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Prezzo del petrolio e gestione della globalizzazione

https://www.repubblica.it/economia/2020/04/20/news/borsa_20_aprile_2020-254497907/

Il crollo del prezzo del petrolio (e delle energie fossili in generale) non è un qualcosa di positivo come potrebbe apparire. Certamente non mi dispiace pagare meno la benzina e certamente ha i suoi aspetti positivi per i paesi importatori ma il crollo del prezzo ha un impatto molto piú vasto. Quest’impatto non riguarda solo le sorti delle aziende petrolifere o dei governi dei paesi produttori (non proprio dei difensori della libertà) ma per la causa e le ripercussioni di questo crollo. Il prezzo è la conferma di un sistema economico internazionale che si sta fermando con la relativa perdita di posti di lavoro. Il Corona virus si sta confermando non solo un’emergenza sanitaria ma anche economica con conseguenze che potrebbero avere un impatto duraturo sulla vita di tanti lavoratori. Se la causa é di per se terrificante, le conseguenze non sono da meno. Da un punto di vista ambientale è un disastro. Il basso prezzo del petrolio allontana la riconversione energetica rendendo il costo comparato delle energie alternative piú alto. Con un prezzo cosi basso non c’é nessun incentivo a investire in energie rinnovabili. I “produttori alternativi” di energia potrebbero essere messi fuori mercato a seguito di una domanda che volge verso il petrolio a poco prezzo. Domanda di forme di energie a basso costo resa ancora piú forte alla crisi che impone il taglio dei costi. Ulteriore dimostrazione di come la soluzione ai problemi ambientali non puó arrivare dai mercati ma richiede l’intervento della politica. Il prezzo del petrolio così alto rischia inoltre di creare instabilità economica e politica. Paesi produttori vedranno tagliate le loro entrate con conseguenze pessime sui loro programmi sociali che tengono i paesi in piedi. Molti paesi (soprattutto nel golfo e in Africa senza dimenticare il Venezuela e per certi versi anche la Russia) mantengono la pace sociale attraverso programmi finanziati dalla resa petrolifera e del gas. Questi paesi hanno spesso un’élite corrotta e ricchissima che tiene in piedi il paese non solo con la repressione ma anche attraverso programmi sociali. Con le minori entrate derivanti dalla vendite di materie prime, i programmi sociali sono a rischio rendendo la questione sociale esplosiva.

Il crollo del prezzo del pericolo potrebbe avere tra le sue vittime un paese che svolge un ruolo importante a livello economico: gli USA. Il paese americano ha un forte passivo nella bilancia commerciale. Una bilancia commerciale in negativo non può essere mantenuta a lungo senza una svalutazione della moneta con il relativo impoverimento del paese. Questo non accade per il dollaro perché Il passivo della bilancia commerciale americano è controbilanciato dalla richiesta di dollari proveniente dall’esterno del paese a stelle e strisce. Questa richiesta di dollari serve per acquistare strumenti finanziari  (azioni di aziende americani o titoli del tesoro statunitensi) e per comprare il petrolio che è prevalentemente venduto in dollari. Gli investimenti arrivano in buona parte proprio dai paesi che vendono petrolio i cui magnati diversificano il loro patrimonio attraverso l’acquisto di azioni a Wall Street. In poche parole, il sistema dollaro è un sistema di riciclaggio del surplus finanziario che aiuta non solo il dollaro a non deprezzarsi permettendo agli americani di vivere al di sopra delle loro possibilità ma è il sistema su cui si regge buona parte dell’economia internazionale. Questo sistema è stato descritto da Varoufakis come “Il minotauro globale”. Un sistema globale imperfetto di riciclaggio dei surplus finanziario che si é inceppato nel 2008 che può essere la causa di altre crisi finanziarie nel futuro.

Morale della storia? La situazione potrebbe richiedere la necessità di rispolverare una vecchia idea di Keynes portata avanti ai tempi di Bretton Woods: il Bancor. Una valuta bancaria sovranazionale all’interno di unione monetaria per dare credito ai paesi in deficit. In poche parole, un sistema economico si regge se il surplus finanziario viene reinvestito nei paesi in deficit per permettere a questi di continuare a sostenere le loro economie che sono poi i mercati di sbocco dei paesi in surplus. Il piano Marshall aveva creato un sistema di riciclaggio dopo il secondo conflitto mondiale.  La “cassa per il mezzogiorno” era uno strumento che permetteva questo all’interno del nostro paese. Il surplus finanziario del nord era investito nel sud che generava domanda per le imprese del nord. Un sistema del genere va creato all’interno dell’Unione Europea e i corona bond legati a un “nuovo green deal” possono aiutare la creazione di un sistema di riciclaggio del surplus finanziario a livello continentale. Questa é un’altra dimostrazione come un’economia globalizzata pone queste e altre sfide che non possono essere risolte da un ritorno puro e semplice stato nazione nato e frutto di un epoca economica diversa. A ogni epoca, le sue sfide. A ogni sfida, la soluzione che l’epoca richiede.

Corona Virus: tra Europa e sovranismo

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Il tema del sovranismo é uno dei temi politici che si é imposto alla luce della crisi generata dal Corona virus. Questa crisi sanitaria si sta dimostrando come il perfetto alleato dei sovranisti alla luce soprattutto della fatica europea di orchestrare una risposta comune. I singoli paesi sono andati in ordine sparso, ognuno spinto da una visione locale a breve termine e incapaci di pensare ad un obbiettivo condiviso. In questa maniera si sono accentuati soprattutto i contrasti tra i paesi invece delle ragioni comuni. Tutto questo è stato facilmente usato a uso e consumo di una propaganda superficiale mirata a generare rabbia nei confronti del progetto europeo. Anche quando vengono adottate delle misure in comune a livello continentale (BCE compra titoli di stato, allentamento delle restrizioni fiscali, sblocco dell’esportazione di materiale medico etc), queste non trovano risalto sui social dove la gente condivide solo e soltanto quello che si sposa con la rabbia corrente contribuendo a formare un’opinione pubblica ostile all’Europa.  Una propaganda fatta di vittimismo e sciovinismo mirata piú alla pancia degli elettori che alla visione di un futuro. Il dibattito politico così come viene condotto e vissuto dalla gente non ha nulla a che vedere con le ragioni del sovranismo o dell’internazionalismo.

Tutto il dibattito si è concentrato sulla questione europea in un dibattito polarizzato tra “Europa Si” e “Europa no” anche se la questione è molto piú ampia e non può essere limitata soltanto all’Europa. L’Unione Europea e i suoi limiti offrono la possibilità di personificare tutti i problemi che attraversiamo in un unico ente che diventa oggetto di scorno. Questo permette una semplificazione della realtá che può essere facilmente compresa e consumata dagli elettori. Al netto delle ragioni (alcune molto valide), il sovranismo è diventata la nuova formula con cui si manifesta la peggiore forma di nazionalismo. Questo non vuole dire che tutti i sovranisti sono nazionalisti ma bisogna riconoscere che tutti i nazionalisti sono sovranisti e che il sovranismo ha molti punti in comuni con il nazionalismo. Con il nazionalismo, il sovranismo ha in comune l’esaltazione di un passato dove le cose funzionavano. Un ritorno all’età dell’ora “pre Europa” dove ognuno era padrone a casa sua ignorando che la struttura economica è cambiata e non é possibile tornare indietro come per magia (ammesso e non concesso che questa età dell’ora sia mai esistita). Inoltre come per il nazionalismo, il sovranismo si popone come forma di autoassoluzione collettiva. Invece di guardare i propri limiti  e i propri errori per andare oltre, si usa il sovranismo per auto elogiarsi incolpando sempre gli altri delle proprie sventure. Nel nostro caso, l’Europa diventa la causa di tutto quello che non funziona e la soluzione dei problemi si riduce all’identificazione di un capro espiatorio buono per tutte le occasioni. Come sempre accade, si conoscono sempre i limiti della propria realtá ed è sempre facile mostrare tutto quello che non funziona soprattutto se paragonato ad un’alternativa non esistente nel presente ma creata in maniera perfetta nel mondo dei sogni politici. Si prendono i limiti dell’attualità e li si paragona con una realtá perfetta senza prendere in considerazioni le difficoltà nella sua costruzione e le costrizioni che la realtá impone. Diventa un esercizio dove il presente con tutti i compromessi, le impossibilità e le forze che lavorano in senso contrario viene sminuito e messo a confronto con un modello che prende in considerazione solo quello che fa comodo minimizzando tutti gli elementi che non si sposano con la visione ideale. Piú che un esercizio politico ancorato nella realtá diventa un esercizio di pura fantasia.

Per questo motivo possiamo considerare il sovranismo come una forma di utopismo politico. Utopico non nella sua attuazione (nel senso comune di irrealizzabile) ma nella maniera con cui affronta i problemi dove la soluzione è una sola per tutto. Una maniera utopica di affrontare le cose dove ci si concentra nel distruggere completamente il presente nel nome di un qualcosa tutto da costruire.  Come tutte le costruzioni politiche utopistiche, il sovranismo è probabilmente destinato al fallimento se messo in pratica come messo in luce da Popper nella sua distinzione tra “Piecemeal Engeneering” e Utopian engeneering” . Fallimento non nell’attuazione ma per le ripercussioni sulla vita delle persone. Come tutti i progetti utopistici, non può prendere in considerazioni tutte le variabili che un cambiamento radicale può scatenare. Cosi come nessun piano sopravvive al contatto col nemico (Gen. Helmuth von Moltke) , qualsiasi piano politico non sopravvive al contatto con la realtá. Una realtá fatta anche da individui che la pensano in maniera differente, persone o organizzazioni che non si possono controllare o i semplici limiti materiali. Al contatto con queste variabili, il piano utopico è destinato a essere modificato con il risultato di ottenere qualcosa di diverso senza essere sicuri che il risultato finale sia migliore. A questo va aggiunto il dolore che può essere generato nel tentativo di creare qualcosa di diverso dopo aver distrutto anche quello che funzionava nell’esistente. Questa è la ragione per cui tutti i grandi progetti di cambiamento radicale hanno fallito generando disastri per le persone che lo hanno vissuto. Davanti ai fallimenti generati dall’impossibilità di gestire tutte le variabili che i cambiamenti apportati generano, si finisce per incolpare chi la pensa diversamente accusandoli di essere traditori. Accusa non del tutto infondata perché qualsiasi costruzione politica ha bisogno del consenso per funzionare e se questo non può essere ottenuto lo si crea con la forza. Questa è la ragione per cui i grandi progetti utopici finiscono per instaurare regimi totalitari. Non a caso i sovranisti tendono a chiamare traditori tutti coloro che la pensano in maniera diversa da loro. In questa visione drammatica della politica, chi non si adegua é un ingenuo o una persona che ha svenduto il proprio paese. Una chiamata alle armi piú che alla riflessione, una maniera dogmatica di vedere la politica dove si ha la convenzione di avere la verità in tasca e gli altri essendo nel torto non hanno legittimità all’azione politica

Ammesso e concesso che il presente presenta una serie di difficoltà perché dovremmo insistere sulla via internazionalista? Perché dovremmo batterci per migliorare l’esistenza in maniera graduale invece di tornare al passato? Perché la via internazionalista dovrebbe essere preferibile al sovranismo?

