sui social. Il problema di un partito con contenuti sempre in trasformazione e con propri elettori che danno ai contenuti un’importanza secondaria rispetto all’appartenenza è che non si sa mai dove si va a finire. Come spiegato in precedenza, il rischio del M5S è che possa diventare il cavallo di Troia dell’estrema destra in italia. I discorsi del M5S si sono radicalizzati nelle ultime settimane con l’alleanza con la lega. Questa radicalizzazione continuerà man mano che Salvini alzerà il tono delle sue dichiarazioni. Il M5S non prendendo una netta distanza per non far cadere il governo sdoganerà e renderà accettabili discorsi e un modo di fare politica vicino alla destra. Persone poco ideologizzate riterranno questo modo di pensare “normale” e “accettabile” perché normale e accettabile ai loro occhi è il M5S in quanto il movimento non viene giudicato e votato per i contenuti ma viene valutato per la sua capacità di rispondere ai bisogni personali dell’elettore. Un esempio lampante è come sono cambiati i loro discorsi sull’immigrazione. Il cambiamento non è rilevante solo da un punto di vista politico ma soprattutto da un punto di vista emotivo. Il livello di odio nei commenti non sono ancora ai livelli della Lega o dell’estrema destra ma vanno in quella direzione. I commenti alle pagine dei politici M5S su questo tema sono cambiati radicalmente nel giro di pochi mesi. Quest’odio è ora rivolto a immigrati ma può essere trasferito facilmente verso altri obbiettivi. Uno di questi obbiettivi può essere la stessa democrazia. Per anni il M5S ha attaccato istituzioni e politici senza fare una netta differenza. Non ce l’auguriamo ma cosa accadrebbe se il M5S tradisse le promesse fatte? Verso cosa verrà rivolta la rabbia? Cosa rimane come alternativa continuando la logica del non averli mai provati mai prima? Verso cosa e contro ci si rivolgerà la retorica del M5S per giustificare i propri insuccessi?

Il secondo elemento che contraddistingue le nuove identità politiche è la velocità con cui si creano senza l’aiuto di un evento catalizzante come poteva essere la seconda guerra mondiale e la resistenza per il PCI. La velocità dipende da tanti fattori: il vuoto ideologico, la necessità di trovare un appiglio in tempi dove il cambiamento è vorticoso e costante, il bisogno di comprendere la realtà sempre più complessa, la crisi dei partiti etc. Nonostante la presenza di tutti questo fattori, la velocita dipende soprattutto dall’uso di internet e dei social che sono utilizzati per creare velocemente e rafforzare l’identità ogni giorno. Qualcuno può obbiettare che la rete viene usata solo per accedere alle informazioni e se il M5S ha avuto successo è grazie alla sua abilità nel parlare direttamente agli elettori bypassando i mass media controllati dai poteri tradizionali e offrire la verità dei fatti. Insomma, il mezzo (internet) non ha nessun impatto sulle persone che sono dotate di una loro razionalità. In realtà il mezzo ci trasforma e non dipende solo da come lo usiamo come già evidenziato da Gunther Anders parlando della televisione e della radio negli anni 50. Innanzitutto la rete trasforma la nostra percezione del mondo. Quello che riceviamo attraverso la rete non è la realtà ma una versione della realtà preconfezionata da qualcuno. Il preconfezionamento dipende dalle motivazioni di quel qualcuno. Se questo era vero con la televisione e la radio che raggiungevano le masse, questo lo è ancora di più con la rete che permette di parlare al singolo. Prima di tutto la rete permette di raggiungere l’individuo con un messaggio adattato per quella persona (Cambridge Analitica). In basi ai propri gusti personali (i likes sulle pagine di facebook) è possibile creare dei profili psicologici e adattare il messaggio destinato a ciascun profilo. Secondo i social permettono la creazione di bolle che tengono l’individuo immune all’influenza di opinioni diverse. Quello che la Casaleggio ha creato è una galassia di siti e pagine facebook che vanno oltre il blog di Beppe Grillo o la pagina facebook del singolo parlamentare: La cosa, La fucina, Tse Tse, W il M5S etc. A questi vanno aggiunti le pagine create dai militanti: Luigi di Maio fan club, le pagina dei club locali etc. Tutte queste pagine diventano non soltanto il veicolo con cui diffondere un messaggio (non importa se la notizia sia vera o falsa) ma soprattutto diventano una cassa di risonanza di sentimenti. Se il PD si è trovato ad essere odiato da buona parte della rete non dipende solo dagli errori (orrori) fatti ma anche perché vittima di questa marea di pagine. Il singolo elettore di M5S non si riduce a mettere un like solo su di una pagina ma ritiene quasi un obbligo mettere un like a tutte queste pagine. Anche se questa persona facesse uno sforzo mettendo per esempio un like sulla pagina di Renzi (spesso solo per insultare), il messaggio di quest’ultimo si perderebbe nella bacheca imperversata da pagine controllate o ispirate dalla Casaleggio Associati. Il fatto che un messaggio venga ripetuto all’infinito da pagine diverse, rafforzato da commenti tutti sulla stessa linea rende il messaggio non solo vero ma l’unico che merita di essere ascoltato. In queste condizioni sarà difficile rompere quella bolla e instillare il dubbio.

Uno degli elementi che rende internet diverso dagli altri media è la sua interattività. Chi usa internet non è soltanto un soggetto passivo ma partecipa alla formazione dei contenuti sulla rete tramite like, commenti e condivisioni. Questa attività è praticamente giornaliera se non ad ogni ora. Questa interattività è abilmente sfruttata per tenere le persone sempre in contatto con le proprie idee e per legare emotivamente l’elettore a se. Se nel passato il militante comunista entrava in contatto e rafforzava la propria identità in momenti ben definiti (in sezione, alle manifestazioni o leggendo l’Unita), oggi ogni momento è buono perché in ogni momento il militante può essere in rete. Questo “lavaggio del cervello” è fatto senza rendersene conto in maniera molto insidiosa ma efficace allo stesso tempo. Abbiamo già parlato abbondantemente della farsa del voto sul contratto. Farsa era anche l’elezione di Di Maio a candidato premier. Il risultato del voto era scontato in mancanza di un vero dibattito e con la comunicazione diretta in maniera da ottenere il risultato voluto. Senza un vero confronto, l’obbiettivo di queste forme di partecipazione on line non è rendere democratica l’attività del M5S ma quello di radicare l’identità in breve tempo. I militanti si sentono partecipi e dunque parte del movimento. La partecipazione attraverso il voto e il fatto di rendere pubblico l’aver partecipato aumenta l’investimento emotivo. “Tutti i miei amici e conoscenti sanno delle mie idee perché le difendo non solo quando parlo con loro ma soprattutto in rete. Agli occhi di chi mi conosce sono diventato un tutt’uno con le mie idee e con il M5S.” Tornare indietro diventa impossibile perché significherebbe rinnegare se stessi e buttare a mare le energie e il tempo speso per il movimento. Facebook è la mia memoria di quello che ho sempre difeso, cancellare è impossibile e fare pubblica ammenda è doloroso. Per evitare quello che in psicologia e in marketing viene chiamato “cognitive dissonance”, reinterpreto la realtà e non ho problemi ad accettare qualsiasi versione apologetica che mi venga fornita. Un esempio? Come mai tanti nel M5S con una visione progressista sono ancora li nonostante il loro movimento sia diventato la spalla di Salvini? Questa è un altro elemento che potrebbe rafforzare un vento di estrema destra trascinando con sé anche persone in buona fede che guarderanno solo e soltanto all’attività del M5S che sposa la propria visione (reddito di cittadinanza o misure che tendono a ridurre il precariato) ignorando e sminuendo il resto (porti chiusi, attacchi alla stampa, flat tax).

