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Trump e libertá sui social

La questione dell’interdizione di Trump dai social è un tema delicato sul cui sviluppo si giocherà il destino della democrazia ai tempi di internet. La questione è molto complessa e si colloca in una zona grigia dove diversi diritti entrano in conflitto tra loro: la libertà di espressione di Trump da una parte e dall’altra gli interessi della collettività di salvaguardare le proprie istituzioni in un momento in cui il presidente stava usando i social per incitare alla violenza nel tentativo di rovesciare un’elezione. Questo tipo di contrasto è tipico delle società aperte che garantendo diversi diritti esse non possono garantire che questi non entrino i conflitto tra di loro. Ogni volta che questi diritti entrano in conflitto, l’intero sistema entra in crisi. Non esiste una soluzione semplice proprio perché le società aperte sono aperte perché non delegano ad un’autorità il dovere d’imporre una direzione sempre coerente a se stessa. I contrasti tra diritti, la continua ricerca di un equilibrio tra libertà e uguaglianza, le ridefinizione senza fine del confine tra individuo e collettività sono i prezzi da pagare per permettere alla società e alle nostre istituzioni di restare aperte e inclusive il piú possibile.

Rimane comunque il problema di società private che hanno un potere enorme sulla libertà di espressione degli individui e possono cambiare i confini delle libertà di espressione degli individui al di fuori di un controllo democratico. Questo non significa che i social debbano permettere ai propri utenti di dire e fare quello che vogliono sui loro siti. Incitare alla violenza e la violenza verbale non possono essere tollerate e i social hanno il dovere di contrastare l’uso dei social per propagare violenza. La violenza non può far parte di una società civile e non ha protezione all’interno delle nostre costituzioni. I social avrebbero anche il dovere di combattere la diffusione cosciente d’informazioni false. Qui la situazione diventa complessa. Non tocca certamente ai social distinguere cosa sia vero o falso e qualsiasi decisione comporta una limitazione del diritto di espressione degli individui. Le società sono aperte perché aperte al confronto tra diverse posizioni. Questo comporta inevitabilmente una tolleranza verso notizie false per salvaguardare il piú possibile la libertà di espressione. Negli ultimi anni, tante forza politiche hanno approfittato di questo per diffondere notizie false, animare l’antipolitica, generare rabbia che stanno mettendo in crisi le nostre democrazie. In altre parole, la liberta concessa dai social viene usata per danneggiare le istituzioni democratiche finendo per uccidere la stessa libertà. Come negli anni 20 e 30 del secolo scorso ci troviamo ad affrontare una versione piú subdolo del “paradosso della libertà”. La libertà e la tolleranza non possono essere usate per rovesciarle.

Come risolvere questi conflitti? Come evitare che i social diventino il mezzo per distruggere la liberta nel nome della libertà? Come evitare che organizzazioni private come i social diventano gli arbitri di libertà pubbliche?

Come detto prima la soluzione non è semplice e richiede un lunghissimo dibattito sganciato dalla contingenza (caso Trump). Non credo esista una soluzione efficace capace di salvare capre e cavoli. Credo che l’unica cosa possibile sia un modus operandi non soltanto a livello legislativo che dia delle indicazioni su come muoversi. Modus operandi che non può funzionare a livello nazionale costituendo un altro limite del sovranismo all’interno di una realtá che se ne infischia dei confini. Non è pensabile che uno stato sia in grado di risolvere il problema da solo considerando la natura multizonale di queste organizzazioni e il fatto che la trasmissione dei dati non conosce barriere e limiti geografici. Da un punto di vista legislativo è necessario un ampio accordo internazionale che disciplini l’uso dei social: “user agreement”, definizione delle responsabilità dei social, loro doveri, arbitrati etc. Certamente questi accordi non avranno l’adesione di paesi autoritari, ma i social che operano in paesi democratici devono sottostare a delle regole.

Ammesso e concesso che si possa ad arrivare ad una disciplina efficace da un punto di vista legislativo, il problema non verrebbe comunque facilmente risolto. Quello che serve é soprattutto un uso responsabile da parte politici e cittadini dei social. Tutte le libertà vanno declinate con responsabilità. Le libertà non vengono in un assoluto ma all’interno di un sistema dove la mia libertà finisce dove inizia la liberta di un altro. Non possiamo sempre chiedere ai social o ai giudici d’intervenire ogni volta che c’è uno sconfinamento, non è possibile. Un sistema plurale aperto dove gli individui non sono coscienti dei propri limiti e non rispettano la liberta gli altri è destinato a fallire e lasciare il posto ad un potere autoritario che ponga fine al caos. La tecnologia e internet in particolare ha dato un grosso potere agli individui. Per la prima volta nella storia dell’umanità, il comportamento del singolo individuo (non importa il potere a sua disposizione) ha delle conseguenze molte piú ampie che vanno oltre la stretta sfera individuale. Questo non riguarda soltanto la diffusione di notizie false su internet ma pensate all’impatto sull’ambiente e sul futuro delle prossime generazioni che ogni scelta dell’individuo comporta. Se vogliamo mantenere una società aperta non possiamo accettare che ogni singola azione dell’individuo venga monitorata da un potere che tutto può e nulla deve perché significherebbe rinunciare alla società aperta. Le tecnologie hanno aperte infinite possibilità ma l’essere umano e rimasto uguale con i propri limiti forse incapace di comprendere e gestire queste possibilità. L’unica via di uscita non può che essere l’educazione e rendere la gente cosciente e responsabile delle proprie azioni. Questo non riguarda solo Trump ma tutti noi. Sull’uso cosciente dei social, sulla capacitá autonoma del singolo di valutare le informazioni e sanzionare gli abusi e sui limiti e doveri che i social hanno sulle loro piattorma si gioca la libertá del secolo 2.0.

Virologi in TV e metodo scientifico

Io rimango veramente basito sul comportamento di tanti virologi o scienziati. Hanno per settimane sparato i loro pareri da esperti. Quello che non capisco é il loro tono di sicurezza basato sul nulla. La scienza non si basa sul principio di autoritá. Puoi essere Einstein, Basetti o l’ultimo ricercatore ma qualsiasi cosa che affermi deve essere basato su ricerche e devi proporre studi che confermino le tue affermazioni. L’esperienza giá non può essere utilizzata come unica forma di legittimazione di un qualcosa di esistente per i limiti del metodo induttivo, figuriamoci davanti ad un qualcosa di nuovo come questo virus. Invece per la fretta di apparire in TV, strappare interviste o dare foga al proprio ego rilasciano dichiarazioni senza ombra di dubbio tirate fuori praticamente dal nulla.

Questo ha contribuito non solo alla confusione ma soprattutto ha finito per legittimare i comportamenti dei negazionisti che prendono dichiarazioni fuori dal contesto per confermare le loro teorie. Il tutto si traduce in comportamenti rischiosi. A questo aggiungiamo l’informazione fatta da giornalisti, che senza un minimo straccio di conoscenza su come il metodo scientifico funziona, danno la parola a tutti (anche a vip dello spettacolo) nel nome di una par condicio che non ha senso. Qui non si ha a che fare con opinioni che in partenza sono tutte valide e che vengono accettate o rifiutate attraverso un dibattito. Qui si ha a che fare con la scienza che non seleziona una veritá o un modo di procedere sulla base della capacitá di convincere gli altri. A qualsiasi affermazione, va fornito uno studio a corroborare la tesi. Studio che puó essere rivisto, criticato e migliorato da altri esperti e procedere in questa maniera per arrivare a delle conclusioni.

Come scienziato, ho uno studio che confermi la mia tesi? Si, parlo. No, allora tacio o almeno non faccio passare opinioni come veritá assoluta solo perché ho esperienza nel campo. Come giornalista, prima di dare la parola a qualcuno mi chiedo se la persona ha qualche competenza. Poi mi assicuro che qualsiasi dichiarazione abbia qualche forma di fondamento in qualche studio. Se qualcuno parla e spara dichiarazioni senza mai citare studi, forse sarebbe meglio non dargli spazio. Le contraddizioni ci saranno sempre cosi come gli errori ma almeno saremo in grado di dare voce solo a tesi che hanno qualche fondamento migliorando non solo il dibattito e la comprensione ma soprattutto la qualita delle nostre scelte.

Negazionisti e la crisi dell’Occidente

Basta aprire qualsiasi pagina su internet per leggere una marea di commenti che negano il virus o il suo impatto al grido di “terrorismo mediatico”, “dittatura sanitaria”, “big pharma” o “non ce lo dicono”. Ora abbiamo il fenomeno di gente i giro nei pronto soccorsi per mostrare che la pandemia sia una bufala. Lo stesso vale anche per il riscaldamento globale.

Le ragioni di questo fenomeno sono tante e metterle tutte sotto la categoria “ignoranza” sarebbe una semplificazione.

A base della negazione di questi fenomeni ha a che fare con il nostro essere occidentali. Come civiltà non siamo più abituati ad affrontare problemi che siano al di sopra delle nostre capacita ‘individuali. Per decenni abbiamo vissuto al riparo da guerre, epidemie e cataclismi generali. I problemi erano astrattamente di natura individuale. Certo, abbiamo avuto terremoti ma che riguardano comunque solo porzioni limitate del territorio senza il carattere generale di una pandemia. Anche la crisi economica anche se di natura generale veniva affrontata in maniera individuale. In una società fortemente individualista dove vige la cultura del “self made man”, dell’ottimismo senza limiti, della religione del credere in se stessi (il resto non conta) davanti a un problema che non ha soluzioni a livello personale non rimane che negare il problema. Ammettere l’esistenza di un qualcosa che sfugge al proprio controllo impone un cambio radicale delle proprie prospettive di vita che non tutti sono in grado di accettare.

Cambio di prospettive che mette in discussione il nostro modello di società e impone l’importanza della politica come soluzione dei problemi. Politica che non si fa da soli ma con altri ma per far ciò bisogna rinunciare all’ideologia dominante degli ultimi anni che ha messo i problemi della società in un angolo affermando che questi vengono risolti se ogni singolo si concentra sulla propria felicità. L’occidente ha sdoganato il singolo dal tutto fino all’eccesso che il tutto non conti. L’importanza del singolo e del suo valore come tale sganciato dal tutto è stato il contributo politico e filosofico più grande dell’occidente all’umanità e racchiude la sua quintessenza. Questa operazione durata millenni si trova ora in un momento di crisi e tocca trovare un equilibrio tra singolo e comunità. Si parla di crisi dell’occidente da tanti decenni ma il nocciolo di questa crisi è proprio in questo equilibrio che non si trova tra singolo e comunità e i tempi che viviamo non hanno fatto altro che presentarci il conto.

Libertà contro salute pubblica

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In Italia sta prendendo piede una discussione sull’app e sulla limitazione della privacy che da esso deriva. Queste preoccupazioni non sono isolate al nostro paese, basti pensare agli Stati Uniti dove ci sono una serie di manifestazioni contro la quarantena nel nome della libertà. La libertà di queste persone entra però in conflitto con la libertà di altre persone di non ammalarsi. Potremmo commettere l’errore di sminuire velocemente queste preoccupazioni affermando che la libertà non significa irresponsabilità o fare semplicemente quello che si vuole. In questa maniera però rischieremmo di ignorare anche delle motivazioni piú sincere legate all’ammirabile propensione americana nel vedere con sospetto qualsiasi interferenza dello stato nella loro vita, baluardo contro la nascita di uno stato totalitario. Concezione della politica contraria a qualsiasi ingerenza dello stato tipica della tradizione protestante che non accetta nessuna forma di intermediazione e pone l’individuo solo davanti alle proprie responsabilità.