Certamente non per una visione idealista della politica internazionale fatta di popoli in girotondo sotto l’arcobaleno. Significherebbe fare lo stesso errore dei sovranisti: paragonare la realtà ad un ideale perfetto irrealizzabile. La politica funziona partendo dai problemi del presente e non dai sentimenti, non importa se positivi come la fratellanza di popoli o negativi come l’odio. Una politica basata sui sentimenti li sdogana tutti, una politica animata solo e soltanto da sentimenti positivi giustifica l’uso in politica di tutte le emozioni anche quelle distruttive. La ragione principale per un Europa piú integrata è solo una e nasce dal presente che stiamo vivendo. Come osservato da Bauman, viviamo un’epoca di problemi globali che richiedono risposte globali e non locali. La politica come le istituzioni sono chiamate a risolvere i problemi dei nostri giorni se vogliamo una politica mossa dalla razionalità. I cambiamenti economici e tecnologici hanno reso il mondo sempre piú piccolo e questa è una delle conseguenze del modo di agire del capitalismo. Una delle costanti del capitalismo è stata la sua necessità di allargare la sfera della sua influenza non solo nell’ambito della vita umana ma anche da un punto vista puramente spaziale. Il capitalismo ha occupato tutte le attività umane riducendole ad una logica di costi e profitto ma ha anche imposto la sua filosofia in ambiti territoriali sempre piú ampi. Il capitalismo è nato nelle città (i comuni italiani) per poi svilupparsi a livello nazionale (l’epopea degli stati nazionali) e finire a livello internazionale. Questa caratteristica del capitalismo era ben tenuta da Marx quando descrive una prima globalizzazione avvenuta già subito dopo la rivoluzione industriale.  Il Manifesto del Partito Comunista è una descrizione di questo fenomeno quando parla del ruolo della locomotiva e dell’allargamento dei mercati e la conclusione di quel documento non poteva che essere “Proletari di tutto il mondo unitevi”. In un capitalismo diventato globale, la necessità di controllare e rimediare alle sue esternalità non può che essere globale. Questo approccio globale non riguarda solo la sinistra ma tutti coloro che in qualche maniera prendono coscienza che in un sistema economico globale, i problemi sono globali. Questo riguarda non solo l’economia in senso stretto ma altri ambiti come l’ambiente. Il singolo paese può decidere di applicare tutte le politiche ambientali che ritiene necessario ma questo risulterebbe inutile se per esempio il Brasile continuasse a tagliare le foreste. Inoltre la transazione ecologica comporta un costo insostenibile nel breve periodo soprattutto all’interno di un’economia globale fortemente competitiva. In un contesto che premia i paesi che mantengono i costi bassi, tutti aspettano che siano gli altri a fare il primo passo con il risultato che il pianeta e le prossime generazioni possono solo continuare ad aspettare.

Alla fine la visione sovranista e internazionalista può essere ridotta a due palazzi dove ognuno di essi ha un appartamento in fiamme. In un palazzo, i singoli inquilini pensano a se stessi assicurandosi che le porte e le finestre siano ben chiuse lasciando solo chi combatte le fiamme. Nel secondo palazzo, gli inquilini si aiutano a domare l’incendio e si assicurano che i pompieri vengano chiamati a soccorrere chi abita nell’appartamento in fiamme. Il primo palazzo viene completamente distrutto dalle fiamme mentre il secondo si salva limitando i danni. Il palazzo è il mondo in cui viviamo, gli appartamenti sono i singoli stati mentre i pompieri sono le istituzioni internazionali mentre l’incendio sono i problemi da affrontare. La pandemia è uno di questi incendi che il singolo paese non può risolvere da solo. Viviamo in un modo dove la gente viaggia da per tutto con scambi continui con la conseguenza di rendere una malattia subito globale. Nonostante l’economia sia diventata globale, la pandemia ha trovato l’umanità impreparata in quanto chiusa nelle logiche nazionaliste. Basta vedere i vari blocchi di esportazione su mascherine e macchinari medici o i tentativi di comprare vaccini per se stessi. Ognuno ha pensato al proprio appartamento mancando una visione d’insieme

Come applicare tutto questo all’Europa? Come possiamo da una questione di principio arrivare all’attuazione di politiche che funzionino in Europa? Sia chiaro, l’Europa cosi com’è stata costruita seguendo un canovaccio liberista negli ultimi decenni ha bisogno di essere cambiata per assicurare non solo il suo funzionamento ma per svolgere la sua missione storica: permettere la pacifica convivenza dei suoi popoli. Cambiare l’Europa partendo dalla realtá significa impegnarsi per migliorare le sue istituzioni rendendole piú trasparenti e democratiche. Significa permettere di uscire dalla metà del guado in cui ci troviamo. L’unione monetaria doveva servire come mezzo per spingere verso l’unificazione politica e invece hanno creato le perfette condizioni per attuare politiche neoliberiste dove l’intervento dei singoli stati nella vita economica sono stati limitati per lasciare libero il mercato di decidere sulla vita degli europei sulla base della peggiore competizione invece della solidarietà. Ogni paese è “libero” di organizzare il proprio stato sociale alla luce delle proprie sfide economiche a patto di osservare una serie di restrizioni finanziarie all’interno di un sistema fortemente competitivo che permette la libertà dei capitali e dei lavoratori. Questo crea delle condizioni che obbligano gli stati a rincorrere politiche di tagli alle tasse e allo stato sociale per permettere alle proprie aziende di essere competitive e attirare investimenti ed evitare che questi vadano in altri paesi. Il fatto di avere debiti pubblici separati significa mettere in competizioni tra di loro gli stati europei da un punto di vista delle politiche fiscali per conquistare la fiducia dei mercati e tenere bassi i tassi d’interessi senza la possibilità per la banca centrale d’intervenire nel breve periodo acquistando i titoli di stato direttamente dallo stato. I tagli allo stato sociale e la liberazione forzata di tutti i settori economici non è piú una scelta politica ma una necessità economica alla luce delle condizioni create. Questo significa che un singolo paese non può cambiare la sua politica autonomamente, non solo per i vincoli dei trattati ma anche per questioni economiche se non vuole che tutto il proprio settore privato collassi. Questa costruzione è molto fragile e destinata a vacillare alla luce di qualsiasi crisi come quella greca o come questa pandemia. Se la competizione rafforza singolarmente le imprese private, nel suo complesso il sistema è molto debole. Il mondo privato trova facile licenziare aumentando la velocita della spirale della crisi, il pubblico manca di mezzi finanziari per limitare i danni e ridare fiducia. Tutto questo porta ad una rapida contrattazione della domanda (pubblica e privata) che come una corrente di risacca trascina tutto con se. Se a questo aggiungiamo la montagna dell’economia finanziaria che si regge sull’ottimismo forzato,  il sistema funziona solo e soltanto in mancanza d’imprevisti. Per questo motivo, come abbiamo visto, questa crisi riporterà alla ribalta il tema del ruolo dello stato ma anche della sua natura.

Se tenere l’Europa nel mezzo del guado è vantaggioso per la finanza per la grandi imprese, il resto annaspa in un sistema che rischia di affondare ad ogni crisi. Il dibattito sul futuro dell’Europa è sostanzialmente animato da tre poli: chi vuole tornare indietro sulla riva di partenza, chi vuole completare la traversata verso un unione piú completa e chi vuole restare dov’é.  L’ultimo polo è meno rumoroso ma molto variegato. Ci sono coloro che non vogliono cambiare le cose perché traggono molti benefici dalla situazione attuale (basta vedere al tasso d’interesse negativo pagato dai tedeschi sui propri titoli di stato) ma anche coloro che assumono questa posizione per ragioni tattiche in maniera piú o meno cosciente aspettano che il tutto affondi per cosi tornare alla riva di partenza (la posizione pragmatica dei sovranisti quando arrivano al potere attraverso un gioco di veti incrociati tra di loro a livello europeo). Tutto il dibattito assume i contorni della classica battaglia d’identità che rende difficile qualsiasi forma di discussione dove i contrasti non sono generati da una diversa visione dell’Europa o del futuro ma da questioni nazionali: olandesi e tedeschi che non vogliono pagare i debiti dei paesi mediterranei contro gli italiani che lamentano un sistema creato a tutto vantaggio dei paesi del nord. In tutto questo dibattito sull’Europa, i sovranismi si evidenziano per una contraddizione di fondo che è il riflesso proprio di quello approccio utopico che abbiamo citato prima. I sovranisti pensano ad un Europa diversa senza dire quale nascondendosi dietro formule quali “Europa dei popoli”. In realtá il loro unico progetto è affossare l’Unione Europea e tornare ad un passato tutto da definire. La necessità di attaccare l’Europa sempre e comunque li porta a compiere delle vere e proprie piroette come nel caso di questa pandemia. I sovranisti si riscoprono sempre internazionalisti nei momenti di difficoltà accusando l’Europa di non far abbastanza. Ma questa critica non è mirata a cambiare e fare in maniera tale che l’Europa sia messa nella possibilità di affrontare le crisi. La morale della storia invece è di mostrare che l’Europa sia inutile e tanto vale fare da soli. Il bello di tutto ciò è che a bloccare l’Europa sono proprio i loro alleati sovranisti nei paesi che si trovano in una posizione di forza. Sovranisti che quando sono al governo bloccano le decisioni europee e quando sono all’opposizione diventano un limite a quello che i governo possono fare gridando alla svendita degli interessi nazionali. Il risultato finale è che i sovranismi si lamentano dell’inefficacia dell’Europa essendone anche una delle cause. Possiamo dire che un sovranista è come quel testimone di Geova che ha bisogno di una trasfusione di sangue ma che non trova donatori in quanto ha convinto tutti gli altri che donare sangue sia peccato. Siamo tutti sovranisti quando siamo in una posizione di forza e ci scopriamo di essere internazionalisti nel bisogno. Una politica dettata non da una visione del futuro, non dalla necessità di risolvere i problemi ma solo da una visione a corto termine per ottenere qualche vantaggio elettorale.

In questa maniera il dibattito non é piú sulle ragioni o meno del sovranismo contrapposta ad una visione piú internazionalista. L’intero dibattito gira sulla questione europea sotto il peso della cronaca giornaliera. In questa maniera si trascura la visione piú ampia e completa per ridurre il tutto ad una semplificazione che chiede di accettare o rifiutare l’Europa di oggi vista come simbolo dell’approccio internazionalista. L’Europa è come un ospedale che non funziona. Invece di pensare e discutere su come migliorare l’ospedale affinché funzioni meglio si discute se chiudere tutti gli ospedali sulla base di un singolo ospedale che non sta funzionando come si deve. Se tutti gli ospedali venissero chiusi e ognuno lasciato a se stesso avremmo un modo senza strumenti per risolvere i problemi globali. Un mondo alla deriva dove ognuno rema per se aumentando i problemi invece che risolverli. L’Europa può essere uno strumento per guidare la globalizzazione usando la sua forza economica per dare una direzione per evitare un “tutto contro tutti” dove alla fine tutti perdono mancando di una visione comune.