Per quanto riguarda il rapporto tra immagine, internet e identità, partiremo dall’analisi di Sartori sulla televisione fatta in “Homo Videns”. Come fatto da Anders, Sartori sottolinea come la televisione non sia soltanto un mezzo di comunicazione ma ha al suo interno una capacità “antropogenetica” ovvero il potere di creare un nuovo ànthropos, un nuovo tipo di essere umano. Per Sartori l’homo sapiens deve il suo sapere e tutto il suo progredire alla sua capacità di astrazione. Quasi tutto il nostro vocabolario conoscitivo e teoretico consiste infatti in parole astratte che non hanno nessun preciso corrispettivo in cose visibili, non riconducibile né traducibile in immagini. Questo é ancora più importante quando si parla di politica che ha a che fare con concetti come giustizia, legittimità, legalità, libertà, eguaglianza, diritto etc che non sono riconducibili a entità visibili. Sartori precisa infatti che “tutta la nostra capacità di gestire la realtà politica, sociale ed economica nella quale viviamo, e ancor più di sottomettere la natura all’uomo, si impernia esclusivamente su un pensare per concetti che sono – per l’occhio nudo – entità invisibili e inesistenti.” La televisione produce immagini e cancella i concetti; ma così non ha fatto altro che atrofizzare la nostra capacità astraente e con essa tutta la nostra capacità di capire. La cultura dell’immagine non solo ci ha fatto perdere la capacità di astrazione ma ha rotto il delicato equilibrio tra passioni e razionalità. Il ragionamento di Sartori sulla televisione ha ancora la sua importanza anche se applicata a internet e ai social in particolare. Come utenti siamo stati prima educati all’uso della televisione e tendiamo ad usare internet nella stessa maniera con cui usiamo il televisore. Certo su internet troviamo articoli, editoriali e lunghe discussioni astratte ma prevalentemente, soprattutto attraverso i social, sono le immagini che dettano e compongono la gran parte dei contenuti. I social sono piene di meme, foto con frasi ad effetto, gif che si dilagano velocemente anche lontano dai sociali grazie a strumenti come whatsapp. Siamo perennemente in contatto con immagini con un significato politico non solo privi di astrazione ma di qualsiasi contenuto che permetta una discussione. Situazioni simili ma con contesti diversi vengono perennemente confrontate con il solo obbiettivo di indignare, divertire o sminuire gli opponenti politici. In altre parole, contribuiscono a rompere l’equilibrio tra passioni e razionalità a favore dei primi. I meme si diffondono rapidamente grazie proprio al loro impatto emotivo e alla loro capacità di rafforzare l’identità. Il meme rafforza la nostra autostima quando denigra un avversario o conferma il nostro punto di vista. Il senso ironico della maggioranza di questi prodotti mediatici copre di ridicolo gli avversari facendo sentire superiori i portatori di un’identità diversa da quella presa per scherno (i pidioti). La capacità di fare appello direttamente alle nostre emozioni permette la loro rapida diffusione attraverso la condivisione. L’atto di condividere un meme contribuisce all’investimento emotivo a cui abbiamo fatto cenno prima. La cosa principale è che queste immagini non portano nessuna discussione e non permettono un dibattito. Condivido il meme perché è in linea con la mia identità e facendo ciò rafforzo proprio la mia identità. In questa maniera il dibattito su internet diventa un dialogo tra sordi che si lanciano scherni, un tentativo di seppellire l’altro non la forza dei ragionamenti ma a furia di meme e parole d’ordine.

Poco abituati a leggere e a riflettere, il meme diventa l’unico messaggio politico efficace per creare una pubblica opinione fatta di persone poco interessate ad informarsi ma desiderose soltanto di appagare il loro desidero di autodefinirsi ed essere riconosciute da parte del mondo che li circonda. Ancor più che per la televisione come fatto notare da Sartori, i social premiano e promuovono la stravaganza, l’assurdità e l’insensatezza. Il risultato finale e un “pensieromelassa” creato da strambi, eccitati, esagerati e ballisti. Abituati infatti a pensare attraverso le immagini evitiamo le riflessioni considerate lunghe e noiose. Le persone abituate alla riflessione sono messe ai margini per dare spazio a un pensiero elementare fatto per immagini. La maniera con cui usiamo le immagini su internet influenza tutto il resto. Infatti le persone leggono solo il titolo che a loro volta sono fatti in maniera tale da generare reazioni emotive. I leader politici non scrivono più ma fanno video e se proprio devono scrivere qualcosa lo fanno nella maniera più breve possibile. Il tutto corredato da condividi se sei indignato, metti un like se sei d’accordo e così via.

Per evitare fraintendimenti, qui non vogliamo assolutamente affermare che gli elettori del M5S siano stupidi e gli altri intelligenti (modo di ragionare proprio di una politica basata sull’identità). Anche gli altri partiti si stanno adeguando (forse troppo tardi) a questo modo di fare politica e la risposta ai meme del M5S non sono ragionamenti ma altri meme o pagine sui social con il compito di ironizzare il movimento grillino. Il consenso di un partito ha diverse origini ma riteniamo che la creazione di “un’identità grillina” attraverso la rete sia una delle chiavi per comprendere il successo del M5S. Chiunque voglia fare opposizione o voglia comprendere le ragioni che portano a votare il M5S non può basare la propria analisi solo e soltanto su argomenti razionali o evidenziando il malcontento degli italiani. Il consenso del M5S è anche il frutto della libera scelta delle persone, è anche la conseguenza di un sistema politico che perduto la propria credibilità ma è anche il frutto di una sapiente operazione condotta sui social. Per capire questa operazione non ci può solo limitare agli aspetti tecnici su come i social sono stati usati dalla Casaleggio ma si deve partire dal fatto che tutto lo sforzo fatto ha avuto come obbiettivo la creazione di un’identità politica. Cosi come tutte le iniziative marketing partono dalla definizione delle caratteristiche di un brand, cosi le iniziative sulla rete della Casaleggio sono create per rafforzare i messaggi secondari del M5S che vengono adottati da chi lo vota o semplicemente da chi si rende volontario nella rete per diffondere i contenuti. Questi messaggi secondari compongono appunto l’identità grillina che costituisce il patrimonio maggiore della forza politica di Di Maio. In parole semplici e per concludere, il consenso al M5S è come il tifo verso una squadra di calcio: immune alla critica e non destinata a cambiare perché cambiare comporta una rivoluzione profonda che metterebbe in crisi la maniera in cui noi veniamo percepiti non solo dagli altri ma anche da noi stessi.