Se le libertà  degli individui possono entrare in conflitto, questo inevitabilmente ci porta a concludere che la  libertà non può essere assoluta. Ciascuno di noi non abita in isole deserte ma in comunità. Siamo animali politici anche se in teoria saremmo in grado comunque di condurre un’esistenza senza l’aiuto del gruppo. Viviamo in società politiche perché siamo razionali e riconosciamo il fatto che vivere in gruppo permette di affrontare meglio la nostra esistenza. Il vivere in società significa rinunciare a una parte della propria libertà come condizione per entrarvi. Se tutti pretendessero che la propria libertà fosse illimitata vivremo in perenne conflitto, gli uni contro gli altri. Per Hobbes, la comunità politica evita che gli uomini diventino lupi per gli altri uomini con il risultato di perdere tutte le libertà in cambio del solo loro diritto alla vita garantito dallo stato leviatano. Da Hobbes, il pensiero politico ha fatto passi in avanti creando comunità che attraverso  la creazione di uno stato democratico/liberale non garantisce solo il diritto alla vita ma anche altri diritti. Lo stato non è piú un leviatano ma soggetto alla legge che i suoi cittadini si danno attraverso la costituzione. Attraverso le leggi, i limiti delle libertà di ciascuno sono decisi e resi uguali per tutti sulla base del principio kantiano che la libertà di ognuno termina dove inizia la libertà dell’altro. Il problema se facilmente risolvibile a livello teorico pone una serie di problemi a livello pratico. E’ difficile stabilire dove inizia la libertà di una persona e finisce la libertà di un altro. Questa distinzione diventa man mano piú difficile con l’accrescersi della complessità delle nostre società soprattutto a seguito della rivoluzione industriale. Basti pensare al contrasto tra la libertà dell’imprenditore di esercitare la sua funzione economica per raggiungere la felicità e la libertà dei lavoratori di non essere sfruttati. Se nello schiavismo la libertà economica è assoluta a scapito degli schiavi, questa viene man mano meno con l’affermarsi dei diritti e delle libertà dei lavoratori. Non vi è una distinzione ottimale e valida per tutte le stagioni. Il confine che separa la zona dove prevale uno e inizia l’altro è molto mobile e di difficile tracciatura. Questo confine diventa ancora piú importante quando il confine non è tra le libertà contrapposte di singoli individui ma tra l’autorità dello stato e i suoi cittadini, come nel caso delle misure adottate in questa pandemia. Negli stati autoritari non esiste questo confine in quanto gli individui sono pienamente soggetti ai caprici del potere. Nei paesi democratici, la posizione del confine dipende dagli sviluppi della morale e del pensiero politico. Le decisioni piú importanti delle Corti Costituzionali sono proprie quelle dove sono chiamate a tracciare un confine tra diritti contrastanti come nei casi aborto o di eutanasia.

Il corona virus pone dunque una serie di problemi sul concetto di libertà. Nel nome della salute pubblica, i governi pongono una serie di restrizioni che costituiscono una limitazione sostanziale della libertà degli individui e colpiscono duramente molti dei diritti alla base della libertà stessa: diritto di riunione, di movimento e alla privacy. Giocando sulla paura del contagio, alcuni governi come quello ungherese hanno portato all’estremo lo scontro tra salute pubblica e libertà degli individui facendo passare l’idea che la libertà degli individui possa essere sacrificata. Per altri governi (come quello italiano) è stato facile introdurre misure di restrizione con effetti paradossali dove i cittadini diventano sceriffi di altri cittadini denunciando o addirittura picchiando persone che apparentemente violavano le norme. Significa che dobbiamo scendere in piazza e che la quarantena sia degna di uno stato autoritario? Oppure che la salute pubblica richieda sempre il sacrificio delle libertà personali senza discussione? Come spesso accade in un epoca dove si ragiona poco e ci si imbarca velocemente in crociate con il solo fine di servire se stessi, si finisce con l’ignorare tutta una serie di sfumature che permetterebbero di avere un dialogo piú sereno ma soprattutto piú costruttivo.

Per rispondere a queste domande non possiamo che partire dalla nostra costituzione che sancisce una maniera di agire simile a tutti i paesi democratici. In particolare l’Art 16 sancisce:

“Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche.”

Questo significa che la libertà personale può essere limitata per motivi di sanità. Se la costituzione permette una violazione delle libertà personali da parte delle autorità, questo non significa che queste abbiano carta bianca come un qualsiasi regime autoritario. La libertà può essere limitata solo per ragioni precise e per un periodo limitato. Durata e motivazioni da sole non bastano per limitare gli abusi. Quello che conta è la presenza di organi e strumenti di garanzia che evitino l’uso arbitrario delle restrizioni affinché non siano usate per ragioni politiche e ci sia sempre la possibilità di porre un fine ad esse. La decisione sulla fine delle restrizioni non può appartenere solo e soltanto al governo che le istituisce. Questi strumenti di garanzia sono statali (parlamento, potere giudiziario, corte costituzionali) ma anche all’interno della società civile che deve controllare e porsi come limiti agli abusi del potere (stampa e pubblica opinione in primis). Tornando al  confine tra salute collettiva e libertà  personali, in situazioni come queste il confine avanza a favore del potere statale ma questo deve essere considerato solo come temporaneo. La maturità di una democrazia, ma soprattutto di un popolo democratico, sta nella sua capacita di tornare al punto di partenza una volta la crisi giunge al termine. Durante il periodo di emergenza, il dibattitto deve continuare per mettere pressione al potere statale ed evitare sconfinamenti. In base a questo ragionamento, non si può accettare la decisione di Orban che sospende la costituzione e con esso gli strumenti per limitare gli abusi del potere. Allo stesso tempo non si può appoggiare coloro che ritengono queste misure degne di uno stato totalitario ignorando i limiti a cui lo stato democratico è sottoposto.

Questa discussione non è di lana caprina ma è fondamentale in un periodo dove la politica, da una parte gioca allo sfascio e alla glorificazioni di regimi illiberali con la scusa che non sono poi tanto differenti dai sistemi democratici e dall’altro manifesta l’adulazione dello stato come incarnazione degli interessi collettivi in contrasto con gli egoismi dei singoli. La sfida non è solo tornare alla normalità prima possibile ma anche evitare uno svalutazione delle nostre istituzioni e dei nostri principi attraverso ragionamenti che non mirano a comprendere ma solo a distruggere. Queste discussioni sono importanti per evitare che si forma uno spirito comune di rigetto della democrazia nel nome di una similitudine con sistemi autoritari che non esiste.

 

Corona Virus: tra Europa e sovranismo

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Il tema del sovranismo é uno dei temi politici che si é imposto alla luce della crisi generata dal Corona virus. Questa crisi sanitaria si sta dimostrando come il perfetto alleato dei sovranisti alla luce soprattutto della fatica europea di orchestrare una risposta comune. I singoli paesi sono andati in ordine sparso, ognuno spinto da una visione locale a breve termine e incapaci di pensare ad un obbiettivo condiviso. In questa maniera si sono accentuati soprattutto i contrasti tra i paesi invece delle ragioni comuni. Tutto questo è stato facilmente usato a uso e consumo di una propaganda superficiale mirata a generare rabbia nei confronti del progetto europeo. Anche quando vengono adottate delle misure in comune a livello continentale (BCE compra titoli di stato, allentamento delle restrizioni fiscali, sblocco dell’esportazione di materiale medico etc), queste non trovano risalto sui social dove la gente condivide solo e soltanto quello che si sposa con la rabbia corrente contribuendo a formare un’opinione pubblica ostile all’Europa.  Una propaganda fatta di vittimismo e sciovinismo mirata piú alla pancia degli elettori che alla visione di un futuro. Il dibattito politico così come viene condotto e vissuto dalla gente non ha nulla a che vedere con le ragioni del sovranismo o dell’internazionalismo.

Tutto il dibattito si è concentrato sulla questione europea in un dibattito polarizzato tra “Europa Si” e “Europa no” anche se la questione è molto piú ampia e non può essere limitata soltanto all’Europa. L’Unione Europea e i suoi limiti offrono la possibilità di personificare tutti i problemi che attraversiamo in un unico ente che diventa oggetto di scorno. Questo permette una semplificazione della realtá che può essere facilmente compresa e consumata dagli elettori. Al netto delle ragioni (alcune molto valide), il sovranismo è diventata la nuova formula con cui si manifesta la peggiore forma di nazionalismo. Questo non vuole dire che tutti i sovranisti sono nazionalisti ma bisogna riconoscere che tutti i nazionalisti sono sovranisti e che il sovranismo ha molti punti in comuni con il nazionalismo. Con il nazionalismo, il sovranismo ha in comune l’esaltazione di un passato dove le cose funzionavano. Un ritorno all’età dell’ora “pre Europa” dove ognuno era padrone a casa sua ignorando che la struttura economica è cambiata e non é possibile tornare indietro come per magia (ammesso e non concesso che questa età dell’ora sia mai esistita). Inoltre come per il nazionalismo, il sovranismo si popone come forma di autoassoluzione collettiva. Invece di guardare i propri limiti  e i propri errori per andare oltre, si usa il sovranismo per auto elogiarsi incolpando sempre gli altri delle proprie sventure. Nel nostro caso, l’Europa diventa la causa di tutto quello che non funziona e la soluzione dei problemi si riduce all’identificazione di un capro espiatorio buono per tutte le occasioni. Come sempre accade, si conoscono sempre i limiti della propria realtá ed è sempre facile mostrare tutto quello che non funziona soprattutto se paragonato ad un’alternativa non esistente nel presente ma creata in maniera perfetta nel mondo dei sogni politici. Si prendono i limiti dell’attualità e li si paragona con una realtá perfetta senza prendere in considerazioni le difficoltà nella sua costruzione e le costrizioni che la realtá impone. Diventa un esercizio dove il presente con tutti i compromessi, le impossibilità e le forze che lavorano in senso contrario viene sminuito e messo a confronto con un modello che prende in considerazione solo quello che fa comodo minimizzando tutti gli elementi che non si sposano con la visione ideale. Piú che un esercizio politico ancorato nella realtá diventa un esercizio di pura fantasia.

Per questo motivo possiamo considerare il sovranismo come una forma di utopismo politico. Utopico non nella sua attuazione (nel senso comune di irrealizzabile) ma nella maniera con cui affronta i problemi dove la soluzione è una sola per tutto. Una maniera utopica di affrontare le cose dove ci si concentra nel distruggere completamente il presente nel nome di un qualcosa tutto da costruire.  Come tutte le costruzioni politiche utopistiche, il sovranismo è probabilmente destinato al fallimento se messo in pratica come messo in luce da Popper nella sua distinzione tra “Piecemeal Engeneering” e Utopian engeneering” . Fallimento non nell’attuazione ma per le ripercussioni sulla vita delle persone. Come tutti i progetti utopistici, non può prendere in considerazioni tutte le variabili che un cambiamento radicale può scatenare. Cosi come nessun piano sopravvive al contatto col nemico (Gen. Helmuth von Moltke) , qualsiasi piano politico non sopravvive al contatto con la realtá. Una realtá fatta anche da individui che la pensano in maniera differente, persone o organizzazioni che non si possono controllare o i semplici limiti materiali. Al contatto con queste variabili, il piano utopico è destinato a essere modificato con il risultato di ottenere qualcosa di diverso senza essere sicuri che il risultato finale sia migliore. A questo va aggiunto il dolore che può essere generato nel tentativo di creare qualcosa di diverso dopo aver distrutto anche quello che funzionava nell’esistente. Questa è la ragione per cui tutti i grandi progetti di cambiamento radicale hanno fallito generando disastri per le persone che lo hanno vissuto. Davanti ai fallimenti generati dall’impossibilità di gestire tutte le variabili che i cambiamenti apportati generano, si finisce per incolpare chi la pensa diversamente accusandoli di essere traditori. Accusa non del tutto infondata perché qualsiasi costruzione politica ha bisogno del consenso per funzionare e se questo non può essere ottenuto lo si crea con la forza. Questa è la ragione per cui i grandi progetti utopici finiscono per instaurare regimi totalitari. Non a caso i sovranisti tendono a chiamare traditori tutti coloro che la pensano in maniera diversa da loro. In questa visione drammatica della politica, chi non si adegua é un ingenuo o una persona che ha svenduto il proprio paese. Una chiamata alle armi piú che alla riflessione, una maniera dogmatica di vedere la politica dove si ha la convenzione di avere la verità in tasca e gli altri essendo nel torto non hanno legittimità all’azione politica

Ammesso e concesso che il presente presenta una serie di difficoltà perché dovremmo insistere sulla via internazionalista? Perché dovremmo batterci per migliorare l’esistenza in maniera graduale invece di tornare al passato? Perché la via internazionalista dovrebbe essere preferibile al sovranismo?

Certamente non per una visione idealista della politica internazionale fatta di popoli in girotondo sotto l’arcobaleno. Significherebbe fare lo stesso errore dei sovranisti: paragonare la realtà ad un ideale perfetto irrealizzabile. La politica funziona partendo dai problemi del presente e non dai sentimenti, non importa se positivi come la fratellanza di popoli o negativi come l’odio. Una politica basata sui sentimenti li sdogana tutti, una politica animata solo e soltanto da sentimenti positivi giustifica l’uso in politica di tutte le emozioni anche quelle distruttive. La ragione principale per un Europa piú integrata è solo una e nasce dal presente che stiamo vivendo. Come osservato da Bauman, viviamo un’epoca di problemi globali che richiedono risposte globali e non locali. La politica come le istituzioni sono chiamate a risolvere i problemi dei nostri giorni se vogliamo una politica mossa dalla razionalità. I cambiamenti economici e tecnologici hanno reso il mondo sempre piú piccolo e questa è una delle conseguenze del modo di agire del capitalismo. Una delle costanti del capitalismo è stata la sua necessità di allargare la sfera della sua influenza non solo nell’ambito della vita umana ma anche da un punto vista puramente spaziale. Il capitalismo ha occupato tutte le attività umane riducendole ad una logica di costi e profitto ma ha anche imposto la sua filosofia in ambiti territoriali sempre piú ampi. Il capitalismo è nato nelle città (i comuni italiani) per poi svilupparsi a livello nazionale (l’epopea degli stati nazionali) e finire a livello internazionale. Questa caratteristica del capitalismo era ben tenuta da Marx quando descrive una prima globalizzazione avvenuta già subito dopo la rivoluzione industriale.  Il Manifesto del Partito Comunista è una descrizione di questo fenomeno quando parla del ruolo della locomotiva e dell’allargamento dei mercati e la conclusione di quel documento non poteva che essere “Proletari di tutto il mondo unitevi”. In un capitalismo diventato globale, la necessità di controllare e rimediare alle sue esternalità non può che essere globale. Questo approccio globale non riguarda solo la sinistra ma tutti coloro che in qualche maniera prendono coscienza che in un sistema economico globale, i problemi sono globali. Questo riguarda non solo l’economia in senso stretto ma altri ambiti come l’ambiente. Il singolo paese può decidere di applicare tutte le politiche ambientali che ritiene necessario ma questo risulterebbe inutile se per esempio il Brasile continuasse a tagliare le foreste. Inoltre la transazione ecologica comporta un costo insostenibile nel breve periodo soprattutto all’interno di un’economia globale fortemente competitiva. In un contesto che premia i paesi che mantengono i costi bassi, tutti aspettano che siano gli altri a fare il primo passo con il risultato che il pianeta e le prossime generazioni possono solo continuare ad aspettare.