Eurogruppo: tra MES ed Eurobonds

Sotto il tiro incrociato di sovranismi opposti, l’Eurogruppo è arrivato ad un faticoso compromesso. Italia e Olanda, paesi che incarnavano le due linee opposte, cantano vittoria. Gli olandesi festeggiano il fatto che il documento finale non cita gli Eurobonds, l’Italia si sofferma sul fatto che le linee di credito aperte non sono alle condizioni originalmente poste dai paesi del nord e rimane aperta la questione su come finanziare il recovery fund, i 500 miliardi per il rilancio dell’economia che lascia ancora aperta la possibilità degli Eurobonds.

Al netto delle decisioni prese di natura economica che solo il futuro potrà confermare se saranno sufficienti, qualche considerazione politica si può fare:

  • La prima è che non esiste un blocco franco-tedesco. Per anni si è spacciata l’Europa come un mostro franco-tedesco che schiacciava gli altri. Il fatto che la Francia sia su posizioni opposte a quelle tedesche è un fatto positivo. Il peso politico ed economico dei francesi può dare alla discussione sul futuro dell’Europa una valenza diversa.
  • Il governo Italiano ne esce male da un punto di vista della comunicazione. Per giorni hanno portato avanti la linea dura del “Corona bond o morte” probabilmente per forzare la mano e ottenere il piú possibile sul tavolo della trattativa. Il fatto di non averli ottenuti, li espone alla propaganda dell’opposizione. Invece di parlare di quello ottenuto si parlerà soltanto del fatto che non ci sono i bond e dei finanziamenti via MES.
  • I sovranismo opposti sono il maggiore pericolo per gli uomini e le donne che vivono in Europa. Individui che prima di essere Italiani, Olandesi o greci sono lavoratrici, pensionati, mamme o imprenditori. La visione a breve termine, l’incapacità di una visione comune, una politica a uso e consumo solo della propaganda e una comunicazione politica che ha sempre bisogno di nemici rende molto difficile la possibilità di elaborare politiche efficaci perché oltre ai limiti materiali ci sono limiti di ragione elettorale
  • A furia di compromessi, l’Europa non ha futuro. Non si può pensare di andare avanti continuando a rabberciare un qualcosa che mostra tutti i suoi limiti per permetterle di sopravvivere fino alla prossima crisi. Non si può continuare a pensare all’Europa solo e soltanto in termini finanziari senza una discussione che completi quella visione da un punto di vista politico. L’unione monetaria doveva accelerare l’unione politica ma siamo ancora a metà del guado con il rischio di affondare perché non si ha il coraggio di prendere decisioni.

Molti di questi temi prenderanno una direzione o l’altra in base a quei 500 miliardi del recovery funds. Sarà una partita importante e si deciderà molto del futuro del continente. Alla fine, ieri si è cercato di mandare la discussione avanti con un compromesso temporaneo per darsi piú tempo. Quello che conterà non sarà solo come finanziarlo ma anche cosa finanziare. La riconversione dell’economia europea per avere un impatto ambientale minore (a new green deal) potrebbe permettere di trovare un accordo in quanto l’aria che respiriamo e il futuro delle prossime generazioni interessa tutti con gli stessi interessi in gioco.

Corona virus e democrazia

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Nei precedenti due interventi è stato messo in risalto come il corona virus abbia mostrato la debolezza del nostro sistema dopo anni di riduzione degli scopi e del peso dello stato. Un maggiore ruolo dello stato non è sufficiente a cambiare le cose ma è necessario un cambiamento della cultura dominante affinché il maggiore intervento dello stato miri, non tanto a mantenere in piedi un sistema claudicante, ma a cambiare il nostro modo di vivere. Solo in questa maniera saremo in grado di risolvere quelle contradizioni e quei problemi che caratterizzano la nostra società. Se un intervento dello stato sarà inevitabile, s’imporrà anche la discussione sulla natura di questo stato soprattutto da coloro che mirano a usare un maggiore intervento dello stato come mezzo per distruggere la democraticità delle nostre istituzioni. Se da una parte un maggiore intervento statale ci può aiutare ad affrontare meglio le sfide del futuro e creare una società piú giusta, lo stesso intervento può essere usato per limitare le libertà degli individui. L’aumento dell’intervento statale porterà inevitabilmente dei limiti alla libertà economica soprattutto in campo finanziario ma dobbiamo evitare che questo sfoci in un pretesto per una limitazione delle libertà politiche e della libertà dei singoli individui. Se una minore libertà economica è il prezzo da pagare per avere una società piú equa e stabile ed evitare che il nostro vivere sia travolto dalle crisi dei mercati, questo prezzo non può includere la fine della democrazia. Un maggiore protagonismo dello stato può essere accettato solo all’interno di un regime democratico garantendo il piú possibile le libertà politiche. L’inevitabile aumento del ruolo dello stato che seguirà questa pandemia non potrà che infiammare il lungo e difficile rapporto tra stato e individuo con un impatto sulla natura liberal-democratica delle nostre istituzioni. Un rapporto che insegue un equilibrio sempre cangiante in base agli sviluppi economici e tecnologici ma che va sempre cercato per evitare gli errori del passato. Credere ciecamente che lo stato risolva tutto è un illusione pericolosa, pensare che il potere politico sia sempre disinteressato e che miri al bene di tutti è ingenuo se non segno di stupidità politica, sacrificare sempre e comunque l’individuo agli interessi dello stato come incarnazione del collettivo è una ricetta per il disastro. Questa crisi offrirà l’opportunità a tanti per modificare non solo il rapporto tra stato e individuo in maniera schiacciante a favore del primo ma anche la natura dello stato in senso autoritario. Trovare un nuovo equilibrio tra stato e individuo capace di risolvere i problemi della nostra epoca all’interno di una cornice democratica sarà la sfida politica della nostra generazione. Un compito difficile non solo alla luce delle sfide ma anche dalla difficoltà storica di trovare un equilibrio tra questi due poli alla luce dell’esperienza politica.

Il rapporto tra stato e individui può essere infatti utilizzato come una delle chiavi per comprendere la storia politica del secolo scorso fino al giorno d’oggi. Gli stati nazionali sono entrati nelle loro rispettive rivoluzioni industriali con apparati statali molto semplici dove gran parte della spesa era mirata alla costruzione e al mantenimento dell’esercito. Diversi fattori sono intervenuti che hanno portato alla crescita sempre maggiore del ruolo dello stato. Prima di tutto la crescita dei movimenti operai con le loro rivendicazioni che hanno costretto ad un aumento dell’intervento statale nell’economia per rispondere alle loro esigenze. Il maggiore intervento statale non è però solo una conseguenza dei movimenti socialisti e comunisti. La crescita dell’industrializzazione dipendeva anche dall’intervento dello stato e questo non solo nei paesi dove mancava una classe borghese che ha richiesto un’industrializzazione forzata come in Russia e in Cina. L’intervento dello stato era il benvenuto anche da parte del capitale quando il privato non era in grado da solo di risolvere una serie di problemi che richiedevano una coordinazione e uno sforzo collettivo e non dalle singole entità economiche: formazione del personale attraverso la creazione di scuole professionali, infrastrutture, stimolo della domanda in tempo di crisi, creazione di standard etc.  Questo ruolo è andato via via crescendo con la creazione dello stato sociale e la nazionalizzazione di vasti settori economici. Il processo di continua crescita del peso dello stato nella vita economica e sociale è andato avanti (anche con i suoi eccessi tra cui possiamo mettere il fascismo) fino alla fine degli anni 70 per molti paesi occidentali. Negli anni 70 è iniziato via via una ritirata dello stato alla luce delle politiche neoliberali che hanno trasformato qualsiasi attività umana in un mezzo di creazione del profitto anche per quei settori che venivano tradizionalmente lasciati allo stato (sicurezza, istruzione e sanità in primis). Questa pandemia rappresenta dunque una nuova tappa politica che può cambiare la direzione della storia verso un maggiore ruolo dello stato ma rappresenta anche la piú grossa minaccia alle istituzioni democratiche negli ultimi 30 anni. Sarebbe pericoloso e stupido ignorare o sottovalutare i problemi che questo ritorno dello stato pone soprattutto riguardo il restringimento delle libertà personali in parte già anticipati dalla quarantena forzata a cui molti paesi hanno fatto appello per contrastare la diffusione del virus. Nel post 2008, i paesi occidentali hanno usato l’intervento dello stato per socializzare le perdite della crisi finanziaria senza dover cambiare la natura sostanziale dello stato continuando a garantire i diritti civili e politici. La compressione di questi diritti non si era resa necessaria per il mantenimento di un sistema iniquo data la debolezza delle forme organizzate della società civili (sindacati e partiti in primis) e per l’accettazione dell’ideologia dominante da parte di gran parte delle persone. L’apparato egemonico era rimasto intatto attraverso l’adesione della stragrande maggioranza dell’informazione e della politica concentrata a discutere di tutto tranne che mettere in discussione il nostro modo di vivere. Come abbiamo visto, questa pandemia ha il “merito” di esporre le contraddizione di questo sistema dove la salute e la vita delle persone viene messo a rischio da una logica capace di guardare solo al profitto. Non si potrà piú continuare a fare finta che Il profitto e il consumismo non portino danni o riguardino parti lontane nello spazio e nel tempo. Le conseguenze di anni di smobilitazione dello stato sociale e della sanità avranno un impatto su tutti cambiando la maniera in cui viene percepita un’economia che mette il bene comune in secondo piano. A questo va aggiunto la crisi economica che seguirà, con il suo aumento di disoccupati e ulteriore impoverimento del ceto medio che  indebolirà l’adesione spontanea al sistema di valori che sono alla base del sistema politico/economico attuale. La crisi imporrà un aumento della digitalizzazione dell’economia con altri settori dell’economia che vedranno un restringimento della forza lavoro. Tutto questo non farà altro che inasprire tutte le contraddizioni esistenti costituendo una minaccia mortale all’apparato egemonico dominante. Per rispondere a queste contraddizioni, la tentazione potrebbe essere quella di seguire la via intrapresa da molti paesi al di fuori dell’occidente: un sistema repressivo che tiene il paese unito a salvaguardia degli interessi degli strati sociali superiori. Nel momento in cui manca l’accettazione passiva del sistema, non rimane che un intervento attivo per garantire questa accettazione. Questo intervento repressivo non può che venire dallo stato, il tutto magari all’interno di un vuoto guscio democratico. La Russia di Putin offre forse l’esempio migliore per spiegare quello che potrebbe accadere. Un paese formalmente democratico, con un potere politico che è tutt’uno con il potere economico che usa la macchina statale per limitare il dissenso e garantire il consenso. Lo stato si trasformerebbe in una specie di gabbia di ferro per contenere una società che esplode nelle sue contraddizioni. La crisi ambientale porterà alla ribalta altre crisi come questa e uno stato piú pervasivo con meno protezione della privacy e degli spazi di libertà del singolo è l’unica soluzione che permetterebbe alla società di funzionare senza cambiare la maniera di operare dell’economia. Come sottolineato da Gramsci, l’esercizio normale dell’egemonia è caratterizzato dalla combinazione della forza e del consenso. Il consenso può essere creato da un aumento della retorica nazionalista di cui lo stato è l’incarnazione. Il ruolo dei media e dei giornali diventerà quella di mostrare quanto sia bella la prigione in cui viviamo e di come non ci siano alternative migliori tacciando di anti-patriottismo tutti coloro che vedono al di fuori di quella prigione.