 

 

 

Come i social hanno radicalizzato il voto

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Negli articoli precedenti ci siamo soffermati sui cambiamenti culturali che stanno trasformando la nostra società mettendo la sinistra, i suoi valori e ideali in un angolo. Il ripiegamento su sé stessi non solo ha solo relegato ai margini una buona parte della politica ma sta rendendo le persone più arrabbiate, insensibili o al massimo indifferenti. L’avvento di Internet e dei social ha accelerato questa trasformazione. Ironia della sorte, il mezzo che ci avrebbe permesso di unire il mondo e renderlo più piccolo sta allontanando le persone rendendoli mondi a sé stanti incuranti degli altri. Basta leggere i commenti sulle notizie che riguardano i migranti: tra gente che si augura l’affondamento delle navi, altri che vorrebbero sparargli o semplicemente manifestano la propria indifferenza si ha la voglia di chiudere tutto e domandarsi in che mondo viviamo. Ho sempre guardato quelle maestose folle oceaniche cariche di odio nei documentari nazisti come qualcosa di lontano, un monito di qualcosa che non deve più tornare. Invece quelle folle sembrano tornate, senza che la gente che le compongono ne sia consapevole. Non sono riunite in una piazza ma sono sulla rete, sui social a spalleggiarsi e a darsi forza. Cambia il luogo dove si assembrano, dal reale al virtuale, ma la carica di odio è la stessa come sono le stesse le dinamiche e le conseguenze sulla politica.  Certamente i social non sono i soli responsabili di questo incattivimento. Il liberismo ha aumentato la competizione sociale senza fornire paracaduti a chi non riesce a raggiungere quei modelli imposti dal marketing. La crisi economica e l’impotenza della politica nel risolvere i problemi hanno reso le persone disilluse riguardo una soluzione costringendoli a concentrarsi su sé stessi. La crisi delle ideologie e delle religioni hanno ridotto l’importanza del futuro e del desiderio di costruire un qualcosa di comune che salvi tutti dalla miseria del quotidiano obbligando le persone a macerare nella frustrazione del proprio presente. Quello che hanno fatto i social è fornire una piattaforma e un lievito che hanno permesso a queste dinamiche di poter moltiplicare la loro forza distruttrice.  Come hanno potuto i social contribuire all’incattivimento delle persone? Soprattutto, da un punto di vista politico, come hanno potuto radicalizzare l’elettorato?

Certamente Facebook ha aumentato l’invidia sociale. Una volta l’invidia sociale era solo verso i ricchi, i calciatori e le star che apparivano in televisione. Oggi siamo tutti delle star e proiettiamo la nostra immagine vera o presunta sui social. Le foto delle nostre vacanze, dei nostri party e dei nostri hobby creano una competizione per decidere chi sia più attraente socialmente, il tutto misurato in like e commenti. Se prima l’invidia si attenuava facendo ritorno alla vita di tutti i giorni, attraverso il contatto con persone che condividevano le nostre stesse preoccupazioni e problemi, oggi questo ritorno non è più possibile. I colleghi, gli amici e i vicini che prima fungevano da rifugio, oggi appaiono come “competitori” a cui bisogna mostrare di essere migliori. Le persone che ci sono vicine diventano oggetto d’invidia tanto e più dei divi. Il problema è che competizione e invidia sono creati sull’apparenza perché la realtà e i problemi di tutti i giorni non sono messi in mostra. Sulla rete tutti sembrano essere persone di successo messi a confronto con noi stessi in quanto ci è impossibile nascondere i nostri limiti. Siamo obbligati a mettere a confronto la nostra realtà fatta di luci e ombre con la realtà filtrata degli altri dove solo le luci vengono messe in scena. Da questa competizione impari, ne possiamo solo uscire sconfitti. Questo ci obbliga a trovare degli sfoghi, dei capri espiatori e qualcuno a cui paragonarci per sentirci meglio. La politica non fa altro che fornire questo: immigrati, rom, vagabondi, gente che vive a spese dello stato sociale etc.

I social aiutano l’indifferenza e la diminuzione di empatia nei confronti degli altri. Quotidianamente i social ci pongono situazione diverse con risposte emotive diverse. Passiamo nel giro di pochi secondi da immagini forti e di dolore a meme divertenti, da foto di gattini a persone in difficoltà sui gommoni. In questo passaggio vorticoso anestetizziamo la nostra reazione mettendo tutto sullo stesso piano. Quello che ci passa sullo nostro schermo diventa un mondo a parte che non ha nulla a che fare con il nostro. Negli anni 50, Gunther Anders parlando della televisione nel suo  ”L’uomo antiquato”, parla di un mondo che diventa fantasma.   Un mondo dove la realtà viene a noi e ci trasforma in consumatori di esso e non partecipi. Il fatto di non essere partecipi ci rende apatici perché è un qualcosa che non ci riguarda. Le emozioni che viviamo non ci spingono ad un’azione ma vengono consumate come forma d’intrattenimento. Il mondo che passa sui nostri schermi diventa e si confonde con una delle tante fiction che guardiamo. Ironia della sorte, Internet avrebbe dovuto aumentare l’interattività trasformando i propri fruitori da puri e semplici ricevitori in emittenti. Tramite la rete, il mondo non solo sarebbe venuto da noi, ma noi saremmo andati da lui. Quello che mi sembra di notare e che tutto questo non è avvenuto. Certo internet mantiene tutte le sue potenzialità di interazione, ma educati all’uso della televisione, molte di queste potenzialità non vengono sfruttate. Per mancanza di idee, di cultura o spirito critico, il mondo continua a venire da noi. Anzi, permettiamo solo a quella parte di mondo che si allinea con il nostro pensiero di venire da noi: appena qualcosa ci disturba, questa viene semplicemente filtrata! Alternativamente, si cerca nella marea di informazioni fornite dalla rete un link che dimostri il contrario o ci permetta di relativizzare l’informazione contrastante, attenuando in questa maniera il divario tra il nostro pensiero e la verità. Sempre Gunther Anders parla di “familiarizzazione del mondo” nel senso che “persone, cose, avvenimenti e situazioni estranei ci vengono presentati come se ci fossero familiari, ossia in una condizione familiarizzata” con la conseguenza neutralizzazione. La sofferenza altrui viene familiarizzata e comparata alla propria e tutto diventa secondario davanti ai propri problemi personali: “Tutti a pensare ai migranti e chi pensa a me?”, come se il pericolo di perdere la vita in mare, essere torturati nei lager libici, il fuggire da regimi repressivi sia paragonabile alle difficoltà medie di una persona che vive in occidente. Questo non significa che l’uomo occidentale non sia autorizzato a lamentarsi o che le sue difficoltà non sono reali o poco importanti. Significa semplicemente che non possiamo familiarizzare e mettere tutto sullo stesso livello, non possiamo usare la nostra esperienza personale come unico filtro per giudicare la realtà perché si finisce nel mettere tutto sullo stesso piano, senza nessuna distinzione, rendendoci apatici alla sofferenza degli altri. Non possiamo continuare a neutralizzare il mondo esteriore solo perché non ci permette di essere vittima e di giustificare il nostro malcontento.