Alla fine la visione sovranista e internazionalista può essere ridotta a due palazzi dove ognuno di essi ha un appartamento in fiamme. In un palazzo, i singoli inquilini pensano a se stessi assicurandosi che le porte e le finestre siano ben chiuse lasciando solo chi combatte le fiamme. Nel secondo palazzo, gli inquilini si aiutano a domare l’incendio e si assicurano che i pompieri vengano chiamati a soccorrere chi abita nell’appartamento in fiamme. Il primo palazzo viene completamente distrutto dalle fiamme mentre il secondo si salva limitando i danni. Il palazzo è il mondo in cui viviamo, gli appartamenti sono i singoli stati mentre i pompieri sono le istituzioni internazionali mentre l’incendio sono i problemi da affrontare. La pandemia è uno di questi incendi che il singolo paese non può risolvere da solo. Viviamo in un modo dove la gente viaggia da per tutto con scambi continui con la conseguenza di rendere una malattia subito globale. Nonostante l’economia sia diventata globale, la pandemia ha trovato l’umanità impreparata in quanto chiusa nelle logiche nazionaliste. Basta vedere i vari blocchi di esportazione su mascherine e macchinari medici o i tentativi di comprare vaccini per se stessi. Ognuno ha pensato al proprio appartamento mancando una visione d’insieme

Come applicare tutto questo all’Europa? Come possiamo da una questione di principio arrivare all’attuazione di politiche che funzionino in Europa? Sia chiaro, l’Europa cosi com’è stata costruita seguendo un canovaccio liberista negli ultimi decenni ha bisogno di essere cambiata per assicurare non solo il suo funzionamento ma per svolgere la sua missione storica: permettere la pacifica convivenza dei suoi popoli. Cambiare l’Europa partendo dalla realtá significa impegnarsi per migliorare le sue istituzioni rendendole piú trasparenti e democratiche. Significa permettere di uscire dalla metà del guado in cui ci troviamo. L’unione monetaria doveva servire come mezzo per spingere verso l’unificazione politica e invece hanno creato le perfette condizioni per attuare politiche neoliberiste dove l’intervento dei singoli stati nella vita economica sono stati limitati per lasciare libero il mercato di decidere sulla vita degli europei sulla base della peggiore competizione invece della solidarietà. Ogni paese è “libero” di organizzare il proprio stato sociale alla luce delle proprie sfide economiche a patto di osservare una serie di restrizioni finanziarie all’interno di un sistema fortemente competitivo che permette la libertà dei capitali e dei lavoratori. Questo crea delle condizioni che obbligano gli stati a rincorrere politiche di tagli alle tasse e allo stato sociale per permettere alle proprie aziende di essere competitive e attirare investimenti ed evitare che questi vadano in altri paesi. Il fatto di avere debiti pubblici separati significa mettere in competizioni tra di loro gli stati europei da un punto di vista delle politiche fiscali per conquistare la fiducia dei mercati e tenere bassi i tassi d’interessi senza la possibilità per la banca centrale d’intervenire nel breve periodo acquistando i titoli di stato direttamente dallo stato. I tagli allo stato sociale e la liberazione forzata di tutti i settori economici non è piú una scelta politica ma una necessità economica alla luce delle condizioni create. Questo significa che un singolo paese non può cambiare la sua politica autonomamente, non solo per i vincoli dei trattati ma anche per questioni economiche se non vuole che tutto il proprio settore privato collassi. Questa costruzione è molto fragile e destinata a vacillare alla luce di qualsiasi crisi come quella greca o come questa pandemia. Se la competizione rafforza singolarmente le imprese private, nel suo complesso il sistema è molto debole. Il mondo privato trova facile licenziare aumentando la velocita della spirale della crisi, il pubblico manca di mezzi finanziari per limitare i danni e ridare fiducia. Tutto questo porta ad una rapida contrattazione della domanda (pubblica e privata) che come una corrente di risacca trascina tutto con se. Se a questo aggiungiamo la montagna dell’economia finanziaria che si regge sull’ottimismo forzato,  il sistema funziona solo e soltanto in mancanza d’imprevisti. Per questo motivo, come abbiamo visto, questa crisi riporterà alla ribalta il tema del ruolo dello stato ma anche della sua natura.

Se tenere l’Europa nel mezzo del guado è vantaggioso per la finanza per la grandi imprese, il resto annaspa in un sistema che rischia di affondare ad ogni crisi. Il dibattito sul futuro dell’Europa è sostanzialmente animato da tre poli: chi vuole tornare indietro sulla riva di partenza, chi vuole completare la traversata verso un unione piú completa e chi vuole restare dov’é.  L’ultimo polo è meno rumoroso ma molto variegato. Ci sono coloro che non vogliono cambiare le cose perché traggono molti benefici dalla situazione attuale (basta vedere al tasso d’interesse negativo pagato dai tedeschi sui propri titoli di stato) ma anche coloro che assumono questa posizione per ragioni tattiche in maniera piú o meno cosciente aspettano che il tutto affondi per cosi tornare alla riva di partenza (la posizione pragmatica dei sovranisti quando arrivano al potere attraverso un gioco di veti incrociati tra di loro a livello europeo). Tutto il dibattito assume i contorni della classica battaglia d’identità che rende difficile qualsiasi forma di discussione dove i contrasti non sono generati da una diversa visione dell’Europa o del futuro ma da questioni nazionali: olandesi e tedeschi che non vogliono pagare i debiti dei paesi mediterranei contro gli italiani che lamentano un sistema creato a tutto vantaggio dei paesi del nord. In tutto questo dibattito sull’Europa, i sovranismi si evidenziano per una contraddizione di fondo che è il riflesso proprio di quello approccio utopico che abbiamo citato prima. I sovranisti pensano ad un Europa diversa senza dire quale nascondendosi dietro formule quali “Europa dei popoli”. In realtá il loro unico progetto è affossare l’Unione Europea e tornare ad un passato tutto da definire. La necessità di attaccare l’Europa sempre e comunque li porta a compiere delle vere e proprie piroette come nel caso di questa pandemia. I sovranisti si riscoprono sempre internazionalisti nei momenti di difficoltà accusando l’Europa di non far abbastanza. Ma questa critica non è mirata a cambiare e fare in maniera tale che l’Europa sia messa nella possibilità di affrontare le crisi. La morale della storia invece è di mostrare che l’Europa sia inutile e tanto vale fare da soli. Il bello di tutto ciò è che a bloccare l’Europa sono proprio i loro alleati sovranisti nei paesi che si trovano in una posizione di forza. Sovranisti che quando sono al governo bloccano le decisioni europee e quando sono all’opposizione diventano un limite a quello che i governo possono fare gridando alla svendita degli interessi nazionali. Il risultato finale è che i sovranismi si lamentano dell’inefficacia dell’Europa essendone anche una delle cause. Possiamo dire che un sovranista è come quel testimone di Geova che ha bisogno di una trasfusione di sangue ma che non trova donatori in quanto ha convinto tutti gli altri che donare sangue sia peccato. Siamo tutti sovranisti quando siamo in una posizione di forza e ci scopriamo di essere internazionalisti nel bisogno. Una politica dettata non da una visione del futuro, non dalla necessità di risolvere i problemi ma solo da una visione a corto termine per ottenere qualche vantaggio elettorale.

In questa maniera il dibattito non é piú sulle ragioni o meno del sovranismo contrapposta ad una visione piú internazionalista. L’intero dibattito gira sulla questione europea sotto il peso della cronaca giornaliera. In questa maniera si trascura la visione piú ampia e completa per ridurre il tutto ad una semplificazione che chiede di accettare o rifiutare l’Europa di oggi vista come simbolo dell’approccio internazionalista. L’Europa è come un ospedale che non funziona. Invece di pensare e discutere su come migliorare l’ospedale affinché funzioni meglio si discute se chiudere tutti gli ospedali sulla base di un singolo ospedale che non sta funzionando come si deve. Se tutti gli ospedali venissero chiusi e ognuno lasciato a se stesso avremmo un modo senza strumenti per risolvere i problemi globali. Un mondo alla deriva dove ognuno rema per se aumentando i problemi invece che risolverli. L’Europa può essere uno strumento per guidare la globalizzazione usando la sua forza economica per dare una direzione per evitare un “tutto contro tutti” dove alla fine tutti perdono mancando di una visione comune.

Corona virus e democrazia

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Nei precedenti due interventi è stato messo in risalto come il corona virus abbia mostrato la debolezza del nostro sistema dopo anni di riduzione degli scopi e del peso dello stato. Un maggiore ruolo dello stato non è sufficiente a cambiare le cose ma è necessario un cambiamento della cultura dominante affinché il maggiore intervento dello stato miri, non tanto a mantenere in piedi un sistema claudicante, ma a cambiare il nostro modo di vivere. Solo in questa maniera saremo in grado di risolvere quelle contradizioni e quei problemi che caratterizzano la nostra società. Se un intervento dello stato sarà inevitabile, s’imporrà anche la discussione sulla natura di questo stato soprattutto da coloro che mirano a usare un maggiore intervento dello stato come mezzo per distruggere la democraticità delle nostre istituzioni. Se da una parte un maggiore intervento statale ci può aiutare ad affrontare meglio le sfide del futuro e creare una società piú giusta, lo stesso intervento può essere usato per limitare le libertà degli individui. L’aumento dell’intervento statale porterà inevitabilmente dei limiti alla libertà economica soprattutto in campo finanziario ma dobbiamo evitare che questo sfoci in un pretesto per una limitazione delle libertà politiche e della libertà dei singoli individui. Se una minore libertà economica è il prezzo da pagare per avere una società piú equa e stabile ed evitare che il nostro vivere sia travolto dalle crisi dei mercati, questo prezzo non può includere la fine della democrazia. Un maggiore protagonismo dello stato può essere accettato solo all’interno di un regime democratico garantendo il piú possibile le libertà politiche. L’inevitabile aumento del ruolo dello stato che seguirà questa pandemia non potrà che infiammare il lungo e difficile rapporto tra stato e individuo con un impatto sulla natura liberal-democratica delle nostre istituzioni. Un rapporto che insegue un equilibrio sempre cangiante in base agli sviluppi economici e tecnologici ma che va sempre cercato per evitare gli errori del passato. Credere ciecamente che lo stato risolva tutto è un illusione pericolosa, pensare che il potere politico sia sempre disinteressato e che miri al bene di tutti è ingenuo se non segno di stupidità politica, sacrificare sempre e comunque l’individuo agli interessi dello stato come incarnazione del collettivo è una ricetta per il disastro. Questa crisi offrirà l’opportunità a tanti per modificare non solo il rapporto tra stato e individuo in maniera schiacciante a favore del primo ma anche la natura dello stato in senso autoritario. Trovare un nuovo equilibrio tra stato e individuo capace di risolvere i problemi della nostra epoca all’interno di una cornice democratica sarà la sfida politica della nostra generazione. Un compito difficile non solo alla luce delle sfide ma anche dalla difficoltà storica di trovare un equilibrio tra questi due poli alla luce dell’esperienza politica.