La pandemia sta rappresentando un’occasione ghiotta per portare avanti questo programma di ingabbiatura delle società civili offendo il pretesto per giustificare tutta una serie di misure per restringere gli spazi di libertà nel breve periodo. Si va dagli estremi di Orban che  in Ungheria ha assunto i pieni poteria tempo indeterminato alla Corea del Sud dove la privacy è stata fortemente limitata per contrastare il diffondersi dell’epidemia passando per i parlamenti a scappamento ridotto. Questa situazione dimostra la facilità con cui gli spazi di libertà possono essere compressi senza colpo ferire. Questa volta vi è una ragione medica e condivisa, domani potrebbe esserci una ragione politica senza una plausibile giustificazione. Una volta che si è abituati alle limitazioni, le prossime volte diventa più facile imporle, soprattutto in presenza di tanti politici e intellettuali che minimizzano e sembrano lavorare per una svolta autoritaria. Da Salvini e Meloni che non hanno prese le distanze da Orban (accampando una serie di giustificazioni francamente assurde), a interventi di giornalisti e discussioni su internet dove si evince un mal celato rammarico del fatto che in democrazia non si possano usare le misure attuate dalla Cina per tenere le persone in casa, misure che hanno loro permesso di uscire dalla crisi molto velocemente. L’idea che si fa passare è quella che uno stato autoritario sia piú efficiente di uno stato democratico dimenticando che uno dei motivi della gravità della crisi é stata la volontà della Cina di ignorare e nascondere quello che accadeva, senza parlare di altri stati autoritari che hanno negato la pandemia sia arrivata da loro per evitare di mostrare la loro inadeguatezza a contrastarla.

Il corona virus non rappresenta soltanto un pretesto nell’immediato in una logica di causa ed effetto ma può funzionare da catalizzatore per accelerare tutta una serie di dinamiche già esistenti che portano al rafforzamento dell’autoritarismo. In altri paesi potrebbe accadere non una presa del potere da un giorno all’altro ma una lunga erosione della democrazia. Una di queste dinamiche rafforzata da questa crisi è quella dell’uomo forte che abbiamo visto in precedenza. Le situazioni di paura come queste portano la gente a stringersi dietro un qualcuno affinché li porti fuori da una condizione di necessità. Tutti i sondaggi mostrano come il consenso dei leader politici al potere è aumentato al netto dei tantissimi errori fatti. L’emergenza non aiuta la discussione e richiede decisioni chiare e in tempi brevi con la gente pronta a seguire ciecamente un leader e accettare tutto pur di tenere lontano da se il pericolo. Non è un caso Macchiavelli poneva la paura alla base del consenso per il principe piuttosto che l’amore in quanto quest’ultimo tende a svanire e non ha la forza del primo. E’ una condizione infantile analizzata anche da studi scientifici che dimostrano come diventiamo piú conformisti e rispettosi delle convenzioni quando siamo minacciati, anche quando la minaccia non è rappresentata da un qualcuno ma da un qualcosa che non può essere visto come un virus. Siamo animali sociali e i nostri comportamenti riflettono anche queste dinamiche ancestrali inconsce affinate dall’evoluzione per permettere al gruppo di affrontare la crisi. La differenza con il passato  sta nel fatto che la reazione di “attacco o fuga” davanti a un pericolo non è sufficiente per risolvere problemi complessi.  Tutte queste nostre risposte al pericolo che non sono razionali ma provengono dal profondo delle nostre emozioni e del nostro inconscio vengono puntualmente sfruttate dalla comunicazione politica che si concentra sulla creazione di un comandante (o capitano) taumaturgo raffigurato come l’unico in grado di dare protezione.  Quando la discussione muore e ci si abbandona al potere o al capo popolo di turno per chiedere protezione, non ci sono alternative da valutare ma solo cieca obbedienza. Quando non c’è scelta e le alternative si impongono, non c’è libertà e con essa la democrazia. In una situazione del genere, lo stato non può che assumere dei tratti sempre piú autoritari dove l’individuo é chiamato a conformarsi. Ogni crisi che genera paura, non importa la natura (politica economica o sanitaria), riporta gli uomini allo stato di branco che deresponsabilizza i singoli componenti che non sono tenuti a pensare per se.

Questa pandemia accelera un altro processo che sta incancrenendo le democrazia: il deterioramento della nostra relazione con la verità. Abbiamo già evidenziato in “La verità utile” come al giorno d’oggi un qualcosa è vero non perché rispetta il principio di non contraddizione ma perché serve alla nostra sfera emotiva. Quello che cerchiamo non è una verità assoluta, arida e immobile ma una “verità utile” che è fluida, relativa ma soprattutto confortante. In altre parole crediamo solo a quello che ci fa sentire meglio. Internet viene usato come mezzo per trovare tutto quello che conforta la nostra visione del mondo che è usata come unico criterio per dividere il vero dal falso. Per questo motivo, le varie bufale sono pericolose in quanto erodono la democrazia. Innanzitutto non ci può essere un confronto di idee se ognuno si costruisce la propria verità con la conseguenza di aumentare il tribalismo in politica. Tribalismo che non è altro che una delle forme di quell’atmosfera di conventicola che “a forza di ripetere sempre le stesse formule, di maneggiare gli stessi  schemi mentali irrigiditi, si finisce, e vero, col pensare allo stesso modo, perché si finisce col non pensare piú” (Gramsci). Tribalismo che viene creato e rafforzato attraverso una comunicazione politica mirata a generare rabbia e sfiducia nella politica e nel sistema parlamentare. Questa pandemia ha scatenato una serie incredibile di teorie del complotto sull’origine del virus, su come gli stati si stanno adoperando alle spese di altri, di come i politici nascondano le cose etc. Queste fake news sono sicuramene generate da singoli individui al di fuori di qualsiasi organizzazione ma anche dagli uffici stampa di politici e probabilmente da stati che mirano a creare disordine. Nel momento in cui la gente soffre e muore negli ospedali, si usa questa sofferenza per creare divisioni. Non si tratta di errori o di leggerezza ma di una vera e propria strategia della tensione che avrà l’unico scopo di minare l’adesione spontanea della gente alla democrazia aumentando il desiderio dell’uomo forte per raggiungere il potere. Le fake news sono principalmente mirate a cambiare le emozioni delle persone e il cambio d’opinione è solo una conseguenza del primo cambiamento. Le fake news non hanno il fine di convincere le persone ma quello di cambiare la loro predisposizione emotiva nei confronti della realtá. Dopo aver buttato fango su tutte le istituzioni (Europee in primis),sulla politica e sulla scienza non rimarrà che  affidarsi all’uomo forte. Se il clima diventa rovente, nessuno è interessato minimamente a capire le posizioni dell’altro con il risultato che non ci può essere democrazia perché manca il confronto. Se a questo aggiungiamo le informative del ministero degli interni che parla di una situazione sociale esplosiva, a chi giova questo fiorire di notizie false? Questa strategia mira ad aumentare un già esistente divario tra governati e governanti creando uno spazio che ha bisogno di essere riempito da qualcosa di nuovo e la democrazia oggi sembra molto invecchiata.

Ci occuperemo nel prossimo articolo sul sovranismo che questa pandemia ha riportato ancora piú in auge ma qui mi soffermeró brevemente  ad alcuni suoi aspetti rischiosi per la democrazia che questa pandemia tenda ad accentuare. Se dietro il sovranismo ci sono delle genuine preoccupazioni democratiche generate dalla natura poco trasparente delle istituzioni europee, dall’altra parte è diventato il vestito nuovo per nascondere l’idea di uno stato che tutto può. Non è un caso che estremisti di sinistra e di destra abbiano trovato nel sovranismo un nuovo brand con cui vendersi per dare un aspetto piú accettabile all’idea comune che l’individuo ha valore solo e soltanto all’interno dello stato. Il rimprovero principale che si fa alle istituzioni interazionali (non solo europee ma anche l’ONU) è quella di intromettersi nella sovranità di uno stato. Questa idea di sovranità come spazio chiuso a qualsiasi interferenza dall’esterno è un ritorno al diritto internazionale prima dell’affermarsi dei diritti dell’uomo dove gli stati avevano anche la libertà di massacrare i propri cittadini a loro piacimento senza che gli altri stati potessero interferire. Da qui nasce l’odio per le ONG che si adoperano, non in base all’obbedienza ad uno stato, ma all’osservanza di principi umanitari che sono al di sopra e indipendenti dalla volontà degli stati. Questa pandemia sta spingendo verso l’idea di uno stato senza limiti che può sacrificare e usare i singoli cittadini a suo piacimento per il raggiungimento di un “bene comune” che solo il potere ha la possibilitá di definire.

Queste e altre motivazioni sono ancora piú gravi se pensiamo alla mancanza di una serie di anticorpi che le democrazie dovrebbero avere. La democrazia riesce a superare queste crisi solo se ha un consenso forte attraverso una serie di anticorpi creati in tempi “normali”. Questo consenso è creato e puntellato dalla presenza di partiti rappresentativi e di uno stato sociale in grado di prendersi cura non solo degli strati sociali piú poveri ma anche dei ceti medi che costituisco il terreno su cui la democrazia pone le fondamenta piú importanti. Negli ultimi decenni, questo consenso era dato non tanto alle istituzioni democratiche ma all’egemonia dominante basata sul profitto e il consumismo. Era un consenso di natura economico che diventava filosofia di vita indipendente dalla politica che vedeva calare la partecipazione all’interno di una logica individualista. La crisi economica indebolirà questo consenso senza che ci sia un consenso alle istituzioni democratiche che lo possa sostituire. In questa maniera cade uno dei pilastri ideologici del neoliberismo che puntava al mantenimento della democrazia solo attraverso il “benessere” creato dall’economia. In un contesto politico come il nostro dove i partiti e tutta la democrazia parlamentare non godono di molta fiducia, i rischi sono dunque maggiori in quanto manca una macchina che crei consenso. Se a questo aggiungiamo la rabbia e la disperazione di buona parte della popolazione senza meccanismi efficaci che attenuino questo rancore sacrificati nel passato per far “girare l’economia”, la situazione ha tutti gli elementi per una svolta catastrofica per le nostre democrazie. Svolta che non è automatica ma la cui possibilità dovrebbe richiamare al senso di responsabilità non solo i politici ma tutti coloro che come  Spinoza ritengono che il fine dello stato non è quello di creare automi ma costruire uomini liberi.