Un altro elemento che contribuisce alla radicalizzazione di chi usa i social è il fatto che solo informazioni ad alto contenuto emotivo diventano virali. La condivisione di un qualcosa è soprattutto un atto impulsivo, una decisione presa in una frazione di secondo mossa dall’urgenza di appagare l’impeto emotivo che un titolo o una foto crea. Questa è la ragione per cui tendiamo a condividere articoli sulla base del titolo senza leggerli; ragione che impone titoli drammatici a notizie normali per permettere la rapida diffusione e condivisione a fini pubblicitari. Lunghi articoli esplicativi non vengono condivisi così velocemente come meme, titoli drammatici o piccoli commenti miranti a far arrabbiare (anche divertire). Questa è una delle ragioni per cui le “Fake News” si diffondono più velocemente della verità, perché esse sono costruite non per informare ma per allarmare e diventare virali in un breve lasso di tempo. La poca propensione alla riflessione e alla lettura insieme alla tendenza a condividere solo quello che ci colpisce emotivamente fa sì che la rete diventi un contenitore di parole d’ordine e rabbia; una tragica cassa di risonanza di tutto ciò che sia distruttivo. Il male, e in genere tutto quello che non va bene, fa sempre più rumore di ciò che sia positivo. Un proverbio africano ci ricorda che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Fortune elettorali sono ormai costruite sfruttando questo. Si dà in pasto alla rete informazioni non necessariamente completamente false, ma comunque con un tono e un punto di vista che genera indignazione e rabbia. In questo contesto, le informazioni politiche che passano sulla rete si soffermano solo e soltanto sul negativo. La rete diventa un posto non per raccogliere informazioni e discutere ma per mostrare la propria indignazione. I commenti si fanno brevi, il sarcasmo diventa norma e la propria indignazione è la sola verità a cui tutti si devono adeguare. Invece di uno scambio di opinioni si ha un confronto a chi sia più indignato attraverso un rinfacciarsi continuo di scandali. In poche parole il famoso “Eh i marò?” oppure “E allora il PD? (da cambiare con Berlusconi a seconda delle circostanze) non mirano alla ricerca comune della verità ma a silenziare non chi dissente ma soprattutto la propria coscienza e il proprio spirito critico. Se riflettiamo sul fatto che una buona parte degli elettori si informa solo e soltanto su internet, capiamo bene che la realtà che una persona si costruisce riflette quello della rete: una realtà rabbiosa e indignata che si sposa benissimo con la necessità di sentirsi vittime per giustificare sé stessi (altro uso privato della politica).

Se nel passato recente mostrare indifferenza o disprezzo nei confronti del dolore altrui portava ad essere messi da parte obbligando a stare attenti a quello che si diceva, con i social tutto diventa possibile. In rete è sempre possibile trovare persone che la pensano come te non importa quello che pensi. Questo dà forza e non fa sentire soli. In questa maniera si diventa parte di un branco che permette la deresponsabilizzazione. Una volta deresponsabilizzati ci si sente autorizzati a dire quello che si vuole anche nel nome della libertà di pensiero. Una distorta visione della democrazia autorizza a dire che un’opinione vale un’altra, non importa quanto questa sia ancorata alla verità e poco importa che la democrazia non si basi solo e soltanto sulla libertà di pensiero ma anche sul rispetto degli individui. Messo da parte il “politicaly correct” e con politici che sguazzano nell’odio con il loro linguaggio per accaparrare consenso, la rete diventa la cassa di risonanza di un odio crescente. Chi cerca di ragionare viene silenziato con offese che non ammettono replica. La ragione viene messa da parte dal branco che viene aizzato e attirato dalla violenza verbale. Chi sfoga il proprio malessere trova subito sintonia e appoggio. In questa maniera, le maggioranze silenziose sono messe da parte e diventano sempre più piccole  silenziate da minoranze rumorose sempre più grandi mosse da un odio crescente e sempre più condiviso. Quello che conta non è la ragione ma quello che si sente, gli altri sono tenuti ad accettarlo o a rigettarlo. Chi accetta fa parte della propria tribù, chi dissente diventa automaticamente un nemico da distruggere. Tornando alle folle naziste, la rete e i social diventano in questa le nuove piazze dove ritrovarsi e farsi forza a vicenda. Far parte di questa piazza spesso non è una libera scelta ma quasi un obbligo per trovare accettazione da parte dei propri amici, per non sentirsi soli o semplicemente per spirito di emulazione confondendo il consenso che un’opinione ha con virtù e verità.