Il rapporto tra stato e individui può essere infatti utilizzato come una delle chiavi per comprendere la storia politica del secolo scorso fino al giorno d’oggi. Gli stati nazionali sono entrati nelle loro rispettive rivoluzioni industriali con apparati statali molto semplici dove gran parte della spesa era mirata alla costruzione e al mantenimento dell’esercito. Diversi fattori sono intervenuti che hanno portato alla crescita sempre maggiore del ruolo dello stato. Prima di tutto la crescita dei movimenti operai con le loro rivendicazioni che hanno costretto ad un aumento dell’intervento statale nell’economia per rispondere alle loro esigenze. Il maggiore intervento statale non è però solo una conseguenza dei movimenti socialisti e comunisti. La crescita dell’industrializzazione dipendeva anche dall’intervento dello stato e questo non solo nei paesi dove mancava una classe borghese che ha richiesto un’industrializzazione forzata come in Russia e in Cina. L’intervento dello stato era il benvenuto anche da parte del capitale quando il privato non era in grado da solo di risolvere una serie di problemi che richiedevano una coordinazione e uno sforzo collettivo e non dalle singole entità economiche: formazione del personale attraverso la creazione di scuole professionali, infrastrutture, stimolo della domanda in tempo di crisi, creazione di standard etc.  Questo ruolo è andato via via crescendo con la creazione dello stato sociale e la nazionalizzazione di vasti settori economici. Il processo di continua crescita del peso dello stato nella vita economica e sociale è andato avanti (anche con i suoi eccessi tra cui possiamo mettere il fascismo) fino alla fine degli anni 70 per molti paesi occidentali. Negli anni 70 è iniziato via via una ritirata dello stato alla luce delle politiche neoliberali che hanno trasformato qualsiasi attività umana in un mezzo di creazione del profitto anche per quei settori che venivano tradizionalmente lasciati allo stato (sicurezza, istruzione e sanità in primis). Questa pandemia rappresenta dunque una nuova tappa politica che può cambiare la direzione della storia verso un maggiore ruolo dello stato ma rappresenta anche la piú grossa minaccia alle istituzioni democratiche negli ultimi 30 anni. Sarebbe pericoloso e stupido ignorare o sottovalutare i problemi che questo ritorno dello stato pone soprattutto riguardo il restringimento delle libertà personali in parte già anticipati dalla quarantena forzata a cui molti paesi hanno fatto appello per contrastare la diffusione del virus. Nel post 2008, i paesi occidentali hanno usato l’intervento dello stato per socializzare le perdite della crisi finanziaria senza dover cambiare la natura sostanziale dello stato continuando a garantire i diritti civili e politici. La compressione di questi diritti non si era resa necessaria per il mantenimento di un sistema iniquo data la debolezza delle forme organizzate della società civili (sindacati e partiti in primis) e per l’accettazione dell’ideologia dominante da parte di gran parte delle persone. L’apparato egemonico era rimasto intatto attraverso l’adesione della stragrande maggioranza dell’informazione e della politica concentrata a discutere di tutto tranne che mettere in discussione il nostro modo di vivere. Come abbiamo visto, questa pandemia ha il “merito” di esporre le contraddizione di questo sistema dove la salute e la vita delle persone viene messo a rischio da una logica capace di guardare solo al profitto. Non si potrà piú continuare a fare finta che Il profitto e il consumismo non portino danni o riguardino parti lontane nello spazio e nel tempo. Le conseguenze di anni di smobilitazione dello stato sociale e della sanità avranno un impatto su tutti cambiando la maniera in cui viene percepita un’economia che mette il bene comune in secondo piano. A questo va aggiunto la crisi economica che seguirà, con il suo aumento di disoccupati e ulteriore impoverimento del ceto medio che  indebolirà l’adesione spontanea al sistema di valori che sono alla base del sistema politico/economico attuale. La crisi imporrà un aumento della digitalizzazione dell’economia con altri settori dell’economia che vedranno un restringimento della forza lavoro. Tutto questo non farà altro che inasprire tutte le contraddizioni esistenti costituendo una minaccia mortale all’apparato egemonico dominante. Per rispondere a queste contraddizioni, la tentazione potrebbe essere quella di seguire la via intrapresa da molti paesi al di fuori dell’occidente: un sistema repressivo che tiene il paese unito a salvaguardia degli interessi degli strati sociali superiori. Nel momento in cui manca l’accettazione passiva del sistema, non rimane che un intervento attivo per garantire questa accettazione. Questo intervento repressivo non può che venire dallo stato, il tutto magari all’interno di un vuoto guscio democratico. La Russia di Putin offre forse l’esempio migliore per spiegare quello che potrebbe accadere. Un paese formalmente democratico, con un potere politico che è tutt’uno con il potere economico che usa la macchina statale per limitare il dissenso e garantire il consenso. Lo stato si trasformerebbe in una specie di gabbia di ferro per contenere una società che esplode nelle sue contraddizioni. La crisi ambientale porterà alla ribalta altre crisi come questa e uno stato piú pervasivo con meno protezione della privacy e degli spazi di libertà del singolo è l’unica soluzione che permetterebbe alla società di funzionare senza cambiare la maniera di operare dell’economia. Come sottolineato da Gramsci, l’esercizio normale dell’egemonia è caratterizzato dalla combinazione della forza e del consenso. Il consenso può essere creato da un aumento della retorica nazionalista di cui lo stato è l’incarnazione. Il ruolo dei media e dei giornali diventerà quella di mostrare quanto sia bella la prigione in cui viviamo e di come non ci siano alternative migliori tacciando di anti-patriottismo tutti coloro che vedono al di fuori di quella prigione.

La pandemia sta rappresentando un’occasione ghiotta per portare avanti questo programma di ingabbiatura delle società civili offendo il pretesto per giustificare tutta una serie di misure per restringere gli spazi di libertà nel breve periodo. Si va dagli estremi di Orban che  in Ungheria ha assunto i pieni poteria tempo indeterminato alla Corea del Sud dove la privacy è stata fortemente limitata per contrastare il diffondersi dell’epidemia passando per i parlamenti a scappamento ridotto. Questa situazione dimostra la facilità con cui gli spazi di libertà possono essere compressi senza colpo ferire. Questa volta vi è una ragione medica e condivisa, domani potrebbe esserci una ragione politica senza una plausibile giustificazione. Una volta che si è abituati alle limitazioni, le prossime volte diventa più facile imporle, soprattutto in presenza di tanti politici e intellettuali che minimizzano e sembrano lavorare per una svolta autoritaria. Da Salvini e Meloni che non hanno prese le distanze da Orban (accampando una serie di giustificazioni francamente assurde), a interventi di giornalisti e discussioni su internet dove si evince un mal celato rammarico del fatto che in democrazia non si possano usare le misure attuate dalla Cina per tenere le persone in casa, misure che hanno loro permesso di uscire dalla crisi molto velocemente. L’idea che si fa passare è quella che uno stato autoritario sia piú efficiente di uno stato democratico dimenticando che uno dei motivi della gravità della crisi é stata la volontà della Cina di ignorare e nascondere quello che accadeva, senza parlare di altri stati autoritari che hanno negato la pandemia sia arrivata da loro per evitare di mostrare la loro inadeguatezza a contrastarla.

Il corona virus non rappresenta soltanto un pretesto nell’immediato in una logica di causa ed effetto ma può funzionare da catalizzatore per accelerare tutta una serie di dinamiche già esistenti che portano al rafforzamento dell’autoritarismo. In altri paesi potrebbe accadere non una presa del potere da un giorno all’altro ma una lunga erosione della democrazia. Una di queste dinamiche rafforzata da questa crisi è quella dell’uomo forte che abbiamo visto in precedenza. Le situazioni di paura come queste portano la gente a stringersi dietro un qualcuno affinché li porti fuori da una condizione di necessità. Tutti i sondaggi mostrano come il consenso dei leader politici al potere è aumentato al netto dei tantissimi errori fatti. L’emergenza non aiuta la discussione e richiede decisioni chiare e in tempi brevi con la gente pronta a seguire ciecamente un leader e accettare tutto pur di tenere lontano da se il pericolo. Non è un caso Macchiavelli poneva la paura alla base del consenso per il principe piuttosto che l’amore in quanto quest’ultimo tende a svanire e non ha la forza del primo. E’ una condizione infantile analizzata anche da studi scientifici che dimostrano come diventiamo piú conformisti e rispettosi delle convenzioni quando siamo minacciati, anche quando la minaccia non è rappresentata da un qualcuno ma da un qualcosa che non può essere visto come un virus. Siamo animali sociali e i nostri comportamenti riflettono anche queste dinamiche ancestrali inconsce affinate dall’evoluzione per permettere al gruppo di affrontare la crisi. La differenza con il passato  sta nel fatto che la reazione di “attacco o fuga” davanti a un pericolo non è sufficiente per risolvere problemi complessi.  Tutte queste nostre risposte al pericolo che non sono razionali ma provengono dal profondo delle nostre emozioni e del nostro inconscio vengono puntualmente sfruttate dalla comunicazione politica che si concentra sulla creazione di un comandante (o capitano) taumaturgo raffigurato come l’unico in grado di dare protezione.  Quando la discussione muore e ci si abbandona al potere o al capo popolo di turno per chiedere protezione, non ci sono alternative da valutare ma solo cieca obbedienza. Quando non c’è scelta e le alternative si impongono, non c’è libertà e con essa la democrazia. In una situazione del genere, lo stato non può che assumere dei tratti sempre piú autoritari dove l’individuo é chiamato a conformarsi. Ogni crisi che genera paura, non importa la natura (politica economica o sanitaria), riporta gli uomini allo stato di branco che deresponsabilizza i singoli componenti che non sono tenuti a pensare per se.

Questa pandemia accelera un altro processo che sta incancrenendo le democrazia: il deterioramento della nostra relazione con la verità. Abbiamo già evidenziato in “La verità utile” come al giorno d’oggi un qualcosa è vero non perché rispetta il principio di non contraddizione ma perché serve alla nostra sfera emotiva. Quello che cerchiamo non è una verità assoluta, arida e immobile ma una “verità utile” che è fluida, relativa ma soprattutto confortante. In altre parole crediamo solo a quello che ci fa sentire meglio. Internet viene usato come mezzo per trovare tutto quello che conforta la nostra visione del mondo che è usata come unico criterio per dividere il vero dal falso. Per questo motivo, le varie bufale sono pericolose in quanto erodono la democrazia. Innanzitutto non ci può essere un confronto di idee se ognuno si costruisce la propria verità con la conseguenza di aumentare il tribalismo in politica. Tribalismo che non è altro che una delle forme di quell’atmosfera di conventicola che “a forza di ripetere sempre le stesse formule, di maneggiare gli stessi  schemi mentali irrigiditi, si finisce, e vero, col pensare allo stesso modo, perché si finisce col non pensare piú” (Gramsci). Tribalismo che viene creato e rafforzato attraverso una comunicazione politica mirata a generare rabbia e sfiducia nella politica e nel sistema parlamentare. Questa pandemia ha scatenato una serie incredibile di teorie del complotto sull’origine del virus, su come gli stati si stanno adoperando alle spese di altri, di come i politici nascondano le cose etc. Queste fake news sono sicuramene generate da singoli individui al di fuori di qualsiasi organizzazione ma anche dagli uffici stampa di politici e probabilmente da stati che mirano a creare disordine. Nel momento in cui la gente soffre e muore negli ospedali, si usa questa sofferenza per creare divisioni. Non si tratta di errori o di leggerezza ma di una vera e propria strategia della tensione che avrà l’unico scopo di minare l’adesione spontanea della gente alla democrazia aumentando il desiderio dell’uomo forte per raggiungere il potere. Le fake news sono principalmente mirate a cambiare le emozioni delle persone e il cambio d’opinione è solo una conseguenza del primo cambiamento. Le fake news non hanno il fine di convincere le persone ma quello di cambiare la loro predisposizione emotiva nei confronti della realtá. Dopo aver buttato fango su tutte le istituzioni (Europee in primis),sulla politica e sulla scienza non rimarrà che  affidarsi all’uomo forte. Se il clima diventa rovente, nessuno è interessato minimamente a capire le posizioni dell’altro con il risultato che non ci può essere democrazia perché manca il confronto. Se a questo aggiungiamo le informative del ministero degli interni che parla di una situazione sociale esplosiva, a chi giova questo fiorire di notizie false? Questa strategia mira ad aumentare un già esistente divario tra governati e governanti creando uno spazio che ha bisogno di essere riempito da qualcosa di nuovo e la democrazia oggi sembra molto invecchiata.

Ci occuperemo nel prossimo articolo sul sovranismo che questa pandemia ha riportato ancora piú in auge ma qui mi soffermeró brevemente  ad alcuni suoi aspetti rischiosi per la democrazia che questa pandemia tenda ad accentuare. Se dietro il sovranismo ci sono delle genuine preoccupazioni democratiche generate dalla natura poco trasparente delle istituzioni europee, dall’altra parte è diventato il vestito nuovo per nascondere l’idea di uno stato che tutto può. Non è un caso che estremisti di sinistra e di destra abbiano trovato nel sovranismo un nuovo brand con cui vendersi per dare un aspetto piú accettabile all’idea comune che l’individuo ha valore solo e soltanto all’interno dello stato. Il rimprovero principale che si fa alle istituzioni interazionali (non solo europee ma anche l’ONU) è quella di intromettersi nella sovranità di uno stato. Questa idea di sovranità come spazio chiuso a qualsiasi interferenza dall’esterno è un ritorno al diritto internazionale prima dell’affermarsi dei diritti dell’uomo dove gli stati avevano anche la libertà di massacrare i propri cittadini a loro piacimento senza che gli altri stati potessero interferire. Da qui nasce l’odio per le ONG che si adoperano, non in base all’obbedienza ad uno stato, ma all’osservanza di principi umanitari che sono al di sopra e indipendenti dalla volontà degli stati. Questa pandemia sta spingendo verso l’idea di uno stato senza limiti che può sacrificare e usare i singoli cittadini a suo piacimento per il raggiungimento di un “bene comune” che solo il potere ha la possibilitá di definire.