Corona Virus e cultura dominante

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Nel precedente articolo abbiamo visto come il corona virus ha mostrato la debolezza del nostro sistema a fronteggiare un’emergenza per la mancanza di un’organizzazione forte che permetta l’adozione di misure in breve tempo. Gli strumenti che abbiamo a disposizione per fronteggiare la crisi sono figli di un modo di vedere il mondo dove il mercato è considerato l’unico regolatore della vita di tutti i giorni, in un’ottica di fine della storia dove qualsiasi dibattito che cerca di rimettere in gioco il ruolo dello stato viene tacciato di reazionario.  La storia ha le sue leggi che hanno mostrato la bontà di un sistema capitalistico dove lo stato può fare solo danni. Il corona Virus sta mettendo in chiaro i limiti di questa impostazione mostrando l’importanza dello stato per fronteggiare le crisi e per sostenere l’economia. Dopo il corona virus sarà difficile tornare in un mondo dove tutto viene lasciato al mercato, ma riconoscere l’importanza dello stato e permettergli un ruolo piú attivo nella vita economica e sociale non significa automaticamente cambiare radicalmente il sistema in cui viviamo.

Per cambiare il nostro modello di vita che ci permetta di affrontare crisi piú severe come quella ambientale ci sarà bisogno, non solo dell’intervento dello stato, ma anche di un cambiamento culturale. Sarà certamente necessario una maggiore regolamentazione della finanza, un maggiore intervento dello stato per rilanciare gli investimenti o una spesa maggiore nella sanità ma tutto questo servirà semplicemente a rimandare i problemi alla prossima crisi se non viene cambiata la cultura dominante.  Le politiche attuali non sono infatti frutto del caso ma riflettono il modo di pensare non solo dei politici ma anche della gente comune. La forza dell’ideologia dominante è nella sua forza pervasiva che la fa accettare da tutti anche da coloro che stanno pagando i danni causati. Solo così si può spiegare il fatto che anche in presenza di forti disuguaglianze sociali non c’è nessun accenno, non dico alla lotta di classe, ma neanche a rimettere in discussione la maniera in cui la ricchezza viene redistribuita o sarebbe meglio dire “non redistribuita”. In un contesto dove la mobilità sociale non esiste piú, tutto viene accettato senza fiatare. Nonostante questo sistema crei disuguaglianza, povertà estrema, rischi per il futuro da un punto di vista climatico e un peso enorme sulla salute mentale delle persone, tutto viene ovattato da una narrazione che ci vede vivere nel miglior mondo possibile. Basti pensare ai voti raccolti dal partito conservatore britannico alle ultime elezioni nelle fasce di elettori che avrebbero tutto da perdere con un prolungamento delle politiche di austerity. Anche il puntare il dito e l’attenzione politica verso chi ha meno rafforza l’adesione ideologica delle masse alla cultura dominante. Con l’attacco sistematico a immigrati, ai rom e qualsiasi pezzo di società non ritenuto produttivo, si fomenta uno spirito conservatore all’interno della società aumentando il rischio percepito del cambiamento. Il cambiamento viene visto come una perdita a favore di quegli ultimi su cui la politica punta il dito.

Tutta questa narrazione ha reso le nostre società piú egoiste convincendo tutti che è giusto pensare soltanto a se stessi in quanto la collettività è irrilevante per la propria felicità. Questo ritirarsi su stessi ha reso superfluo qualsiasi forma di partecipazione politicaconsiderata inutile anche nel bel mezzo di una crisi economica che richiedeva un cambiamento. A farne le spese è stata soprattutto la sinistra uccisa da una modernitàche ha dimenticato il concetto di solidarietà.  Fino a quando il profitto rimane l’unico motivo al centro della nostra attenzione, fino a quando l’individuo viene convinto che è l’unico artefice della propria felicità, fino a quando coloro che appartengono alle classi medio-basse sono convinti che il sistema è giusto e premia il valore delle persone, tutti i cambiamenti in ambito economico e politico saranno di natura superficiale e mirati solo a perpetrare la continuazione dello status quo. Se al termine di questa crisi ci accontentassimo di pensare allo stato come il bastone di un sistema claudicante, avremmo solo permesso al malato di fare qualche passo in piú fino alla prossima crisi. Il rischio è che un maggiore intervento dello stato diventi soltanto  una piccola concessione per rabberciare il sistema senza cambiarlo veramente sperando che possa rimanere in piedi il piú a lungo possibile senza affrontare i problemi piú profondi. Non possiamo solo accontentarci di una maggiore spesa sanitaria ma abbiamo bisogno di ripensare il capitalismo nella sua totalità. Solo cosi un maggiore intervento pubblico può essere efficace, non tanto per tenere in piedi il sistema produttivo, ma affinché questo sistema produttivo sia parte della soluzione dei problemi. Il rischio da evitare è una riproposizione dello scenario del decennio a seguito al 2008 dove l’intervento dello stato non ha cambiato radicalmente il sistema economico ma si è integrato all’interno della logica dominante che vede il profitto come unico scopo della vita sociale. L’intervento pubblico non è stato usato per aiutare gli ultimi o per migliorare la vita di tutti ma per correggere le esternalità di una finanza fuori controllo. Questo è stato possibile perché l’ideologia dominante é rimasta la stessa.

Il post 2008 è stato infatti una collezione d’interventi per tenere su il sistema senza la volontà reale di cambiarlo veramente. Un tentativo cociuto di difendere e tenere in piedi un sistema che non può reggersi e che aspettava semplicemente un’altra tempesta per poter cadere. Nonostante le promesse o i timidi cambiamenti, il sistema economico non è stato profondamente cambiato e la maniera rapida con cui si è tornati indietro (vedi Trump e le sue deregolamentazioni) sono una normale conseguenza del fatto che la cultura dominante è rimasta sostanzialmente la stessa. Le enormi difficoltà attraversate da tanti non hanno cancellato l’individualismo di fondo delle nostre società. Chi è rimasto escluso non ha trovato rappresentanza nella politica se non attraverso proteste estemporanee senza un progetto politico. Senza un cambiamento del modo di pensare, del concepire l’economia e della scala dei valori, gli scenari del post corona saranno gli stessi del post crisi finanziaria del 2008: una serie di interventi per prevenire il crollo di un modo di vivere che si regge in piedi sul dolore di tanti e posticipando al futuro tutte le grandi sfide che l’umanità deve affrontare. Perché nonostante il 2008 con il suo lascito di disoccupazione e sofferenza non ha generato un cambiamento del nostro modo di concepire il mondo?

Sicuramente il  fallimento del “socialismo reale” di stampo sovietico ha posto la questione della mancanza di un’alternativa valida ma questa è una scusa che non regge da sola per giustificare il tutto. Da una parte i modelli socialdemocratici europei dopo il secondo conflitto mondiale offrivano un punto di partenza, dall’altra è mancato anche il minimo tentativo serio di aprire un dibattito a livello politico sulle alternative in quanto la cosa interessava poco alla gran parte degli elettori. A questi interessava inseguire i modelli di vita imposti dalla produzione culturale di massa. Questi modelli di vita sono una rappresentazione della felicità a cui noi essere umani siamo per natura propensi. Serie televisive, pubblicità e il cinema hanno imposto un unico modello di felicità che passa dal consumo. Si è felici se copio un modello a cui tutti aspirano; sono felice se consumo. Piú grande sarà la mia capacità di consumo, piú grande sarà la mia felicità. Una visione a breve termine che mette in primo piano la capacità di consumo. Tutto è stato trasformato e inserito in un ottica consumistica. Qualsiasi attività umana é stata in qualche maniera “corrotta” dal consumismo che richiede sempre una spesa per ottenerne il massimo soddisfacimento da essa.  In quest’ottica è normale chiedere meno tasse perché le tasse sono viste come un impedimento al consumo nel breve termine. Non importa se meno tasse significhi servizi pubblici scadenti (dalla sanità alla scuola), quello che conta è la possibilità di comprare oggetti che mi permettano di raggiungere il modello di vita che mi viene proposto anche se non verrà mai raggiunto. Questa visione unica della felicità è stata sfruttata da chi è al vertice della piramide per tagliare le tasse e i servizi sociali con l’appoggio anche di coloro che avevano tutto da perdere da queste politiche.

La forza di questa egemonia non dipende soltanto dalla forza con cui viene imposto nei media e dalla produzione culturale (tv, libri, cinema etc) ma anche dalla facilità con cui questa impostazione viene accettata. Tutti sono convinti di guadagnarci da questa impostazione del mondo che pretende meno tasse e ostacoli al profitto e al consumo. In un’epoca di scarsissima mobilità sociale, tutti sono convinti di poter arrivare al vertice con il lavoro e con il proprio ingegno (dal trading in casa o iniziando un’attività in proprio). Veniamo messi sempre a confronto con modelli di persone che si sono arricchiti  in breve tempo (da Zuckerberg a Bezos) con l’idea di fondo che questo sia possibile per tutti. La distinzione tra capitale e lavoro è sempre meno netta anche se la rendita da capitale produce ricchezza in maniera esponenziale se paragonata al lavoro che ormai spesso non permette nemmeno la sopravvivenza considerando la necessità di tanti di avere un secondo lavoro soprattutto negli USA. Questa distinzione sempre più labile dipende dall’azionariato diffuso permesso dalle piattaforme on line e dal fatto che tanti lavoratori hanno risparmi in fondi pensioni. Questo fa sì che chi ha tutto il vantaggio di vedere la tassazione sulle rendite tassate il piú possibile, si oppone a tutto ciò per la paura di vedere di perderci qualcosa.  In questa ottica sono da considerare ormai parte del proletariato moderno, non solo i lavoratori dipendenti, ma anche i tanti lavoratori autonomi che vedono qualsiasi forma di retribuzione o intervento statale come una minaccia al loro benessere. Costoro invece di chiedere dei limiti al potere dei grossi gruppi,  una maggiore tassazione delle grosse rendite, una chiusura delle tante scappatoie che permettono a tanti di evadere le tasse (con la relativa concorrenza sleale) danno forza a coloro che domandano una riduzione delle tasse e sono contrari a qualsiasi forma di redistribuzione sotto forma di maggiori servizi. Questo non avviene solo in Italia dove esiste il problema di una tassazione pesante dovuta al debito pubblico e all’evasione ma anche in quei paesi dove le tasse sono basse ma non ancora basse abbastanza per soddisfare la dipendenza dal consumo come negli USA e in Gran Bretagna.

Il tutto viene anche facilitato da una maniera pseudo-scientifica con cui viene presentata l’economia. La felicità viene prima interpretata come ricchezza monetaria dal pensiero dominante e poi misurata e tradotta attraverso numeri. Un’impostazione che misura aridamente il benessere e la felicità  in terminai di PIL e prezzo delle azioni ma non tiene in considerazione il benessere effettivo delle persone. La felicità e il benessere misurata in chiave monetaria non solo permette di essere misurata ma permette di misurare l’efficacia delle politiche governative. I politici sono dunque chiamati a concentrarsi solo sui quei numeri (PIL, riduzione del debito, potere di acquisto) ignorando tutto il resto anche tutto quello che contribuisce al benessere delle persone che non può essere misurato. Anche quando ci sono statistiche comparabili come posti letti, dottori per famiglia, alunni per insegnanti non hanno lo stesso impatto dei dati puramente economici. Non tutti hanno bambini a scuola o hanno bisogno di cure o di protezione sociale.