Con questi effetti, i social non stanno solo emarginando la sinistra ma contribuiscono a un’egemonia culturale che esalta il singolo, i suoi problemi e la sua rabbia a scapito di una visione comune ed egalitaria. L’indifferenza verso la sofferenza, l’odio e la rabbia generata e amplificata dai social mettono a repentaglio la stessa democrazia perché radicalizzano l’elettorato. Nel passato in presenza di minoranze rumorose che scendevano in strada vi era una maggioranza silenziosa che faceva sentire il proprio peso al momento del voto e che controbilanciava le spinte estremiste di queste minoranze. Una maggioranza silenziosa poco propensa ai cambiamenti radicali che preferiva la continuità agli strappi. Questa maggioranza silenziosa coincideva con il ceto medio conservatore poco ideologizzato. In altre parole, questa maggioranza silenziosa costituiva il cosiddetto centro. Le forze politiche per vincere le elezioni erano costrette a tagliare o a silenziare i propri estremi per non spaventare i moderati. Questo portava le forze politiche ad assomigliarsi sempre di più permettendo comunque il mantenimento della democrazia che ha sempre sofferto la presenza al proprio interno di forze radicali. Nel giro di pochi anni, l’elettorato si è però radicalizzato (non solo per colpa di internet) e i partiti fotocopia non sono più in grado di attirare il voto a scapito dei Salvini e dei Trump di turno che riescono ad apparire diversi. Questa radicalizzazione è prima di tutto sentimentale e poi politica. I politici che hanno capito la rabbia e l’hanno aizzata hanno vinto le elezioni. Questi politici attirano voti al di là degli schieramenti perché non attirano menti ma anime arrabbiate. La democrazia negli anni 20 del secolo scorso si è arresa al fascismo perché non ha più trovato il sostegno delle classi medie. Il fascismo è stata la rivoluzione delle classi medie estremizzate dalla crisi, dalla minaccia del proletariato organizzato e dall’odio verso le classi dei ricchi industriali. Per certi versi stiamo vivendo un’altra rivoluzione/radicalizzazione delle classi medie che probabilmente non porterà ad un’altra marcia su Roma ma a democrazie illiberali dove la democrazia esiste solo formalmente. In Italia per esempio, la fine di questo centro moderato è testimoniato dalla sconfitta del PD, dalla scomparsa della pletora dei partiti centristi che si rifacevano alla democrazia cristiana e anche dal ridimensionamento di Forza Italia che nel bene e nel male raccoglieva il voto del ceto medio spina dorsale della maggioranza silenziosa. Parafrasando De André, se la maggioranza silenziosa nel passato votava affinché:

“… tutto sia come prima 
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare”

Ora sono loro che bussano alle porte per gridare più forte. Non cercano giustizia ma sfogo alla propria rabbia. Cercano ancora sicurezza per sé stessi ma disciplina per gli altri. La paura di cambiare esiste ancora ma è la paura di diventare ultimi come negli anni 20, la paura di perdere il gioco dell’invidia sui social, la paura di cambiare e trovarsi in un posto dove si è irrilevanti.

Questo non significa che dobbiamo chiudere i social. La tecnologia avanza a passi da giganti ma l’uomo è limitato, obsoleto direbbe appunto Gunther Anders. L’uomo ha difficoltà nel cambiare e nel mettersi al passo con i cambiamenti tecnologici. Quello che abbiamo bisogno è un’educazione sentimentale e critica che ci permetta di usufruire dei social senza trasformarli in armi di distruzioni delle nostre vite e dei nostri sistemi sociali. Ci vorrà tempo e tanto lavoro per colmare questo divario tra quello che siamo ora e quella condizione che ci permetta di usare la tecnologia in maniera costruttiva. Probabilmente quanto avremmo colmato lo spazio, la tecnologia avrà fatto un altro balzo in avanti obbligandoci a colmare un altro vuoto. Comunque è necessario uno sforzo per colmare quel vuoto a partire dalle scuole e dall’educazione che viene impartita che non può più ignorare il mondo virtuale. I politici, gli intellettuali e chiunque abbia a cuore il futuro della nostra democrazia dovrebbe fare uno sforzo a non lasciarsi andare alla propria rabbia o usare quella rabbia per creare dei branchi pronti a seguirli senza discussione. Se non chiudiamo quel vuoto, la democrazia rischia di scomparire al suo interno. Questo non riguarda solo i social e come vengono vissuti o usati (Cambridge Analytics). Tutti i cambiamenti tecnologici avvengono in maniera così rapida da creare immediatamente un vuoto tra uomo e tecnologia senza donarci la possibilità di valutare completamente gli effetti. L’unica speranza è che prevalga il buon senso ma senza educazione e ragione tutto diventa difficile. Ragione ed educazione (in tutti i suoi significati) sono proprio quello che alla rete sembra mancare al momento.

 

La veritá utile e internet

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Nell’articolo precedente ci siamo soffermati sulla “veritá utile” intesa come attitudine che fa ritenere un qualcosa vero non perché rispetta il principio di non contraddizione ma perché serve alla nostra sfera emotiva facendoci star meglio. Questo modo di comportarsi é sempre esistito. Basta pensare ai nostalgici di un regime o di un uomo politico caduto in disgrazia che continuano a mantenere ferma la propria fedeltá interpretando e reinterpretando il passato e la realtá per continuare a giustificare la loro posizione. Questa maniera fallace di valutare la realtá, che conduce a  perdere qualsiasi forma di oggettivitá, prende in psicologia il nome di “cognitive bias”. Per “veritá utile” intendiamo una forma di “cognitive biais” che si sviluppa soprattutto in rete facendo cambiare, non solo la percezione del mondo circostante, ma anche come si affronta la realtá (dal voto al rifiuto dei vaccini etc…). Come detto in precedenza la veritá utile ci far star meglio ma le ragioni del suo successo in rete sono molteplici per la natura stessa di internet.

Sempre nel precedente articolo, abbiamo accennato a come la rete tenda a rafforzare l’investimento emotivo. Se passiamo anni a condividere articoli su scie chimiche, diventerá piú difficile ammettere di essersi sbagliati. Ogni volta che condividiamo un articolo, discutiamo in rete o mettiamo un like aumentiamo questo investimento emotivo in una teoria o tesi. Questo avviene quotidianamente perché quotidianamente abbiamo accesso alla rete e alle informazioni che i social presentano sul nostro schermo. A furia di farlo ne veniamo velocemente risucchiati diventando un tutt’uno con questa idea perché Facebook o Google ci presentano le informazioni in base alle nostre preferenze. La raccolta dati da parte del giganti della rete serve per darci un’esperienza personalizzata di internet, mostrandoci contenuti a cui abbiamo giá mostrato interessse in precedenza attraverso la nostra navigazione. In questa maniera, ogni utente si trova in una specie di bolla telematica che rafforza le proprie convinzioni e la tenacia a difendere le proprie posizioni .Quello in cui crediamo compone la nostra identitá e la loro importanza nella composizione del nostro essere dipende dal tempo e dall’energia che dedichiamo ad esso. Tornare indietro diventa difficile perché non si tratta semplicemente di cambiare idea per abbracciare una veritá che meglio si sposa con la reltá. Cambiare idea significa non solo rendere inutile l’investimento emotivo fatto ma anche mettere in discussione la nostra identitá . Il paradosso é che piú assurda é la tesi che sosteniamo, piú difficile sará ammettere di essersi sbagliati. A questo va aggiunto lo scorno da pagare con le persone che conosciamo.  I nostri amici ci definiscono e si relazionano con noi anche in base a quello in cui crediamo e di cui amiamo parlare. Ammettere di essersi sbagliati ha un effetto sulla nostra autostima perché questa ammissione significa dare ragione ad altre persone facendoci sentire inferiori o per lo meno piú stupidi. La “veritá utile” viene in soccorso, riducendo il pericolo e la necessitá di fare quel costoso passo indietro aiutandoci a selezionare solo le informazioni che ci fanno comodo.