Queste e altre motivazioni sono ancora piú gravi se pensiamo alla mancanza di una serie di anticorpi che le democrazie dovrebbero avere. La democrazia riesce a superare queste crisi solo se ha un consenso forte attraverso una serie di anticorpi creati in tempi “normali”. Questo consenso è creato e puntellato dalla presenza di partiti rappresentativi e di uno stato sociale in grado di prendersi cura non solo degli strati sociali piú poveri ma anche dei ceti medi che costituisco il terreno su cui la democrazia pone le fondamenta piú importanti. Negli ultimi decenni, questo consenso era dato non tanto alle istituzioni democratiche ma all’egemonia dominante basata sul profitto e il consumismo. Era un consenso di natura economico che diventava filosofia di vita indipendente dalla politica che vedeva calare la partecipazione all’interno di una logica individualista. La crisi economica indebolirà questo consenso senza che ci sia un consenso alle istituzioni democratiche che lo possa sostituire. In questa maniera cade uno dei pilastri ideologici del neoliberismo che puntava al mantenimento della democrazia solo attraverso il “benessere” creato dall’economia. In un contesto politico come il nostro dove i partiti e tutta la democrazia parlamentare non godono di molta fiducia, i rischi sono dunque maggiori in quanto manca una macchina che crei consenso. Se a questo aggiungiamo la rabbia e la disperazione di buona parte della popolazione senza meccanismi efficaci che attenuino questo rancore sacrificati nel passato per far “girare l’economia”, la situazione ha tutti gli elementi per una svolta catastrofica per le nostre democrazie. Svolta che non è automatica ma la cui possibilità dovrebbe richiamare al senso di responsabilità non solo i politici ma tutti coloro che come  Spinoza ritengono che il fine dello stato non è quello di creare automi ma costruire uomini liberi.

I pieni poteri di Orban

Orban per anni è stato uno degli alfieri del sovranismo contro l’Europa accusata di essere poco democratica chiudendo un occhio o giustificando quello che accadeva in Ungheria. Ogni volta che l’Europa provava a mettere in riga Orban evidenziando i tratti autoritari della sua politica, veniva accusata di ingerenza e di poco rispetto della sovranità del popolo ungherese. Orban era una specie di “campione” della democrazia contro la tirannide dell’Europa. Oggi Orban si prende i pieni poteri a tempo indeterminato, dimostrando due cose:

1) la democrazia non è mai scontata. Il fascismo si adatta ai tempi e prende nuove forme. Pensare che il fascismo sia solo olio di ricino e bastoni significa sottovalutare il pericolo per poi trovarsi un giorno in un regime autoritario senza accorgersene. Magari un regime non cosi brutale come quelli del secolo scorso ma abbastanza per rendere ogni individuo soggetto al bello e cattivo tempo del potere.

2) De Andre cantava che “Però bisogna farne altrettanta (di ginnastica) per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni” Questo vale per i poteri  nazionali e per quelli internazionali. Non esistono poteri buoni ma esistono forme di controllo democratico che almeno non permettono a questi poteri di diventare dei mostri. Il sovranismo non significa automaticamente essere per la democrazia come ci viene solitamente propinato.. E’ vero che le istituzioni europee non sono pienamente democratiche, ma è allettando vero che tornare agli stati dove i popoli sono alle merce dei propri governanti non è automaticamente la soluzione. Le istituzioni sono scatole frutto dell’epoca in cui si vive e vanno riempite con la politica. Discutere solo di scatole senza parlare di politica, si rischia di farsi rifilare una scatola piena di sterco come il caso Orban dimostra

Da questo dovrebbe conseguire che dovremmo batterci per aspetti concreti del nostro vivere comune, dovremmo batterci per migliorare il livello democratico delle nostre istituzioni a livello nazionale e a livello internazionale. Questo significa battersi per aumentare la trasparenza, rendere i politici responsabili davanti ai cittadini, rinforzare tutte le funzioni di controllo, difendere la liberta di stampa sganciandola da poteri economici, limitare la finanza, ridurre i monopoli etc. Invece di far tutto ciò, abbiamo speso anni a buttare fango su tutto, abbiamo perso tempo in discussioni manichee dove tutto é bianco o nero (Europa si o Europa no) dimenticando gli aspetti concreti facendo il gioco di Orban che ci ha portato all’Ungheria di oggi. Domani probabilmente la Polonia? E dopo? Non dimentichiamoci che qualcuno chiese i pieni poteri sulle nostre spiagge l’estate scorsa, un qualcuno che ha sempre strizzato l’occhio a Orban. Quello che è accaduto in Ungheria dovrebbe essere un segnale per l’Europa di come questo virus non sia solo un’emergenza sanitaria ed economica ma é anche politica. Se non si trovano soluzioni comuni per far uscire i paesi dalle loro crisi, il continente ridotto a tanti nanetti rissosi rischia di tornare a tempi bui e di precipitare nella irrilevanza politica a livello globale. Ci vuole coraggio da parte di tutti, l’abilita di vedere le cose nel lungo periodo e politici che smettano di vedere le prossime elezioni ma statisti che pensano alle prossime generazioni.

PS: Si tende a giustificare la presa del potere di Orban con il fatto che il parlamento abbia approvatpo la cosa. Significa accettare che un parlamento eletto possa abolire la democrazia ritendo questa operazione democratica. Se si e democratici, non si puó accetare questa semplificazione. La democrazia non ha nulla a che vedere con la dittatura democratica né si puo limitarla al semplide voto. Anche Hitler ha preso i pieni poteri con il voto del parlamento. Una democrazia esiste  per garantire le opposizioni. La dittatura della maggioranza attraverso il voto in parlamento per sospendere i diritti della minoranza non ha nulla a che vedere con la democrazia…anche se il parlamento l’approvasse all’unannimitá. Una dmeocrazia rimane tale solo se si da alle persone la possibilita di cambiare idea e si da la reale possibilita ad un’opposizione di poter arrivare al potere.

Corona Virus e cultura dominante

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Nel precedente articolo abbiamo visto come il corona virus ha mostrato la debolezza del nostro sistema a fronteggiare un’emergenza per la mancanza di un’organizzazione forte che permetta l’adozione di misure in breve tempo. Gli strumenti che abbiamo a disposizione per fronteggiare la crisi sono figli di un modo di vedere il mondo dove il mercato è considerato l’unico regolatore della vita di tutti i giorni, in un’ottica di fine della storia dove qualsiasi dibattito che cerca di rimettere in gioco il ruolo dello stato viene tacciato di reazionario.  La storia ha le sue leggi che hanno mostrato la bontà di un sistema capitalistico dove lo stato può fare solo danni. Il corona Virus sta mettendo in chiaro i limiti di questa impostazione mostrando l’importanza dello stato per fronteggiare le crisi e per sostenere l’economia. Dopo il corona virus sarà difficile tornare in un mondo dove tutto viene lasciato al mercato, ma riconoscere l’importanza dello stato e permettergli un ruolo piú attivo nella vita economica e sociale non significa automaticamente cambiare radicalmente il sistema in cui viviamo.

Per cambiare il nostro modello di vita che ci permetta di affrontare crisi piú severe come quella ambientale ci sarà bisogno, non solo dell’intervento dello stato, ma anche di un cambiamento culturale. Sarà certamente necessario una maggiore regolamentazione della finanza, un maggiore intervento dello stato per rilanciare gli investimenti o una spesa maggiore nella sanità ma tutto questo servirà semplicemente a rimandare i problemi alla prossima crisi se non viene cambiata la cultura dominante.  Le politiche attuali non sono infatti frutto del caso ma riflettono il modo di pensare non solo dei politici ma anche della gente comune. La forza dell’ideologia dominante è nella sua forza pervasiva che la fa accettare da tutti anche da coloro che stanno pagando i danni causati. Solo così si può spiegare il fatto che anche in presenza di forti disuguaglianze sociali non c’è nessun accenno, non dico alla lotta di classe, ma neanche a rimettere in discussione la maniera in cui la ricchezza viene redistribuita o sarebbe meglio dire “non redistribuita”. In un contesto dove la mobilità sociale non esiste piú, tutto viene accettato senza fiatare. Nonostante questo sistema crei disuguaglianza, povertà estrema, rischi per il futuro da un punto di vista climatico e un peso enorme sulla salute mentale delle persone, tutto viene ovattato da una narrazione che ci vede vivere nel miglior mondo possibile. Basti pensare ai voti raccolti dal partito conservatore britannico alle ultime elezioni nelle fasce di elettori che avrebbero tutto da perdere con un prolungamento delle politiche di austerity. Anche il puntare il dito e l’attenzione politica verso chi ha meno rafforza l’adesione ideologica delle masse alla cultura dominante. Con l’attacco sistematico a immigrati, ai rom e qualsiasi pezzo di società non ritenuto produttivo, si fomenta uno spirito conservatore all’interno della società aumentando il rischio percepito del cambiamento. Il cambiamento viene visto come una perdita a favore di quegli ultimi su cui la politica punta il dito.

Tutta questa narrazione ha reso le nostre società piú egoiste convincendo tutti che è giusto pensare soltanto a se stessi in quanto la collettività è irrilevante per la propria felicità. Questo ritirarsi su stessi ha reso superfluo qualsiasi forma di partecipazione politicaconsiderata inutile anche nel bel mezzo di una crisi economica che richiedeva un cambiamento. A farne le spese è stata soprattutto la sinistra uccisa da una modernitàche ha dimenticato il concetto di solidarietà.  Fino a quando il profitto rimane l’unico motivo al centro della nostra attenzione, fino a quando l’individuo viene convinto che è l’unico artefice della propria felicità, fino a quando coloro che appartengono alle classi medio-basse sono convinti che il sistema è giusto e premia il valore delle persone, tutti i cambiamenti in ambito economico e politico saranno di natura superficiale e mirati solo a perpetrare la continuazione dello status quo. Se al termine di questa crisi ci accontentassimo di pensare allo stato come il bastone di un sistema claudicante, avremmo solo permesso al malato di fare qualche passo in piú fino alla prossima crisi. Il rischio è che un maggiore intervento dello stato diventi soltanto  una piccola concessione per rabberciare il sistema senza cambiarlo veramente sperando che possa rimanere in piedi il piú a lungo possibile senza affrontare i problemi piú profondi. Non possiamo solo accontentarci di una maggiore spesa sanitaria ma abbiamo bisogno di ripensare il capitalismo nella sua totalità. Solo cosi un maggiore intervento pubblico può essere efficace, non tanto per tenere in piedi il sistema produttivo, ma affinché questo sistema produttivo sia parte della soluzione dei problemi. Il rischio da evitare è una riproposizione dello scenario del decennio a seguito al 2008 dove l’intervento dello stato non ha cambiato radicalmente il sistema economico ma si è integrato all’interno della logica dominante che vede il profitto come unico scopo della vita sociale. L’intervento pubblico non è stato usato per aiutare gli ultimi o per migliorare la vita di tutti ma per correggere le esternalità di una finanza fuori controllo. Questo è stato possibile perché l’ideologia dominante é rimasta la stessa.

Il post 2008 è stato infatti una collezione d’interventi per tenere su il sistema senza la volontà reale di cambiarlo veramente. Un tentativo cociuto di difendere e tenere in piedi un sistema che non può reggersi e che aspettava semplicemente un’altra tempesta per poter cadere. Nonostante le promesse o i timidi cambiamenti, il sistema economico non è stato profondamente cambiato e la maniera rapida con cui si è tornati indietro (vedi Trump e le sue deregolamentazioni) sono una normale conseguenza del fatto che la cultura dominante è rimasta sostanzialmente la stessa. Le enormi difficoltà attraversate da tanti non hanno cancellato l’individualismo di fondo delle nostre società. Chi è rimasto escluso non ha trovato rappresentanza nella politica se non attraverso proteste estemporanee senza un progetto politico. Senza un cambiamento del modo di pensare, del concepire l’economia e della scala dei valori, gli scenari del post corona saranno gli stessi del post crisi finanziaria del 2008: una serie di interventi per prevenire il crollo di un modo di vivere che si regge in piedi sul dolore di tanti e posticipando al futuro tutte le grandi sfide che l’umanità deve affrontare. Perché nonostante il 2008 con il suo lascito di disoccupazione e sofferenza non ha generato un cambiamento del nostro modo di concepire il mondo?