Il corona virus ha messo in evidenza gli aspetti paradossali di questo modo di pensare che mette il profitto in primo piano. In questi giorni abbiamo sentito di tutto, da rappresentati repubblicani dire di essere disposti ad aprire tutto con il rischio di far ammalare gli anziani piuttosto che fermare l’economia a giornalisti dire: “743 morti nelle ultime 24 ore, ma volano le borse”. La pandemia ha anche mostrato la natura fondamentalmente neoliberista del sovranismo di destra che viene visto da tanti come un antidoto ad esso. Questa è una dimostrazione di come la cultura dominante se non cambiata ha la capacità di modellare e modificare a sua immagine e somiglianza anche modi di pensare che nascono per ostacolarlo. Il sovranismo di destra si sta dimostrando semplicemente come una delle tante forme che il neoliberismo assume per mutare e adattarsi alle situazioni. Trump che vorrebbe tornare alla normalità produttiva come nulla fosse mettendo a rischio la vita di tanti americani per proteggere l’economia e vincere le elezioni la dice lunga sulla sua natura. Anche Johnson per giorni ma messo la vita dei cittadini davanti a rischio per non fermare l’economia preparando i britannici a perdere i propri cari. Bolsonero continua a dire che il corona virus sia una specie di invenzione dei media mentre Salvini voleva aprire tutto per non fermare l’economia 2 giorni dopo che la Lombardia fu messa in quarantena. Non è un caso che tutti questi personaggi negano il riscaldamento globale, non perché non sono convinti che esista, ma semplicemente perché è visto come un ostacolo ad un’economia che può solo crescere e portare benessere. Un’ idea di vedere l’economia senza esternalità. Se ci sono esternalità, sono di poco conto come la vita degli anziani americani da sacrificare al dollaro. Questi sono i cosiddetti leader che combattono le élite per il popolo ma nel momento delle scelte si dimostrano per quello che sono: una variante dell’ideologia dominante. Se vogliamo dare un futuro al nostro pianeta, é necessario cambiare il modo di pensare.

Se ci si pone il problema di sostituire l’ideologia dominante, si propone naturalmente il problema di come sostituirla. Quale ideologia alternativa usare? Quale visione alternativa di mondo possiamo proporre? Certamente parte di questa visione vedrà una maggiore responsabilità dell’individuo nei confronti della propria comunità (coscienza nazionale) e una maniera di vedere il mondo che non è ristretta alla ricerca della felicità personale sganciata dalle sorti del mondo. Questo porterà ad una maggiore attenzione verso l’ambiente, le future generazioni e un apprezzamento dell’importanza dei servizi pubblici: dalla scuola alla sanità, dai trasporti ai sistemi pensionistici. Questo nuovo modo di vedere le cose imporrá degli obbiettivi politici al di là dei freddi numeri della macroeconomia, Possiamo solo delineare gli aspetti generali che noi vorremmo ma non sarà mai possibile creare un’ideologia alternativa a tavolino. Non si tratta di sognare il mondo che verrà sganciandosi dalla realtá perché anche se potessimo calare dall’alto una nuova concezione del mondo per magia, non é detto che questa funzioni. Non possiamo pensare  che sia una lezione da imparare e poi mettere in pratica. Non si tratta di fare un elenco di nuovi comandamenti ma di creare un nuovo “modus operandi” che venga accettato e implementato dalle persone senza accorgersi. La forza delle ideologie dominante sta nell’accettazione da parte della società e nella sua capacità di funzionare e di far muovere il mondo. Questo significa che esse si sviluppano dalle contraddizioni generate dal presente. Esse si sviluppano per risolvere queste contraddizioni e dare al mondo un autonomia di moto, ovvero una forza che spinge i singoli individui e le varie parti della società ad operare in una certa direzione. Il collasso del mondo comunista si può spiegare anche nel fallimento dell’adesione nei valori imposti dall’alto. Questo fallimento implicava un sempre maggiore intervento dello stato controllare e obbligare i suoi cittadini a svolgere il proprio dovere. Una volta finita la fiducia nei vari regimi (corruzione, problemi nell’approvvigionamento, incoerenza dei vertici di partito in barba agli ideali proposti) è finita anche l’adesione spontanea e l’ethos che porta a fare tutti il proprio dovere permettendo il funzionamento di quello che gli anglosassoni chiamano “social fabbric”. Il blocco comunista non poteva piú competere con i sistemi capitalistici che non dovevano preoccuparsi di mettere in piedi un sistema di sorveglianza massiccio. Nell’occidente, l’adesione era piú o memo spontanea dove una massa critica di persone si muove prevalentemente alla ricerca dei mezzi che permettano il consumo. Consumo non solo limitato ai beni di prima necessità ma anche a tutta una serie di servizi e beni aggiuntivi che costituivano la manifestazione della propria felicità. Il profitto e il consumismo costituiscono l’ethos della nostra società contemporanea che ne permette il funzionamento. In un sistema dove dipendiamo gli uni dagli altri, dato che nessuno é in grado di produrre tutti il necessario per se, quest’ethos spinge tutti a svolgere la proprio funzione economica (non sufficiente per se) senza la necessità di un apparato di controllo con tutti i suoi problemi in termini di costi, adesione sociale e ostacolo all’innovazione. L’adesione spontanea permette ad ognuno di svolgere la propria funziona limitata avendo fiducia che tutti faranno lo stesso, garantendo al sistema di funzionare e fornire non solo il necessario ma anche quello che permette di raggiungere la propria felicità. Questo modo di organizzare e animare il sistema economico sociale ha creato delle contraddizioni con i suoi eccessi. Il problema ambientale, le migrazioni, la scarsità delle risorse, l’impoverimento dei servizi sociali erano tutte contraddizioni che fino ad oggi non sono state sufficienti a chiedere una rielaborazione, non solo del sistema economico, ma anche dell’ideologia dominate. Tutte queste contraddizioni erano subite da altri o viste lontane nel tempo e non generavano l’urgenza che permette i cambiamenti. Il corona virus e i problemi da esso generato stanno creando l’urgenza ma soprattutto rendere evidenti la contraddizioni del sistema anche a coloro che non hanno avuto problemi ad ignorarlo. Il corona virus puó mostrare come esista una differenza di interessi tra il vertice della piramide e il resto. Il fatto che il prezzo economico verrà pagato soprattutto dai ceti meno ambienti, la realizzazione che i sistemi pubblici servono soprattutto a chi non può permettersi assicurazioni sanitarie, il vivere confinato in piccoli appartamenti può mettere in crisi l’adesione al modello dominate da parte di chi lo subisce. La pandemia ha messo in evidenza per esempio la contraddizione tra profitto e la vita (prezzo delle mascherine, tagli alla sanità). Certamente il dibattito sull’ILVA e sulla salute della città di Taranto avrà tutta un’altra ampiezza a livello nazionale quando tutti hanno sperimentato la contrapposizione tra salute ed economia. Il fatto che la propria salute dipende da strutture pubbliche e dall’osservanza degli altri della quarantena, metterà in crisi la convinzione che ognuno è il solo responsabile della propria felicità. Dopo aver rifiutato gli immigrati visti come minaccia alla propria felicità, il fatto di trovarsi nella posizione di bisogno cambierà l’approccio verso gli ultimi che potrebbe spingere verso una maggiore solidarietà. La consapevolezza che il virus colpisca le ragioni piú inquinate impone la necessità di pensare in maniera seria alla qualità dell’aria etc L’urgenza e il vasto impatto di questa pandemia obbligherà a fare delle considerazioni per superare queste contraddizioni. Il corona virus ha reso palesi i limiti del nostro vivere non permettendo piú di continuare come nulla fosse. Nascondere la polvere sotto il tappeto non potrà piú essere un’opzione. Questa pandemia è uno spartiacque nella storia politica ed economica.

Purtroppo non c’è solo una maniera di andare oltre e c’è il rischio di tornare indietro in tanti aspetti. Da una parte ci saranno sicuramente i tentativi di imitare il post 2008 per limitare le contradizioni e dall’altra parte un cambiamento radicale per limitare la libertà silenziando questi contrasti. Non dobbiamo dimenticarci che il fascismo fu usato dai vertici politici ed economici come risposta alle contraddizioni generate dalla prima guerra mondiale e da un sistema economico che teneva gli operai appena sopra il limite di sussistenza e che si stavano organizzando per porre fine a questi contrasti a loro vantaggio (biennio rosso). Per questo motivo è necessario fare politica non solo per governare il paese ma soprattutto per affermare un modello alternativo di pensare. Soltanto attraverso la politica e la partecipazione sarà possibile prima mettere i sedimenti di una cultura alterativa e poi stimolare la crescita fino a farla diventare egemonica. Soltanto con il dibattito e il confronto, possiamo sviluppare prima un modo di pensare che possa essere accettato da tutti e che poi permetta di affermare un ethos collettivo che consenta alla società di funzionare. Non si tratta di eliminare completamente il profitto e il consumismo dall’orizzonte delle persone ma bisogna far in modo che questi non siano l’unico metodo di valutazione delle cose e unico modo di concepire la felicità. Non si tratta di costruire da 0 un nuovo modello di vita con tutti rischi che comporta come ampiamente evidenziato da Popper nella sua distinzione tra “piecemeal social engineering” e “Utopian social engineering” ma accelerare un cambiamento spontaneo generato dalle contradizione che porti a cambiare il modo di fare e pensare l’economia e la politica. Importante sarà il ruolo degli intellettuali e dei partiti politici nell’influenzare il dibattito politico e imporre un’agenda affinché non venga lasciata alla rabbia, al catastrofismo e alla voglia di affidarsi al salvatore della patria che si prenda la responsabilità di risolvere tutto. Dopo anni dove c’era a disposizione c’era una sola strada imposta dal neoliberismo, questa pandemia si presenta come un incrocio dove possiamo scegliere la direzione da prendere per i prossimi decenni, dove possiamo finalmente prendere in considerazione altre motivazioni per decidere la direzione. Il rischio è che si possa prendere la direzione sbagliata e fare marcia indietro in tante cose. E’ importante esserne coscienti ed essere preparati sapendo che chi vuole distruggere è sempre avvantaggiato su chi vuole costruire.