La rete é una miniera infinita di informazioni e non importa se siano accurate, complete o affidabili. L’esplosione di dati e la facilitá di accesso rende facilissima la possibilitá di crearsi una veritá a proprio uso e consumo. Internet é come se fosse composta da infiniti pezzi di un puzzle. A differenza di un puzzle normale dove i pezzi possono essere assocciati ad un numero finito di altri pezzi, nella rete possiamo associare questi pezzi a nostro piacimento. Per far ció, basta trovare una coincidenza, una similaritá o una qualsiasi relazione per mettere due pezzi insieme anche se non sono minimamente compatibili. In questa maniera si costruisce una realtá che ha bisogno solo di un nesso logico per stare in piedi ma il fatto che un qualcosa abbia un senso logico non significa che sia vero. Sarebbe come se un ingegnere disegnasse un ponte su un foglio di carta. Nel disegnare questo ponte, il nostro ingegnere si assicura solamente che il ponte colleghi due rive di un fiume senza prendere in considerazioni iul peso, i venti, i materiali etc. Il ponte disegnato avrebbe anche un nesso logico sulla carta ma uno volta costruito non resterebbe in piedi un secondo. La “veritá utile” ci permette di dare un senso logico alle cose  dandoci una miniera di informazioni che ci permettono di non mettere le nostre idee o teorie alla prova dei fatti. Una delle ragioni del complottismo é proprio quella di mettere insieme dei ragionamenti che permettano di diffendere il senso logico di una costruzione mentale tenendola lontana dalla prova dei fatti. Per questo motivo l’accusare poteri oscuri o macchinazioni segrete serve proprio per sminuire e rendere irrilevante tutto ció che cozza con quello in cui crediamo.

Sulla rete é facilissimo trovare informazioni o articoli che aiutano questi processi grazie all’abbondanza e alla facilitá di accesso a una miriade infinita di informazioni. Queste informazioni non devono necessariamente essere fasulle ma basta intepretarle o inserirle in contesti diversi per ottenere e dimostrare quello che si vuole. La rete é come una scatola di cioccolatini che contiene non solo dei piaceri per il palato ma anche dei sassolini. Se noi prendessimo solo i cioccolatini ignorando le pietre, ci convinceremmo effettivamente che la scatola contenga solo dolci. La stessa cosa avviene nella rete dove prendiamo in considerazioni solo le informazioni che raffiorzano le nostra idee, ignorando il resto convincendoci della validitá del nostro pensiero. Un solo sassolino o informazione contraria dovrebbe obbligarci a riformulare il nostro pensiero ma in rete non sará difficile trovare un articolo o l’opinione di qualcuno che confuti l’esistenza stessa del sassolino. Alla fine molte delle discussioni sulla rete si trasformano in una discussione tra campane sorde dove si finisce a lanciarsi link vicendevolmente.

In passato prima dell’avvento di internet, se qualcuno affermava delle castronerie veniva in qualche modo isolato o deriso. Questa persona in qualche maniera era costretta a cambiare idea o a dimostrare la soliditá delle sue tesi altrimenti si condannava all’isolamento. Umberto Eco riassunse in maniera efficace questo meccanismo:

«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel.».

La rete permette di trovare facilmente persone che condividono il proprio pensiero e quindi di rafforzare ancora di piú le proprie convinzioni. La rete dá l’impressione di fare numero, di far parte di un gruppo e di non essere soli. Non importa quanto idiota sia quello in cui crediamo, sui social troveremo sempre qualcuno pronto a capirci e a darci ragione.

La facilitá di accesso all’informazione dá l’illusione di poter essere esperti su qualsiasi argomento. Questa illusione parte da un errore di fondo. Si ritiene un esperto una persona che ha una miniera di dati. In reltá l’esperienza non dipende soltanto da quanto si sa ma anche da altri fattori come la capacitá di elaborare queste informazioni, dalla padronanza delle conoscenze che permette un certo discernimento delle informazioni e dall’abiltá di comprenderle a fondo che é ben diverso dal semplice sapere e dalla ripetizione di informazioni come un pappagallo. In altre parole, sapere é importante ma é altrettando importante saper applicare quello che si sa in un contesto corretto. Internet é certamente un mezzo che puó aiutare ad elevarsi culturamente, certamente aiuta nell’accumulazione del sapere ma se si approccia il mezzo senza metodo e spirito critico si rischia di avere una visione della realta molto dettagliata ma completamente distorta. E’ come se una persona indosasse degli occhiali rossi, il mondo circostante sará pieno di dettagli ma distorto in quanto tutto tenderebbe verso quel colore.  Se una persona é convinta che i vaccini siano dannosi andrá su internet cercando tutto quello che rafforza la sua tesi. Certo questa persona sará piena di informazioni, si sentirá una specie di esperto sul tema anche se non ha studiato medicina per capire a fondo quello che legge ma soprattutto mancando dello spirito critico che dovrebbe spingerlo a prendere in considerazioni le tesi contrarie. Il fatto di sentirsi degli esperti permette anche di ignorare e sminuire il parere di chi magari ha passato un’esistenza a studiare la materia. Nel nome di una concezione distorta della democrazia,il parere di un tizio qualunque ha lo stesso valore di un esperto in materia e pretende di avere lo stesso rispetto. La differenza tra l’opinione di un esperto e il tizio qualunque non risiede in una presunta autoritá ma in un lungo processo che ha portato a delle conclusioni basate su un approccio razionale che ha coinvolto altri esperti. E’ vero che qualche volta dei neofiti hanno portato un approccio diverso e altrettando valido ad una materia, ma quando questo é accaduto  é stato possibile perché l’approccio diverso aveva una credibilitá basata su una serie di argomenti e nuove informazioni. Un idea é valida e merita ripsetto non per il fatto di essere stata concepita ma dallo scrutinio a cui e stata sottoposta. In rete accade spesso che delle idee abbiano forza per il fatto di essere in grado di affascinare e stuzzicare la fantasia o sempicemente si sposano bene con la propria concezione della realtá.

Purtroppo non esiste una bocca della veritá come massimo giudice per sapere se qualcosa sia vero o no. In un’epoca dove ognuno si crea la propria realtá e si costruisce la propria veritá, siamo tutti giudici e proni all’errore. Il pericolo é quello di avere una societá composta di campane sorde poco propense al confronto ma in grado sempre e comunque di trovare sostegno alle proprie tesi. Se da una parte internet ha aiutato lo sviluppo della democrazia del sapere umano grazie all’accesso veloce all’informazione e aprendo canali di comunicazione a chi é fuori dai circoli mediatici tradizionali, dall’altra parte rischia di pregiudicare il tutto perché non siamo ancora in grado di processare in maniera corretta quello che passa davanti ai nostri schermi. La sfida del futuro non sará tanto quello di avere un accesso sempre piú rapido all rete ma un’educazione all’uso della stessa.