Sicuramente il  fallimento del “socialismo reale” di stampo sovietico ha posto la questione della mancanza di un’alternativa valida ma questa è una scusa che non regge da sola per giustificare il tutto. Da una parte i modelli socialdemocratici europei dopo il secondo conflitto mondiale offrivano un punto di partenza, dall’altra è mancato anche il minimo tentativo serio di aprire un dibattito a livello politico sulle alternative in quanto la cosa interessava poco alla gran parte degli elettori. A questi interessava inseguire i modelli di vita imposti dalla produzione culturale di massa. Questi modelli di vita sono una rappresentazione della felicità a cui noi essere umani siamo per natura propensi. Serie televisive, pubblicità e il cinema hanno imposto un unico modello di felicità che passa dal consumo. Si è felici se copio un modello a cui tutti aspirano; sono felice se consumo. Piú grande sarà la mia capacità di consumo, piú grande sarà la mia felicità. Una visione a breve termine che mette in primo piano la capacità di consumo. Tutto è stato trasformato e inserito in un ottica consumistica. Qualsiasi attività umana é stata in qualche maniera “corrotta” dal consumismo che richiede sempre una spesa per ottenerne il massimo soddisfacimento da essa.  In quest’ottica è normale chiedere meno tasse perché le tasse sono viste come un impedimento al consumo nel breve termine. Non importa se meno tasse significhi servizi pubblici scadenti (dalla sanità alla scuola), quello che conta è la possibilità di comprare oggetti che mi permettano di raggiungere il modello di vita che mi viene proposto anche se non verrà mai raggiunto. Questa visione unica della felicità è stata sfruttata da chi è al vertice della piramide per tagliare le tasse e i servizi sociali con l’appoggio anche di coloro che avevano tutto da perdere da queste politiche.

La forza di questa egemonia non dipende soltanto dalla forza con cui viene imposto nei media e dalla produzione culturale (tv, libri, cinema etc) ma anche dalla facilità con cui questa impostazione viene accettata. Tutti sono convinti di guadagnarci da questa impostazione del mondo che pretende meno tasse e ostacoli al profitto e al consumo. In un’epoca di scarsissima mobilità sociale, tutti sono convinti di poter arrivare al vertice con il lavoro e con il proprio ingegno (dal trading in casa o iniziando un’attività in proprio). Veniamo messi sempre a confronto con modelli di persone che si sono arricchiti  in breve tempo (da Zuckerberg a Bezos) con l’idea di fondo che questo sia possibile per tutti. La distinzione tra capitale e lavoro è sempre meno netta anche se la rendita da capitale produce ricchezza in maniera esponenziale se paragonata al lavoro che ormai spesso non permette nemmeno la sopravvivenza considerando la necessità di tanti di avere un secondo lavoro soprattutto negli USA. Questa distinzione sempre più labile dipende dall’azionariato diffuso permesso dalle piattaforme on line e dal fatto che tanti lavoratori hanno risparmi in fondi pensioni. Questo fa sì che chi ha tutto il vantaggio di vedere la tassazione sulle rendite tassate il piú possibile, si oppone a tutto ciò per la paura di vedere di perderci qualcosa.  In questa ottica sono da considerare ormai parte del proletariato moderno, non solo i lavoratori dipendenti, ma anche i tanti lavoratori autonomi che vedono qualsiasi forma di retribuzione o intervento statale come una minaccia al loro benessere. Costoro invece di chiedere dei limiti al potere dei grossi gruppi,  una maggiore tassazione delle grosse rendite, una chiusura delle tante scappatoie che permettono a tanti di evadere le tasse (con la relativa concorrenza sleale) danno forza a coloro che domandano una riduzione delle tasse e sono contrari a qualsiasi forma di redistribuzione sotto forma di maggiori servizi. Questo non avviene solo in Italia dove esiste il problema di una tassazione pesante dovuta al debito pubblico e all’evasione ma anche in quei paesi dove le tasse sono basse ma non ancora basse abbastanza per soddisfare la dipendenza dal consumo come negli USA e in Gran Bretagna.

Il tutto viene anche facilitato da una maniera pseudo-scientifica con cui viene presentata l’economia. La felicità viene prima interpretata come ricchezza monetaria dal pensiero dominante e poi misurata e tradotta attraverso numeri. Un’impostazione che misura aridamente il benessere e la felicità  in terminai di PIL e prezzo delle azioni ma non tiene in considerazione il benessere effettivo delle persone. La felicità e il benessere misurata in chiave monetaria non solo permette di essere misurata ma permette di misurare l’efficacia delle politiche governative. I politici sono dunque chiamati a concentrarsi solo sui quei numeri (PIL, riduzione del debito, potere di acquisto) ignorando tutto il resto anche tutto quello che contribuisce al benessere delle persone che non può essere misurato. Anche quando ci sono statistiche comparabili come posti letti, dottori per famiglia, alunni per insegnanti non hanno lo stesso impatto dei dati puramente economici. Non tutti hanno bambini a scuola o hanno bisogno di cure o di protezione sociale.

Il corona virus ha messo in evidenza gli aspetti paradossali di questo modo di pensare che mette il profitto in primo piano. In questi giorni abbiamo sentito di tutto, da rappresentati repubblicani dire di essere disposti ad aprire tutto con il rischio di far ammalare gli anziani piuttosto che fermare l’economia a giornalisti dire: “743 morti nelle ultime 24 ore, ma volano le borse”. La pandemia ha anche mostrato la natura fondamentalmente neoliberista del sovranismo di destra che viene visto da tanti come un antidoto ad esso. Questa è una dimostrazione di come la cultura dominante se non cambiata ha la capacità di modellare e modificare a sua immagine e somiglianza anche modi di pensare che nascono per ostacolarlo. Il sovranismo di destra si sta dimostrando semplicemente come una delle tante forme che il neoliberismo assume per mutare e adattarsi alle situazioni. Trump che vorrebbe tornare alla normalità produttiva come nulla fosse mettendo a rischio la vita di tanti americani per proteggere l’economia e vincere le elezioni la dice lunga sulla sua natura. Anche Johnson per giorni ma messo la vita dei cittadini davanti a rischio per non fermare l’economia preparando i britannici a perdere i propri cari. Bolsonero continua a dire che il corona virus sia una specie di invenzione dei media mentre Salvini voleva aprire tutto per non fermare l’economia 2 giorni dopo che la Lombardia fu messa in quarantena. Non è un caso che tutti questi personaggi negano il riscaldamento globale, non perché non sono convinti che esista, ma semplicemente perché è visto come un ostacolo ad un’economia che può solo crescere e portare benessere. Un’ idea di vedere l’economia senza esternalità. Se ci sono esternalità, sono di poco conto come la vita degli anziani americani da sacrificare al dollaro. Questi sono i cosiddetti leader che combattono le élite per il popolo ma nel momento delle scelte si dimostrano per quello che sono: una variante dell’ideologia dominante. Se vogliamo dare un futuro al nostro pianeta, é necessario cambiare il modo di pensare.

Se ci si pone il problema di sostituire l’ideologia dominante, si propone naturalmente il problema di come sostituirla. Quale ideologia alternativa usare? Quale visione alternativa di mondo possiamo proporre? Certamente parte di questa visione vedrà una maggiore responsabilità dell’individuo nei confronti della propria comunità (coscienza nazionale) e una maniera di vedere il mondo che non è ristretta alla ricerca della felicità personale sganciata dalle sorti del mondo. Questo porterà ad una maggiore attenzione verso l’ambiente, le future generazioni e un apprezzamento dell’importanza dei servizi pubblici: dalla scuola alla sanità, dai trasporti ai sistemi pensionistici. Questo nuovo modo di vedere le cose imporrá degli obbiettivi politici al di là dei freddi numeri della macroeconomia, Possiamo solo delineare gli aspetti generali che noi vorremmo ma non sarà mai possibile creare un’ideologia alternativa a tavolino. Non si tratta di sognare il mondo che verrà sganciandosi dalla realtá perché anche se potessimo calare dall’alto una nuova concezione del mondo per magia, non é detto che questa funzioni. Non possiamo pensare  che sia una lezione da imparare e poi mettere in pratica. Non si tratta di fare un elenco di nuovi comandamenti ma di creare un nuovo “modus operandi” che venga accettato e implementato dalle persone senza accorgersi. La forza delle ideologie dominante sta nell’accettazione da parte della società e nella sua capacità di funzionare e di far muovere il mondo. Questo significa che esse si sviluppano dalle contraddizioni generate dal presente. Esse si sviluppano per risolvere queste contraddizioni e dare al mondo un autonomia di moto, ovvero una forza che spinge i singoli individui e le varie parti della società ad operare in una certa direzione. Il collasso del mondo comunista si può spiegare anche nel fallimento dell’adesione nei valori imposti dall’alto. Questo fallimento implicava un sempre maggiore intervento dello stato controllare e obbligare i suoi cittadini a svolgere il proprio dovere. Una volta finita la fiducia nei vari regimi (corruzione, problemi nell’approvvigionamento, incoerenza dei vertici di partito in barba agli ideali proposti) è finita anche l’adesione spontanea e l’ethos che porta a fare tutti il proprio dovere permettendo il funzionamento di quello che gli anglosassoni chiamano “social fabbric”. Il blocco comunista non poteva piú competere con i sistemi capitalistici che non dovevano preoccuparsi di mettere in piedi un sistema di sorveglianza massiccio. Nell’occidente, l’adesione era piú o memo spontanea dove una massa critica di persone si muove prevalentemente alla ricerca dei mezzi che permettano il consumo. Consumo non solo limitato ai beni di prima necessità ma anche a tutta una serie di servizi e beni aggiuntivi che costituivano la manifestazione della propria felicità. Il profitto e il consumismo costituiscono l’ethos della nostra società contemporanea che ne permette il funzionamento. In un sistema dove dipendiamo gli uni dagli altri, dato che nessuno é in grado di produrre tutti il necessario per se, quest’ethos spinge tutti a svolgere la proprio funzione economica (non sufficiente per se) senza la necessità di un apparato di controllo con tutti i suoi problemi in termini di costi, adesione sociale e ostacolo all’innovazione. L’adesione spontanea permette ad ognuno di svolgere la propria funziona limitata avendo fiducia che tutti faranno lo stesso, garantendo al sistema di funzionare e fornire non solo il necessario ma anche quello che permette di raggiungere la propria felicità. Questo modo di organizzare e animare il sistema economico sociale ha creato delle contraddizioni con i suoi eccessi. Il problema ambientale, le migrazioni, la scarsità delle risorse, l’impoverimento dei servizi sociali erano tutte contraddizioni che fino ad oggi non sono state sufficienti a chiedere una rielaborazione, non solo del sistema economico, ma anche dell’ideologia dominate. Tutte queste contraddizioni erano subite da altri o viste lontane nel tempo e non generavano l’urgenza che permette i cambiamenti. Il corona virus e i problemi da esso generato stanno creando l’urgenza ma soprattutto rendere evidenti la contraddizioni del sistema anche a coloro che non hanno avuto problemi ad ignorarlo. Il corona virus puó mostrare come esista una differenza di interessi tra il vertice della piramide e il resto. Il fatto che il prezzo economico verrà pagato soprattutto dai ceti meno ambienti, la realizzazione che i sistemi pubblici servono soprattutto a chi non può permettersi assicurazioni sanitarie, il vivere confinato in piccoli appartamenti può mettere in crisi l’adesione al modello dominate da parte di chi lo subisce. La pandemia ha messo in evidenza per esempio la contraddizione tra profitto e la vita (prezzo delle mascherine, tagli alla sanità). Certamente il dibattito sull’ILVA e sulla salute della città di Taranto avrà tutta un’altra ampiezza a livello nazionale quando tutti hanno sperimentato la contrapposizione tra salute ed economia. Il fatto che la propria salute dipende da strutture pubbliche e dall’osservanza degli altri della quarantena, metterà in crisi la convinzione che ognuno è il solo responsabile della propria felicità. Dopo aver rifiutato gli immigrati visti come minaccia alla propria felicità, il fatto di trovarsi nella posizione di bisogno cambierà l’approccio verso gli ultimi che potrebbe spingere verso una maggiore solidarietà. La consapevolezza che il virus colpisca le ragioni piú inquinate impone la necessità di pensare in maniera seria alla qualità dell’aria etc L’urgenza e il vasto impatto di questa pandemia obbligherà a fare delle considerazioni per superare queste contraddizioni. Il corona virus ha reso palesi i limiti del nostro vivere non permettendo piú di continuare come nulla fosse. Nascondere la polvere sotto il tappeto non potrà piú essere un’opzione. Questa pandemia è uno spartiacque nella storia politica ed economica.