 

 

Corona virus e ruolo dello stato

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Il corona virus avrà un impatto notevole non solo sull’economia ma anche sulla politica. La pandemia può rivelarsi un vero e proprio spartiacque tra un prima e un dopo dove tutto viene messo in discussione alla luce della nuova situazione. Una volta  quest’incubo sarà finito (speriamo il prima possibile), quattro temi saranno al centro del dibattito politico che avranno un’interpretazione diversa alla luce di questa epidemia:

Partiamo dal primo punto. Il corona virus ha messo a nudo le debolezza delle politiche liberiste che per anni hanno ridotto all’osso il ruolo e il peso dello stato nel nome della crescita economica. Alla luce di queste politiche lo stato veniva dipinto come un mostro che andava fatto morire di fame tagliando la spesa pubblica e privatizzando il piú possibile. All’interno di un’economia internazionale senza regole, era necessario ridurre le tasse per permettere la competitività delle aziende sui mercati internazionali. La riduzione delle tasse era una manna per i capitali e per chi li possiede ma una maledizione per chi deve contare sui servizi pubblici ridotti sempre piú all’osso. Questo modello di organizzazione sociale conta sul fatto che tutti sono guidati dal profitto e questo muoversi unanime nella stessa direzione migliora la vita di tutti, permettendo di risolvere i problemi grazie alla sua forza di adattamento alle circostanze. Il profitto spinge le persone a dare il proprio contributo alla società alzandosi al mattino e andando al lavoro. La flessibilità e il decentramento dei centri decisionali, non piú nello stato ma nelle singole aziende, presuppone l’immediata identificazione di problemi e la sua soluzione. Le disuguaglianze create non sono un problema per se ma il premio a chi dimostra di essere piú intraprendente. L’ideologia dominante celebra il ricco e punisce il povero con l’esclusione sociale. Un’ideologia dominante che non invita al cambiamento ma all’adesione con l’illusione che tutti possono diventare ricchi con il proprio impegno. Il sistema si auto regge grazie ad una costante analisi dei rischi e dei problemi che impongono decisioni razionali agli attori economici che spingeranno verso la soluzione migliore dei problemi senza aspettare che intervenga lo stato con la sua lentezza e le sue distorsioni che creano solo ulteriori problemi. Il profitto diventa dunque la stella polare che tiene un’organizzazione unita e funge da  motore per garantire il suo funzionamento. La società è come una specie di grande alveare che ha il mercato come ape regina dove tutti lavorano per conto proprio ma alla fine contribuiscono a rendere quel formichiere piú grande e ricco. Lo stato al massimo è tenuto solo a punire i comportamenti devianti che sfuggono a questa logica.

L’undici settembre e la crisi del 2008 avevano mostrato i limiti di questa impostazione ma non abbastanza per sconfiggerla definitivamente. La minaccia del terrorismo islamico ha aumentato il ruolo dello stato ma purtroppo solo da un punto di vista della sicurezza. Lo stato è cresciuto ma solo per limitare le libertà individuali senza intaccare profondamente l’organizzazione del sistema economico. Lo stato è stato rivalutato ma solo nella sua funzione securitaria. Un ritorno al leviatano di Hobbes che vede nel mantenimento dell’ordine l’unica funzione dello stato dimenticando altri ruoli che esso ha assunto nel corso dei secoli, soprattutto in campo economico e sociale. Lo stato invocato per difendere la tradizione democratica dell’occidente è in realtá solamente un paravento ideologico.  Quello che contava era dare una parvenza di sicurezza necessaria a tenere in piedi un sistema economico basato sul consumismo in quanto la paura del futuro non spinge al consumo. L’undici settembre aveva fatto intravedere la possibilità di realizzare il “sogno” di un mondo dove le masse sono rese totalmente inerti nei confronti della politica all’interno di un sistema che protegge non solo il potere ma anche la capacità di arricchirsi sempre piú da parte di chi  è al vertice della piramide. Se anni di cultura dominante avevano fatto passivamente accettare la bontà di un certo sistema capitalistico, era necessario anche una forma di controllo maggiore che limitasse la capacità organizzativa di chiunque. La scusa delle leggi antiterrorismo diventava un pretesto per controllare e monitorare anche chi aveva un’agenda lontana dal terrorismo islamico ma pur sempre non allineato al pensiero dominante.

La crisi del 2008 aveva invece messo in dubbio l’idea del mercato che si regge da solo e della sua capacità di autoregolarsi e risolvere i problemi. L’idea era già sbagliata da un punto di vista filosofico in quanto ammetteva che un essere imperfetto come l’uomo possa creare qualcosa di perfetto come il mercato. Per anni abbiamo tagliato investimenti pubblici, elogiato il privato e sminuito l’importanza dello stato nel nome di teorie economiche basate su modelli economici che non prendono e non possono prendere in considerazione un aspetto della personalità umana: la sua parte irrazionale. Questi modelli economici vedono infatti l’uomo come attore economico che agisce sempre in maniera puramente razionale. Non prendono in considerazione il fatto che l’uomo non sempre agisce in questa maniera ma è spinto anche da motivazioni che esulano da qualsiasi analisi di tipo cartesiano. Uno di questi sentimenti è la paura generata dall’incertezza. Paura che si riflette nel blocco dei consumi privati, nel blocco negli investimenti, nel crollo verticale dei marcati finanziari o piú semplicemente nella corsa all’approvvigionamento nei negozi che pone problemi all’ordine sociale componente fondamentale di qualsiasi sviluppo economico.

L’ultraliberismo aveva inoltre mostrato alcuni aspetti del capitalismo già identificati da Marx, quei germi che lo portano all’autodistruzione. La concentrazione del capitale in poche mani e l’impoverimento sempre piú delle classi medie avevano creato un forte indebitamento dei privati che ha reso il sistema economico debolissimo. Il neoliberismo nascondeva infatti un’altra contraddizione di natura filosofica. Il modello economico-culturale dominante non può contemplare limiti alla crescita anche vivendo all’interno di un mondo finito. I danni all’ambiente, la riduzione delle risorse, la capacità di consumo e i limiti umani di natura psicologica sono tutti elementi che pongono limiti all’infinità della crescita generando crisi cicliche. La capacità di consumo dei privati non è in grado di assorbire la sempre crescente efficienza produttiva soprattutto quando il potere di acquisto delle classi medie e proletarie si restringe. Tutto questo facilita un sistema che punta alla diminuzione dei prezzi delle merci e dei servizi ponendo maggiore pressione al contenimento dei salari. Il caso piú emblematico sono gli Stati Uniti. Le statistiche dimostrano come la gran parte della ricchezza finisce nella rendita mentre il potere di acquisto dei lavoratori non cresce quanto la produttività. Se produrre e vendere non basta a soddisfare la crescente voglia di arricchirsi, allora si trasforma la finanza, da un mezzo al servizio dell’economia reale, in un immenso casinò globale che crea fortune puntando sull’illusione che promette meglio. Un sistema come questo arriva prima o poi ad un punto di crisi. La crisi finanziaria del 2008 aveva giá dimostrato l’incapacità della finanza di auto autoregolarsi dando vita a sofisticati “Schema Ponzi”, una colossale economia su carta scollegata dall’economia reale basata solo sull’ottimismo e la fiducia nel futuro. Quando questa speranza nel futuro viene meno, tutto crolla perché non in grado di auto reggersi. Per anni abbiamo infatti vissuto in un immenso castello di carte con un equilibrio precario dove l’economia reale passava in secondo piano e chiamata a reggere il peso spropositato di una finanza che aveva la pretesa di avere una vita propria. La finanziarizzazione dell’economia è il classico gigante dai piedi di argilla. Un’immensa ubriacatura che si basa sulla fiducia di una crescita perenne e che è costretta ad adottare un ottimismo forzato per tenersi in piedi. Ottimismo che serve per continuare a spendere e a far crescere il valore delle azioni. Un continuo girare la testa per non vedere i problemi che questo sistema crea non solo all’ambiente ma anche alla società. Se gli americani fanno la fila per comprare le armiin tempo di pandemia è anche per difendersi dalla moltitudine di poveri che possono diventare una minaccia in caso il sistema non sia piú in grado di mantenere l’ordine.

Cosi come per i profeti del capitale, anche per i profeti del socialismo la storia si è mostrata però poco ubbidiente alle leggi che gli uomini le vogliono imporre. Il capitalismo non è crollato nel 2008 e il socialismo non è nato dalla sua crisi. Il sistema non è crollato per la capacità di recupero e adattamento (resilience) intrinseco del capitalismo e per il fatto che la cultura dominante è rimasta la stessa. (Ci occuperemo degli aspetti culturali in seguito). Il capitalismo ultraliberale considera lo stato una specie di carta jolly da usare in tempo di crisi.   Come nel 1929,  a salvare il capitalismo nel 2008 è stato lo stato con interventi di natura finanziaria e regolamentativi. Nel 2008 ci siamo tutti scoperti socialisti come intitolò la rivista americana “Newsweek” ma il socialismo introdotto è stato di natura particolare. Un socialismo atto a salvare le banche e il mondo della finanza a scapito dei lavoratori. Un tipo di socialismo che ha aumentato il concentramento del capitale a scapito del lavoro come ampiamente dimostrato da Piketty nel suo ibro “Il capitale nel XXI secolo”. La soluzione trovata fu un altro giro della roulette immettendo denaro fresco attraverso gli interventi delle banche centrali (quantitative easing nell’area Euro per esempio). In poche parole, l’intervento statale fatto di salvataggi di banche, investimenti pubblici (piú negli USA che in Europa) e timidi tentativi di regolamentare il mondo finanziario ha tenuto in piedi il sistema a danno dei piú deboli. Intervento che ha fatto la felicità di chi detiene il capitale senza un impatto importante per l’economia reale in termini i salari, potere di acquisto, miglioramento della qualità della vita. Una socializzazione delle perdite attraverso l’intervento dello stato mentre si continuava a privatizzare e a distribuire in maniera ingiusta la ricchezza prodotta.

Alla luce del corona virus, le banche centrali stanno cercando di risolvere il problema nella stessa maniera ma questa volta rischia di non funzionare. Questa volta il tentativo sembra essere quello del giocatore di poker che chiede l’ultima mano che risolva tutto. Non bisogna sottovalutare la capacita di adattamento del capitalismo ma non penso che si possa tornare semplicemente a come nulla fosse. La paura generata dal virus é una paura che non riguarda solo i bilanci o chi rimane fuori dal mondo del lavoro. Il virus é un problema che riguarda tutti e sarà difficile giocare la carta della divisione dove gli interventi sono giustificati per tenere in piedi il sistema e difendere chi ha un lavoro a scapito degli altri lasciati senza rappresentanza. Questa crisi ha l’impatto emotivo del 2001 e la globalità degli effetti economici del 2008 e mostra in maniera equivocabile tutti i limiti di questa concezione del mondo. In particolare, questa crisi colpisce il sistema in due punti ideologici  fondamentali:

  • la capacità del libero mercato di risolvere i problemi collettivi
  • la sua capacita di autoregolarsi e mantenersi in piedi senza interventi esterni

Viviamo in un sistema privato di una spina dorsale capace di prendersi carico dei problemi collettivi che sono lasciati al mercato che guiderà le singoli api alla soluzione del problema. Quello che questa crisi dimostra è che il mercato muove solo verso il profitto e non verso la soluzione dei problemi e  le due cose non coincidono perché il problema diventa un’opportunità per fare profitto. Il costo delle maschere e dei disinfettanti o il costo dei tamponi negli USA sono un esempio di come il mercato di adegua immediatamente alle circostanze per creare profitto senza intaccare il problema o fornire un beneficio alle persone in difficoltà. Ammesso e concesso che il mercato si muova nella direzione della soluzione del problema e non solamente nella creazione del profitto, non è detto che la soluzione possa arrivare in tempo utile. Aziende farmaceutiche stanno per esempio lavorando per trovare un vaccino ma ognuna lavora per se senza condividere i propri risultati. Questo non vale solamente per il corona virus ma anche per i problemi ambientali. Il mercato non sta trovando soluzioni ma semplicemente sta sfruttando la situazione per produrre profitto sfruttando il problema: assicurazioni, vendita di sistemi di sicurezza, marketing ambientale per vendere piú prodotti etc. Seguendo il modo di pensare corrente, il mercato risolverà il problema del riscaldamento globale perché il petrolio aumenterà di prezzo a seguito dei limiti dei giacimenti. Questo renderà piú conveniente altre forme di energia senza tenere conto che quando questo accadrà può essere troppo tardi.