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La veritá utile

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Nelle ultime settimane si é fatto un gran parlare di post-veritá riguardo le bufale che circolano su internet.  Notizie inventate di sana pianta, o esageratamente gonfiate, imperversano ormai sui social network e non hanno difficoltá a trovare creduloni pronti a condividere e indignarsi, prendendo per buono qualsiasi cosa che rafforzi il proprio pregiudizio. Le ragioni dietro la creazione di queste notizie non é un mistero. Da una parte c’é gente che specula sulla credulitá delle persone convertendo il traffico di visite in moneta sonante tramite la pubblicitá on line. Dall’altra parte si cerca di alterare l’umore degli elettori creando un sentimento di rabbia e frustrazione da dirigere contro governi, politici e istituzioni. In una fase storica dominata dalla frammentazione dei mezzi di comunicazione e con il voto deciso su base emotiva piú che razionale, le elezioni si vincono giocando sui sentimenti e la percezione della realtá da parte degli elettori. Se é facile capire le ragioni dietro la creazione delle cosidette bufale, un po’ meno e soprattutto meno discussa é la ragione per cui queste bufale hanno successo e persistono sui social. Troppo facile limitarsi alla scarsa istruzione delle persone o alla loro credulitá. Siamo tutti vittime di bufale in una maniera o nell’altra, non importa la nostra istruzione o il nostro scetticismo.

Evitando da una parte speculazioni filosofiche che negano il concetto di veritá e dall’altra parte i dogmi religiosi che affermano che esiste una sola veritá assoluta chiamata Dio, il concetto comune di veritá si rifá al pensiero scientifico. Per veritá si intende un concetto, idea o giudizio che é coerente e non in contrasto con la realtá oggettiva. Condividendo il pensiero di Popper,  non possiamo mai arrivare alla veritá assoluta o essere sicuri di essa, quello che possiamo fare é cercare di avvicinarsi il piú possibile. Essere nel vero significa sforzarsi per essere il piú vicino possibile alla veritá abbracciando la tesi che piú appare aderente alla realtá delle cose . Nel mondo scientifico, significa per esempio rinunciare a una teoria quando una migliore viene presentata. Perché teorie del complotto (dai retilliani alle scie chimiche) hanno migliaia di seguaci quando la rete é piena di informazioni che le smentiscono? Da un punto di vista politico, perché si continua a credere ai doni di Putin, ai terremoti declassati o agli immigrati in hotel a 5 stelle con piscine e sauna? Perché allora le bufale resistono quando sono chiaramente inventate?

Il problema é proprio quello di partire da un’idea scientifica di veritá, evitando di prendere in considerazione la sua parte emotiva. Quando si condivide una bufala su internet, il fatto che il nostro giudizio o pensiero sia in linea con la realtá  non é importante. Un qualcosa é vero o falso a seconda se  é utile o meno, non perché essa sia coerente con una realtá oggettiva. Un qualcosa é vero non perché rispetta il principio di non contraddizione ma perché serve alla nostra sfera emotiva. Quello che cerchiamo non é una veritá assoluta, arida e immobile ma una “veritá utile” che é fluida, relativa ma soprattutto confortante.

Proviamo a dare qualche esempio su cosa riteniamo per “veritá utile”. La gente crede alle scie chimiche per diverse ragioni. Il complotto da un senso alle loro esistenze: la lotta contro gli untori del cielo li fa sentire eroi. Essere in pochi a crederlo rafforza la loro adesione, gli dá una ragione per guardare tutti dall’alto in basso e sentirsi meglio aumentando la propria autostima:“Guarda tutta questa gente istruita che non si accorge di cosa sta accadendo sulle loro testa. Io alzo la testa e osservo, a me non mi fregano”. Il complotto giustifica anche le loro (vere o presunte) miserie esistenziali: “La mia infelicitá non dipende da me ma da oscure forze che dominano e controllano il mondo che agiscono contro i miei interessi”. Possiamo fornire tutte le informazioni o prove che vogliamo, si continuerá a credere in un qualcosa che serve alle loro vite. La veritá nel puro senso della parola non ha l’obbiettivo di farci star meglio, al contrario spesso la veritá  fa male perché distrugge le nostre illusioni. Per questo motivo, approcciamo la realtá assorbendo e ritenendo vero solo quello che serve a farci star meglio.

Da un punto di vista politico, le bufale sono una delle essenze del populismo. Come spiegato in precedenza, il populismo ha succsso perche semplfica la realtá e la rende comprensibile. La post-veritá ha proprio lo scopo di semplificare la realtá e renderla piú comprensibile.  Le bufale sugli immigrati vanno per la maggiore perché identificano un nemico, danno la ragione per cui non troviamo lavoro, spiega perché i governi sono inefficaci, permettono di canalizzare la nostra frustrazione quotidiana e danno una speranza e il controllo della situazione (per star meglio basta mandare a casa tutti).

In un’era dove tutto é misurato dall’utilitá e caratterizzato dalla ricerca del piacere immediato, la veritá non ha fatto altro che piegarsi allo spirito del tempo. Essere nel vero non e’ piú un principio, un fine a se stesso per uscire dallo stato di bruti per vivere in “virtude e conoscenza” che da solo vale la pena di perseguire. Ha valore essere nel vero e pagare un prezzo (il tempo che spendiamo nella ricerca e nella riflessione) solo se é utile alla nostra persona procurandoci un piacere immediato. La “veritá utile” riduce tutto a opinione senza l’obbligo di cambiarla se non aderisce ai fatti. Se la dicotomia tra opinione e veritá diventa insostenibile, allora ci si rifugia in complotti o interpretazioni dei fatti tali da non obbligarci a cambiare opinione. Quando crediamo in qualcosa e ci facciamo porta bandiera di un’idea (dalle scie chimiche ad una ideologia politica), facciamo un investimento emotivo. Cambiare idea significherebbe non solo ammettere di avere torto ma anche mettere in crisi una parte della propria identitá rendendo vano tutto l’investimento emotive fatto in qualcosa.