Purtroppo non c’è solo una maniera di andare oltre e c’è il rischio di tornare indietro in tanti aspetti. Da una parte ci saranno sicuramente i tentativi di imitare il post 2008 per limitare le contradizioni e dall’altra parte un cambiamento radicale per limitare la libertà silenziando questi contrasti. Non dobbiamo dimenticarci che il fascismo fu usato dai vertici politici ed economici come risposta alle contraddizioni generate dalla prima guerra mondiale e da un sistema economico che teneva gli operai appena sopra il limite di sussistenza e che si stavano organizzando per porre fine a questi contrasti a loro vantaggio (biennio rosso). Per questo motivo è necessario fare politica non solo per governare il paese ma soprattutto per affermare un modello alternativo di pensare. Soltanto attraverso la politica e la partecipazione sarà possibile prima mettere i sedimenti di una cultura alterativa e poi stimolare la crescita fino a farla diventare egemonica. Soltanto con il dibattito e il confronto, possiamo sviluppare prima un modo di pensare che possa essere accettato da tutti e che poi permetta di affermare un ethos collettivo che consenta alla società di funzionare. Non si tratta di eliminare completamente il profitto e il consumismo dall’orizzonte delle persone ma bisogna far in modo che questi non siano l’unico metodo di valutazione delle cose e unico modo di concepire la felicità. Non si tratta di costruire da 0 un nuovo modello di vita con tutti rischi che comporta come ampiamente evidenziato da Popper nella sua distinzione tra “piecemeal social engineering” e “Utopian social engineering” ma accelerare un cambiamento spontaneo generato dalle contradizione che porti a cambiare il modo di fare e pensare l’economia e la politica. Importante sarà il ruolo degli intellettuali e dei partiti politici nell’influenzare il dibattito politico e imporre un’agenda affinché non venga lasciata alla rabbia, al catastrofismo e alla voglia di affidarsi al salvatore della patria che si prenda la responsabilità di risolvere tutto. Dopo anni dove c’era a disposizione c’era una sola strada imposta dal neoliberismo, questa pandemia si presenta come un incrocio dove possiamo scegliere la direzione da prendere per i prossimi decenni, dove possiamo finalmente prendere in considerazione altre motivazioni per decidere la direzione. Il rischio è che si possa prendere la direzione sbagliata e fare marcia indietro in tante cose. E’ importante esserne coscienti ed essere preparati sapendo che chi vuole distruggere è sempre avvantaggiato su chi vuole costruire.

 

 

Corona virus e ruolo dello stato

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Il corona virus avrà un impatto notevole non solo sull’economia ma anche sulla politica. La pandemia può rivelarsi un vero e proprio spartiacque tra un prima e un dopo dove tutto viene messo in discussione alla luce della nuova situazione. Una volta  quest’incubo sarà finito (speriamo il prima possibile), quattro temi saranno al centro del dibattito politico che avranno un’interpretazione diversa alla luce di questa epidemia:

Partiamo dal primo punto. Il corona virus ha messo a nudo le debolezza delle politiche liberiste che per anni hanno ridotto all’osso il ruolo e il peso dello stato nel nome della crescita economica. Alla luce di queste politiche lo stato veniva dipinto come un mostro che andava fatto morire di fame tagliando la spesa pubblica e privatizzando il piú possibile. All’interno di un’economia internazionale senza regole, era necessario ridurre le tasse per permettere la competitività delle aziende sui mercati internazionali. La riduzione delle tasse era una manna per i capitali e per chi li possiede ma una maledizione per chi deve contare sui servizi pubblici ridotti sempre piú all’osso. Questo modello di organizzazione sociale conta sul fatto che tutti sono guidati dal profitto e questo muoversi unanime nella stessa direzione migliora la vita di tutti, permettendo di risolvere i problemi grazie alla sua forza di adattamento alle circostanze. Il profitto spinge le persone a dare il proprio contributo alla società alzandosi al mattino e andando al lavoro. La flessibilità e il decentramento dei centri decisionali, non piú nello stato ma nelle singole aziende, presuppone l’immediata identificazione di problemi e la sua soluzione. Le disuguaglianze create non sono un problema per se ma il premio a chi dimostra di essere piú intraprendente. L’ideologia dominante celebra il ricco e punisce il povero con l’esclusione sociale. Un’ideologia dominante che non invita al cambiamento ma all’adesione con l’illusione che tutti possono diventare ricchi con il proprio impegno. Il sistema si auto regge grazie ad una costante analisi dei rischi e dei problemi che impongono decisioni razionali agli attori economici che spingeranno verso la soluzione migliore dei problemi senza aspettare che intervenga lo stato con la sua lentezza e le sue distorsioni che creano solo ulteriori problemi. Il profitto diventa dunque la stella polare che tiene un’organizzazione unita e funge da  motore per garantire il suo funzionamento. La società è come una specie di grande alveare che ha il mercato come ape regina dove tutti lavorano per conto proprio ma alla fine contribuiscono a rendere quel formichiere piú grande e ricco. Lo stato al massimo è tenuto solo a punire i comportamenti devianti che sfuggono a questa logica.

L’undici settembre e la crisi del 2008 avevano mostrato i limiti di questa impostazione ma non abbastanza per sconfiggerla definitivamente. La minaccia del terrorismo islamico ha aumentato il ruolo dello stato ma purtroppo solo da un punto di vista della sicurezza. Lo stato è cresciuto ma solo per limitare le libertà individuali senza intaccare profondamente l’organizzazione del sistema economico. Lo stato è stato rivalutato ma solo nella sua funzione securitaria. Un ritorno al leviatano di Hobbes che vede nel mantenimento dell’ordine l’unica funzione dello stato dimenticando altri ruoli che esso ha assunto nel corso dei secoli, soprattutto in campo economico e sociale. Lo stato invocato per difendere la tradizione democratica dell’occidente è in realtá solamente un paravento ideologico.  Quello che contava era dare una parvenza di sicurezza necessaria a tenere in piedi un sistema economico basato sul consumismo in quanto la paura del futuro non spinge al consumo. L’undici settembre aveva fatto intravedere la possibilità di realizzare il “sogno” di un mondo dove le masse sono rese totalmente inerti nei confronti della politica all’interno di un sistema che protegge non solo il potere ma anche la capacità di arricchirsi sempre piú da parte di chi  è al vertice della piramide. Se anni di cultura dominante avevano fatto passivamente accettare la bontà di un certo sistema capitalistico, era necessario anche una forma di controllo maggiore che limitasse la capacità organizzativa di chiunque. La scusa delle leggi antiterrorismo diventava un pretesto per controllare e monitorare anche chi aveva un’agenda lontana dal terrorismo islamico ma pur sempre non allineato al pensiero dominante.

La crisi del 2008 aveva invece messo in dubbio l’idea del mercato che si regge da solo e della sua capacità di autoregolarsi e risolvere i problemi. L’idea era già sbagliata da un punto di vista filosofico in quanto ammetteva che un essere imperfetto come l’uomo possa creare qualcosa di perfetto come il mercato. Per anni abbiamo tagliato investimenti pubblici, elogiato il privato e sminuito l’importanza dello stato nel nome di teorie economiche basate su modelli economici che non prendono e non possono prendere in considerazione un aspetto della personalità umana: la sua parte irrazionale. Questi modelli economici vedono infatti l’uomo come attore economico che agisce sempre in maniera puramente razionale. Non prendono in considerazione il fatto che l’uomo non sempre agisce in questa maniera ma è spinto anche da motivazioni che esulano da qualsiasi analisi di tipo cartesiano. Uno di questi sentimenti è la paura generata dall’incertezza. Paura che si riflette nel blocco dei consumi privati, nel blocco negli investimenti, nel crollo verticale dei marcati finanziari o piú semplicemente nella corsa all’approvvigionamento nei negozi che pone problemi all’ordine sociale componente fondamentale di qualsiasi sviluppo economico.

L’ultraliberismo aveva inoltre mostrato alcuni aspetti del capitalismo già identificati da Marx, quei germi che lo portano all’autodistruzione. La concentrazione del capitale in poche mani e l’impoverimento sempre piú delle classi medie avevano creato un forte indebitamento dei privati che ha reso il sistema economico debolissimo. Il neoliberismo nascondeva infatti un’altra contraddizione di natura filosofica. Il modello economico-culturale dominante non può contemplare limiti alla crescita anche vivendo all’interno di un mondo finito. I danni all’ambiente, la riduzione delle risorse, la capacità di consumo e i limiti umani di natura psicologica sono tutti elementi che pongono limiti all’infinità della crescita generando crisi cicliche. La capacità di consumo dei privati non è in grado di assorbire la sempre crescente efficienza produttiva soprattutto quando il potere di acquisto delle classi medie e proletarie si restringe. Tutto questo facilita un sistema che punta alla diminuzione dei prezzi delle merci e dei servizi ponendo maggiore pressione al contenimento dei salari. Il caso piú emblematico sono gli Stati Uniti. Le statistiche dimostrano come la gran parte della ricchezza finisce nella rendita mentre il potere di acquisto dei lavoratori non cresce quanto la produttività. Se produrre e vendere non basta a soddisfare la crescente voglia di arricchirsi, allora si trasforma la finanza, da un mezzo al servizio dell’economia reale, in un immenso casinò globale che crea fortune puntando sull’illusione che promette meglio. Un sistema come questo arriva prima o poi ad un punto di crisi. La crisi finanziaria del 2008 aveva giá dimostrato l’incapacità della finanza di auto autoregolarsi dando vita a sofisticati “Schema Ponzi”, una colossale economia su carta scollegata dall’economia reale basata solo sull’ottimismo e la fiducia nel futuro. Quando questa speranza nel futuro viene meno, tutto crolla perché non in grado di auto reggersi. Per anni abbiamo infatti vissuto in un immenso castello di carte con un equilibrio precario dove l’economia reale passava in secondo piano e chiamata a reggere il peso spropositato di una finanza che aveva la pretesa di avere una vita propria. La finanziarizzazione dell’economia è il classico gigante dai piedi di argilla. Un’immensa ubriacatura che si basa sulla fiducia di una crescita perenne e che è costretta ad adottare un ottimismo forzato per tenersi in piedi. Ottimismo che serve per continuare a spendere e a far crescere il valore delle azioni. Un continuo girare la testa per non vedere i problemi che questo sistema crea non solo all’ambiente ma anche alla società. Se gli americani fanno la fila per comprare le armiin tempo di pandemia è anche per difendersi dalla moltitudine di poveri che possono diventare una minaccia in caso il sistema non sia piú in grado di mantenere l’ordine.

Cosi come per i profeti del capitale, anche per i profeti del socialismo la storia si è mostrata però poco ubbidiente alle leggi che gli uomini le vogliono imporre. Il capitalismo non è crollato nel 2008 e il socialismo non è nato dalla sua crisi. Il sistema non è crollato per la capacità di recupero e adattamento (resilience) intrinseco del capitalismo e per il fatto che la cultura dominante è rimasta la stessa. (Ci occuperemo degli aspetti culturali in seguito). Il capitalismo ultraliberale considera lo stato una specie di carta jolly da usare in tempo di crisi.   Come nel 1929,  a salvare il capitalismo nel 2008 è stato lo stato con interventi di natura finanziaria e regolamentativi. Nel 2008 ci siamo tutti scoperti socialisti come intitolò la rivista americana “Newsweek” ma il socialismo introdotto è stato di natura particolare. Un socialismo atto a salvare le banche e il mondo della finanza a scapito dei lavoratori. Un tipo di socialismo che ha aumentato il concentramento del capitale a scapito del lavoro come ampiamente dimostrato da Piketty nel suo ibro “Il capitale nel XXI secolo”. La soluzione trovata fu un altro giro della roulette immettendo denaro fresco attraverso gli interventi delle banche centrali (quantitative easing nell’area Euro per esempio). In poche parole, l’intervento statale fatto di salvataggi di banche, investimenti pubblici (piú negli USA che in Europa) e timidi tentativi di regolamentare il mondo finanziario ha tenuto in piedi il sistema a danno dei piú deboli. Intervento che ha fatto la felicità di chi detiene il capitale senza un impatto importante per l’economia reale in termini i salari, potere di acquisto, miglioramento della qualità della vita. Una socializzazione delle perdite attraverso l’intervento dello stato mentre si continuava a privatizzare e a distribuire in maniera ingiusta la ricchezza prodotta.