Nell’epoca dei social network, l’invesimento emotivo diventa ancora piú alto e piú difficile da rinunciare. Se passiamo anni a condividere articoli su scie chimiche, diventerá piú difficile ammettere di essersi sbagliati. La veritá utile viene in soccorso, riducendo il pericolo e la necessitá di fare quel costoso passo indietro. Alla fine la veritá utile é un guscio, un mondo irreale fatto a nostra immagine e somiglianza in cui rifugiarsi. Un mondo in cui siamo noi in controllo, dove le contraddizioni del mondo reale spariscono non obbligandoci al faticoso tentativo di comprendere la realtá. In un mondo dominato dall’edonismo e dal costante intratenimento, la veritá utile é la soluzione perfetta  e pigra per rinunciare al tentativo di elevarsi culturalmente. Quello che impariamo dalla cosidettá universitá della vita (le informazioni che troviamo sulla rete spesso provenienti da fonti per lo meno dubbie) su qualsiasi argomento ci permette di non sentirci a disagio davanti a chi ha magari speso una vita di studi su quell’argomento. L’universitá della vita ci fa sentire meglio riguardo la nostra ignoranza perché ci fa sentire saggi e non vittime della manipolazione e della falsitá delle istituzioni culturali tradizionali. Se l’attacco alle elite é una delle caratteristiche del populismo, la veritá utile é uno degli strumenti a sua disposizione per deligittimare e sminuire il peso degli intelettuali e impostare il dibattitto politico non sulla razionalitá ma sull’emotivitá. Per questo motivo, le varie bufale e teorie del complotto possono anche farci ridere ma sono pericolose in quanto erodono la democrazia inquinando il dibattito politico.                   

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Terrorismo 2.0 e il suo brand

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L’aspetto forse piú sconcertante dei fatti di Nizza é che l’autore dell’attentato  era uno sconosciuto per le forze dell’ordine in quanto non era stato mai associato a gruppi estremisti. Mohamed Lahouaiej Bouhlel era un perfetto uomo qualunque, diventato lupo solitario all’improvviso. Questo aspetto contrasta l’idea che spesso si ha dell’ISIS o di Al-Quaeda come organizzazioni terroristiche dotate di un vertice e organizzate in cellule. Questa visione sbagliata deriva dalla maniera in cui le organizzazioni terroristiche hanno sempre agito in Europa,  le brigate rosse per fare un esempio. Se questa fosse la maniera in cui il terrorismo islamico é organizzato, basterebbe un maggior controllo del territorio e un coordinamento delle itelligence per batterlo. Per smantellare un’organizzazione terroristica organizzata in questa maniera basterebbe seguire il flusso di armi o denaro, infiltrare operatori di polizia al loro interno o semplicemente fare in maniera che uno dei terroristi inizi a collaborare per far crollare il castello di carta. Come i fatti di Nizza hanno purtroppo dimostrato,  il terrorismo islamico funziona in maniera diversa: non ha bisogno di strutture o catene di comando (per l’ISIS questo vale soprattutto in Europa), ne’ tantomeno di cellule interconnesse dedite al recrutamento o all’attuazione dei massacri. In poche parole, la maniera in cui sono organizzati non offre la possibilita’ di trovare il filo per sciogliere la matassa.  Il terrorismo islamico non e’ dotato di un corpo da ricercare e fermare ma é qualcosa di piu’ sfuggente e inafferabbile. Il terrorismo islamico funziona piu’ come un brand e capire la maniera in cui opera é importante per attuare una strategia che possa contrastarlo.

Per un qualsiasi prodotto, un brand é molto piú di un logo o uno slogan. Il brand é soprattutto carico di un significato che i responsabili di marketing cercano di associare al prodotto. Questo significato o i valori associati al prodotto permettono all’azienda di differenziarsi e di fidelizzare il cliente. Non compriamo cose solo per il loro uso ma anche per associare noi stessi a un’idea che il prodotto trasmette. Per esempio, perché una persona comprerebbe mai una Ferrari? Certamente non per l’uso dato che anche una normale utilitaria permetterebbe di spostarsi da un punto A ad un punto B. Per la bellezza? Ci sono tante macchine sportive altrettanto accattivanti ad un costo molto inferiore. La gente compra Ferrari perché significa successo, possedere una Ferrari significa dire al mondo io sono al vertice perché me la posso permettere. In un’epoca dominata dal nichilismo con persone in cerca di un’identitá che possa dare una direzione, cosa compriamo serve anche a dire chi siamo. Nella stessa maniera, l’ISIS ha creato un brand con cui estremizza e recruta tanti giovani, spingendoli a compiere atti cruenti anche senza mai essere andati in Siria o entrati direttamente in contatto  con un’organizzazione terroristica. Il brand permette il recrutamento di terroristi slegati tra loro e quindi impossibile da stanare e fermare in anticipo. Questo permette all’estremismo islamico di avere un  potenziale immenso esercito di dormienti  che non bisogna addestrare ma semplicemente spingere all’azione:

“Se non siete in possesso di pallottole o di ordigni, afferrate una pietra e spaccategli la testa. Oppure uccidente con un coltello. O investitelo con un’auto. Gettatelo dall’alto di un palazzo. O strangolatelo con le mani. Usate il veleno!”.

Questo brand viene costruito on line attraverso video di propaganda che vengono visti soprattutto dai giovani che possono decidere di partire per la Siria o semplicemente diventare martiri in qualche angolo d’Europa. Video che mostrano i combattenti dell’ISIS come novelli rambo senza paura, come se la guerra fosse un video gioco. Quello che l’ISIS vende é la possibilita di diventare un qualcuno e di dare un significato alla propria esistenza attraverso una causa. Quali sono i significati e i valori associati a questo “prodotto”? Il coraggio, la possibilitá di dirsi “buoni islamici”, l’eroismo del buono che combatte il male, diventare guerrieri di una guerra santa etc. Cosi come il populismo attira tanti giovani europei dando l’illusione di essere dei ribelli che operano per il cambiamento contro vari nemici, cosi il fondamentalismo islamico dá la possibilita a tanti giovani musulmani la possibilitá di diventare ribelli e combattere quella societá che li ha emarginati e costretti a vivere in grandi periferie senza speranza perché il liberismo economico ha distrutto la possibilitá di un riscatto sociale.

Combattere il terrorismo con bombe, limitando i diritti o trattando tutti gli islamici come nemici o cittadini di serie B farebbe proprio il gioco dell’ISIS perché rafforzerebbe l’appeal del loro prodotto. Piú si emarginano i giovani islamici trattandoli come nemici, piú grande diventa il risentimento di questi ultimi nei confronti delle societá che li esclude e degli stati che li trattano come potenziali nemici. Il risultato finale e’ rafforzare la propaganda dell’estremismo religioso e del potere seduttivo del brand “terrorismo islamico”. Quello che servirebbe invece é  qualcosa di piú sottile, distruggere il brand minuziosamente creato dalla propaganda fondamentalista, ragionamento troppo sottile in una clima dominato da politici e opinionisti assetati di vendetta.