Alla luce del corona virus, le banche centrali stanno cercando di risolvere il problema nella stessa maniera ma questa volta rischia di non funzionare. Questa volta il tentativo sembra essere quello del giocatore di poker che chiede l’ultima mano che risolva tutto. Non bisogna sottovalutare la capacita di adattamento del capitalismo ma non penso che si possa tornare semplicemente a come nulla fosse. La paura generata dal virus é una paura che non riguarda solo i bilanci o chi rimane fuori dal mondo del lavoro. Il virus é un problema che riguarda tutti e sarà difficile giocare la carta della divisione dove gli interventi sono giustificati per tenere in piedi il sistema e difendere chi ha un lavoro a scapito degli altri lasciati senza rappresentanza. Questa crisi ha l’impatto emotivo del 2001 e la globalità degli effetti economici del 2008 e mostra in maniera equivocabile tutti i limiti di questa concezione del mondo. In particolare, questa crisi colpisce il sistema in due punti ideologici  fondamentali:

  • la capacità del libero mercato di risolvere i problemi collettivi
  • la sua capacita di autoregolarsi e mantenersi in piedi senza interventi esterni

Viviamo in un sistema privato di una spina dorsale capace di prendersi carico dei problemi collettivi che sono lasciati al mercato che guiderà le singoli api alla soluzione del problema. Quello che questa crisi dimostra è che il mercato muove solo verso il profitto e non verso la soluzione dei problemi e  le due cose non coincidono perché il problema diventa un’opportunità per fare profitto. Il costo delle maschere e dei disinfettanti o il costo dei tamponi negli USA sono un esempio di come il mercato di adegua immediatamente alle circostanze per creare profitto senza intaccare il problema o fornire un beneficio alle persone in difficoltà. Ammesso e concesso che il mercato si muova nella direzione della soluzione del problema e non solamente nella creazione del profitto, non è detto che la soluzione possa arrivare in tempo utile. Aziende farmaceutiche stanno per esempio lavorando per trovare un vaccino ma ognuna lavora per se senza condividere i propri risultati. Questo non vale solamente per il corona virus ma anche per i problemi ambientali. Il mercato non sta trovando soluzioni ma semplicemente sta sfruttando la situazione per produrre profitto sfruttando il problema: assicurazioni, vendita di sistemi di sicurezza, marketing ambientale per vendere piú prodotti etc. Seguendo il modo di pensare corrente, il mercato risolverà il problema del riscaldamento globale perché il petrolio aumenterà di prezzo a seguito dei limiti dei giacimenti. Questo renderà piú conveniente altre forme di energia senza tenere conto che quando questo accadrà può essere troppo tardi.

Un’intera società che basa la propria organizzazione sul mercato, riducendo sempre piú il ruolo dirigista dello stato, è come una macchina a guida autonoma che non è in grado di sterzare. Fino a quando la macchina viaggia su un rettilineo tutto va bene, ma i problemi iniziano appena s’incontra un imprevisto. L’undici settembre, la crisi del 2008 e il corona virus hanno infatti mostrato l’incapacità delle nostre società a far fronte ad eventi eccezionali  che richiedono non solo investimenti a fondo perduto ma anche l’intervento rapido di un organismo centrale che non può che essere lo stato. Tornando all’esempio del veicolo a guida autonoma, il nostro modo di organizzare la nostra vita collettiva, basato sul mercato che si autoregola, ha mostrato i suoi limiti nel cambiare direzione in tempi brevi per evitare gli ostacoli. Al netto della sua natura (tema che discuteremo in seguito), la Cina sta uscendo uscita rapidamente dalla crisi creata dal corona virus grazie alla presenza di uno stato che non è stato smantellato nel nome di un’ideologia economica che prende in considerazione solo e soltanto il profitto.  La cultura dominante nell’occidente ha imposto il profitto e la ricchezza come unico valore e metro di giudizio di tutto quello che riguarda l’esperienza umana. Anche lo stato si doveva adeguare a questa logica liberandolo di tutto quello che non serve. Il problema è che il profitto ha una logica di breve periodo e rende ciechi perché non permette di prendere in considerazione nient’altro.  Seguendo questa logica, Trump aveva cancellato per esempio  il team che si occupava di contrastare le epidemie. Tutto questo rende le nostre società molto vulnerabili in quanto manca una forma di organizzazione efficiente capace di orchestrare una risposta nel piú breve tempo possibile. Se l’undici settembre aveva mostrato la necessità dello stato in termini di sicurezza, il corona virus rende palese la necessita dell’intervento dello stato da un punto di vista sanitario. Come l’undici settembre ha richiesto il ruolo dello stato per organizzare la difesa la sicurezza della gente, l’epidemia del 2020 dimostra come l’intervento pubblico sia necessario per la salute collettiva. Non si può fare affidamento solo ad un sistema sanitario privato che ha come principale obbiettivo il profitto e non la salute della gente. Non si possono tagliare spese sanitarie senza pagare pegno. Il corona virus è stato uno “stress test” per una sanità creata per produrre profitto o ridimensionata per non pesare sul sistema economico e il test è stato fallito. Tra la Spagna che requisisce le cliniche private, gli USA che non forniscono test perché troppo costosi, le difficolta del modello Lombardo che puntava sul privato e soprattutto il prezzo da pagare dall’assicurazioni private tutto porta a pensare che un cambiamento di rotta sia necessario. Sia chiaro, questo cambiamento sarà imposto non perché la salute della gente stia a cuore del modello dominante ma perché il sistema economico non si può permettere gente chiusa in casa.

La mancanza di una spina dorsale capace di addossarsi le responsabilità per far fronte agli imprevisto  riguarda soprattutto il sistema economico. Eventi straordinari come questo dimostra come poco razionale sia l’uomo come attore economico e come il profitto da solo non può bastare a riattivare l’economia. Quando il sistema è paralizzato dall’incertezza, si rende necessario l’intervento dello stato in chiave keynesiana per far ripartire gli investimenti perché il privato non sarà in grado di farlo attanagliato dalla paura e fortemente compromesso dalla crisi. Intervento dello stato che non può essere limitato soltanto agli investimenti ma che deve riguardare anche la questione della regolamentazione della finanza. Il mondo finanziario non può essere lasciato libero di organizzarsi come un immenso casinò ma deve tornare alla sua funzione primaria: finanziare l’economia reale. La finanza lasciata a se, non è stata capace di autoregolarsi neanche alla luce del 2008. La soluzione di pompare denaro fresco nei mercati ha semplicemente inflazionato i listini senza un impatto reale nell’economia reale in termini di qualità del lavoro e della sua retribuzione. Si è rimesso di nuovo in piedi il gigante con cambiamenti marginali ai suoi deboli piedi. La rivalutazione dello stato non può non passare dalla sua capacità di redistribuire la ricchezza prodotta per evitare società spaccate. Lo stato deve rafforzare quei servizi che costituiscono la spina dorsale su cui una collettività si regge e può contare in caso di emergenze. E’ illusori pensare infatti che il corona virus sia un avvenimento eccezionale per la sanità come il terrorismo islamico era stato per la sicurezza. La storia umana non è finita e il collasso ambientale proporrà altre sfide che non possono essere risolte senza un’organizzazione collettiva efficiente. Organizzazione collettiva che dagli albori dell’umanità ha permesso agli individui di affrontare le sfide comuni.

Se il corona virus ha messo a nudo ancora una volta i limiti del neoliberalismo, rischia però di farci passare da un eccesso all’altro. La tentazione potrebbe essere quella di svoltare verso uno stato autoritario che tenga insieme la società lasciando intatto il sistema economico cosi com’è. Se la crisi sanitaria che viviamo pone delle domande sul ruolo dello stato riporta in auge anche un dibattito sulla natura dello stato. La paura, il senso di smarrimento e la sfiducia nel sistema possono essere usate per imporre uno stato padrone. Ancora una volta, chi crede nella razionalità della storia come cammino verso la libertà come Croce pensava, dovrà fare i conti con una realtá che può considerarsi razionale solo e soltanto alla luce del pensiero dominante. Quel pensiero dominante che considerava razionale limitare lo stato nel nome del profitto. La storia non è razionale e il credere che lo sia è profondamente irrazionale. L’unica razionalità politica è non avere una fiducia cieca nel futuro ma convincersi che questo dipende dalle scelte nel presente alla luce di un’analisi e una riflessione sui problemi contemporanei. I tempi che viviamo impongono una riflessione non soltanto sul ruolo dello stato ma anche sulla sua natura

 

 

 

 

Corona virus e coscienza nazionale

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L’Italia è il paese senza rivoluzioni nella sua storia nazionale. Le rivoluzioni non sono soltanto un avvenimento storico o politico che impone un prima e un dopo nella storia di un popolo. Le rivoluzioni sono importanti perché formano la coscienza nazionale. Per coscienza nazionale non intendo un superficiale senso di appartenenza dietro un tripudio di bandiere e inni nazionali. Quello è buono solo per le greggi e per individui in cerca di vuoti da colmare. Quel tipo di coscienza nazionale è il nazionalismo caro a chi si crede superiore e pronto a strumentalizzare gli altri ponendoli contro altri poveri cristi. Un nazionalismo che serve per incolpare gli altri, nascondere le proprie colpe e assolvere sempre e comunque noi stessi e chi ci guida. Una vera presa di coscienza non rende ciechi davanti ai propri limiti e non cerca capri espiatori. Una vera coscienza nazionale si impone quando degli individui scoprono di avere non soltanto degli interessi individuali ma anche degli interessi e degli obbiettivi comuni a cui tutti si sentono chiamati a difendere e a collaborare per la propria realizzazione. Una partecipazione collettiva mossa non dall’obbligo ma da un dovere morale senza ricompense. Pur nel loro sincretismo, nella loro confusione e anche se non raggiungono tutti gli obbiettivi, le rivoluzioni servono a scoprire che non si è soltanto individui ma anche parte di un qualcoa di piú grande. Un qualcosa di piú grande in cui non si viene chiamati a sciogliersi, come richiedono gli stati totalitari, ma a partecipare con la propria individualità.

In una rivoluzione, delle vite parallele si coagulano dietro dei valori, o per forza della necessità, accorgendosi di avere degli interessi comuni. Le rivoluzioni trasformano un gruppo di persone in comunità dove ognuno ha delle responsabilità non soltanto verso le persone vicini ma anche nei confronti di una collettività piú grande con cui condivide un sistema politico. Le rivoluzioni sono mosse dall’azione politica collettiva che spinge ad agire verso un obbiettivo comune. Per natura gli italiani sono individualisti e poco reattivi alla necessita del rispetto del bene comune. Sono fatalisti e molto diffidenti nei confronti di qualsiasi forma di pensiero che impone di mettere da parte il proprio interesse a breve termine per un interesse comune a lungo termine. Il fatalismo ha la conseguenza di accettare gli avvenimenti politici come inevitabili mentre la diffidenza rende impossibile qualsiasi forme di presa di coscienza collettiva e di collaborazione per cambiare il corso degli eventi. Una storia nazionale, caratterizzata dal passaggio e coabitazione di tanti poteri visti sempre con diffidenza e come nemici, ha reso gli italiani allergici alle regole imposte da uno stato visto come lontano. In un orizzonte cosi ristretto, non rimane che affidarsi alla famiglia come forma massima di organizzazione collettiva.

Il corona virus può trasformarsi nella nostra rivoluzione nazionale dove prendiamo coscienza della necessità di prendere le nostre responsabilità nei confronti di una comunità piú grande. Avere un’esperienza traumatica comune può aiutare a creare un senso di appartenenza e di responsabilità degli uni verso gli altri. Il prendere coscienza che solo lavorando insieme e rispettando tutti le stesse regole si può uscire da questa situazione può aiutare ad avere piú fiducia nei confronti degli altri. Il non permettere e il non accettare che gli altri violano queste regole a danno di tutti crea quella sanzione sociale che é piú forte di qualsiasi legge. Quella sanzione sociale che non ti fa fare delle cose, non per paura della forza coercitiva dello stato, ma perché hai paura di essere isolato e ritenuto non desiderabile dagli altri. Ci si adegua alle norme, non per paura della punizione che grava in caso di violazione, ma per volontaria adesione mossa dalla comprensione dell’importanza della loro esistenza per il bene di tutti. Invece del solito girarsi dall’altra parte, una comunità che ha coscienza di se sanziona con l’esclusione chi viola certi comportamenti ritenuti anti-sociali. Forse si capirà che chi evade le tasse fa un danno a tutti sottraendo un posto letto agli ospedali invece di trovare giustificazioni e un apprezzamento piú o meno espliciti. Una comunità che prende coscienza degli interessi comuni pretenderà una classe politica all’altezza perché gli incompetenti sono dannosi per tutti e poco tollerante alla corruzione. Una comunità che si accorge di esistere esige a tutti la propria parte e non di chiudere ospedali e limitare lo stato sociale per non far pagare meno tasse a chi ha piú soldi di quanti ne può spendere.

L’Italia ha avuto nella sua storia molti eventi traumatici (le due guerre mondiali, il terrorismo, le bombe della mafia etc) ma nessuno di questo momenti è stato in grado di creare una coscienza nazionale duratura e profonda. Le divisioni politiche o la scarsa cultura hanno sempre rappresentato un ostacolo. La speranza è che queste settimane dove ognuno è chiamato a dare il meglio per se e per gli altri serva a creare uno spirito nuovo per mettere le basi per un futuro migliore.