Un’intera società che basa la propria organizzazione sul mercato, riducendo sempre piú il ruolo dirigista dello stato, è come una macchina a guida autonoma che non è in grado di sterzare. Fino a quando la macchina viaggia su un rettilineo tutto va bene, ma i problemi iniziano appena s’incontra un imprevisto. L’undici settembre, la crisi del 2008 e il corona virus hanno infatti mostrato l’incapacità delle nostre società a far fronte ad eventi eccezionali  che richiedono non solo investimenti a fondo perduto ma anche l’intervento rapido di un organismo centrale che non può che essere lo stato. Tornando all’esempio del veicolo a guida autonoma, il nostro modo di organizzare la nostra vita collettiva, basato sul mercato che si autoregola, ha mostrato i suoi limiti nel cambiare direzione in tempi brevi per evitare gli ostacoli. Al netto della sua natura (tema che discuteremo in seguito), la Cina sta uscendo uscita rapidamente dalla crisi creata dal corona virus grazie alla presenza di uno stato che non è stato smantellato nel nome di un’ideologia economica che prende in considerazione solo e soltanto il profitto.  La cultura dominante nell’occidente ha imposto il profitto e la ricchezza come unico valore e metro di giudizio di tutto quello che riguarda l’esperienza umana. Anche lo stato si doveva adeguare a questa logica liberandolo di tutto quello che non serve. Il problema è che il profitto ha una logica di breve periodo e rende ciechi perché non permette di prendere in considerazione nient’altro.  Seguendo questa logica, Trump aveva cancellato per esempio  il team che si occupava di contrastare le epidemie. Tutto questo rende le nostre società molto vulnerabili in quanto manca una forma di organizzazione efficiente capace di orchestrare una risposta nel piú breve tempo possibile. Se l’undici settembre aveva mostrato la necessità dello stato in termini di sicurezza, il corona virus rende palese la necessita dell’intervento dello stato da un punto di vista sanitario. Come l’undici settembre ha richiesto il ruolo dello stato per organizzare la difesa la sicurezza della gente, l’epidemia del 2020 dimostra come l’intervento pubblico sia necessario per la salute collettiva. Non si può fare affidamento solo ad un sistema sanitario privato che ha come principale obbiettivo il profitto e non la salute della gente. Non si possono tagliare spese sanitarie senza pagare pegno. Il corona virus è stato uno “stress test” per una sanità creata per produrre profitto o ridimensionata per non pesare sul sistema economico e il test è stato fallito. Tra la Spagna che requisisce le cliniche private, gli USA che non forniscono test perché troppo costosi, le difficolta del modello Lombardo che puntava sul privato e soprattutto il prezzo da pagare dall’assicurazioni private tutto porta a pensare che un cambiamento di rotta sia necessario. Sia chiaro, questo cambiamento sarà imposto non perché la salute della gente stia a cuore del modello dominante ma perché il sistema economico non si può permettere gente chiusa in casa.

La mancanza di una spina dorsale capace di addossarsi le responsabilità per far fronte agli imprevisto  riguarda soprattutto il sistema economico. Eventi straordinari come questo dimostra come poco razionale sia l’uomo come attore economico e come il profitto da solo non può bastare a riattivare l’economia. Quando il sistema è paralizzato dall’incertezza, si rende necessario l’intervento dello stato in chiave keynesiana per far ripartire gli investimenti perché il privato non sarà in grado di farlo attanagliato dalla paura e fortemente compromesso dalla crisi. Intervento dello stato che non può essere limitato soltanto agli investimenti ma che deve riguardare anche la questione della regolamentazione della finanza. Il mondo finanziario non può essere lasciato libero di organizzarsi come un immenso casinò ma deve tornare alla sua funzione primaria: finanziare l’economia reale. La finanza lasciata a se, non è stata capace di autoregolarsi neanche alla luce del 2008. La soluzione di pompare denaro fresco nei mercati ha semplicemente inflazionato i listini senza un impatto reale nell’economia reale in termini di qualità del lavoro e della sua retribuzione. Si è rimesso di nuovo in piedi il gigante con cambiamenti marginali ai suoi deboli piedi. La rivalutazione dello stato non può non passare dalla sua capacità di redistribuire la ricchezza prodotta per evitare società spaccate. Lo stato deve rafforzare quei servizi che costituiscono la spina dorsale su cui una collettività si regge e può contare in caso di emergenze. E’ illusori pensare infatti che il corona virus sia un avvenimento eccezionale per la sanità come il terrorismo islamico era stato per la sicurezza. La storia umana non è finita e il collasso ambientale proporrà altre sfide che non possono essere risolte senza un’organizzazione collettiva efficiente. Organizzazione collettiva che dagli albori dell’umanità ha permesso agli individui di affrontare le sfide comuni.

Se il corona virus ha messo a nudo ancora una volta i limiti del neoliberalismo, rischia però di farci passare da un eccesso all’altro. La tentazione potrebbe essere quella di svoltare verso uno stato autoritario che tenga insieme la società lasciando intatto il sistema economico cosi com’è. Se la crisi sanitaria che viviamo pone delle domande sul ruolo dello stato riporta in auge anche un dibattito sulla natura dello stato. La paura, il senso di smarrimento e la sfiducia nel sistema possono essere usate per imporre uno stato padrone. Ancora una volta, chi crede nella razionalità della storia come cammino verso la libertà come Croce pensava, dovrà fare i conti con una realtá che può considerarsi razionale solo e soltanto alla luce del pensiero dominante. Quel pensiero dominante che considerava razionale limitare lo stato nel nome del profitto. La storia non è razionale e il credere che lo sia è profondamente irrazionale. L’unica razionalità politica è non avere una fiducia cieca nel futuro ma convincersi che questo dipende dalle scelte nel presente alla luce di un’analisi e una riflessione sui problemi contemporanei. I tempi che viviamo impongono una riflessione non soltanto sul ruolo dello stato ma anche sulla sua natura

 

 

 

 

Gilet gialli e neoliberismo

Viviamo un momento storico dove la politica ha perso il suo aspetto razionale: la soluzione dei problemi. Dopo anni di politiche neoliberali che hanno lasciato al mercato il potere di risolvere tutti i problemi tenendo presente solo il profitto ci ritroviamo con una societá giustamente in collera ma non in grado di trasformare la rabbia in azione politica concreta. Dall’altra parte abbiamo politici che sono piú interessati a rappresentare questa rabbbia piuttosto che pensare a spegnere le fonti di questa rabbia. I giletti gialli, i forconi o qualsiasi altra forma di protesta basata solo sulla rabbia sono quindi la naturale conseguenza delle politiche neoliberali che hanno distrutto tutte le forme di intermediazioni tra politica e societa civile: partiti politici e sindacati in primis. Senza forme organizzate in grado di captare il malcotento della classe media e tradurla in poolitica non rimane che la protesta. Senza la presenza di forme organizzate all’interno della societá civile che coordina le idee e le trasforma in atti legislativi, la democrazia non funziona e risulta inefficace a tutto vantaggio di chi sogna rivoluzioni o paesi organizzati come caserme. Queste proteste (al netto delle loro ragioni) dovrebbero rappresentare un monito a chi invoca la democrazia diretta che rinnega forme d’intermediazioni tra potere politico e societá civile che rappresentano un limite al potere politico. Una democrazia ha ragione di esistere solo e soltanto se il potere politico e limitato altrimenti si lascia spazio al demagogo di turno di arrivare al potere calvacando la rabbia politica pensando che il consenso popolare sia sufficente a fare quello che si vuole lasciando gli individui indifesi davanti al potere politico. Viviamo un mix pericoloso: partiti deleggittimati, scollegamento tra potere e politica, politici che sminuiscono continuamente qualsiasi forma d’ intermediazione (partiti, sindacati, giornali, associzioni non governative) e rabbia sociale . Siamo ormai di fronte ad un bivio: o la societá civile trova nuove forme di organizzazioni al proprio interno al passo con i tempi o la democrazia prenderá sempre forme piú autoritarie; o si riporta il potere dai consigli di amministrazioni all’interno delle istituzioni democratiche oppure si dará sempre piú spazio ai politici che pensano di risolvere tutti i problemi con il decisionismo dimenticando che c’é una differenza tra prendere delle decisioni e prendere delle buone decisioni.

Contro l’ottimismo

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La visione positiva del futuro e’ uno degli elementi vincenti che ha consentito all’occidente di imporsi da un punto di vista culturale ed economico. Come illustrato dal professor Galimberti, quest’ottimismo deriva dalla cultura cristiana alla base dell’occidente. I greci avevano una visione ciclica del tempo che é stata soppiantata da una visione lineare conforma alla teologia cristiana, dove il passato é peccato, il presente redenzione e il futuro é salvezza. Il futuro ha sempre una valenza positiva per un cristiano perche’ “siamo nelle mani di Dio” che per definizione é magnanimo. Se questa fiducia incrollabile nel futuro ci ha permesso un certo progresso, oggi quest’ottimismo costituisce un serio pericolo quando le  tante forze (mai state cosi forti in passato)che modellano le nostre vite sono lasciate senza controllo nel nome della fiducia di un futuro sempre roseo. Dovremmo ormai considerare l’ottimismo forzato e autoconsolatorio come una minaccia al genere umano.

La fiducia che tutto andrá sempre bene é una pericolosa illusione. Viviamo in una specie di epoca di Icaro,  una societá che pensa di essere senza limiti destinata comunque a fare i conti con il sole della realtá prima o poi. Il riscaldamento globale é  l’esempio forse piú lampante. Se  la catastrofe ambientale non viene seriamente presa in considerazione  é anche perché incosciamente riteniamo che tutto si risolverá in una maniera o nell’altra. Una visione preoccupata dell’avvenire ci obbligherebbe ad avere un’atteggiamento  diverso nei confronti del nostro futuro da un punto di vista ambientale e probabilmente avremmo giá preso delle misure piú incisive per contrastare il deterioramento del nostro pianeta. Anche in economia l’ottimismo é illusorio oltre ad essere dannoso. Che senso ha da un punto di vista economico essere ottimisti e pensare che in un mondo finito da un punto di vista delle risorse la crescita possa essere illimitata? Alla base della crisi del 2008 non vi era forse la convinzione ottimistica che i mercati sarebbero cresciuti all’infinito? Come guardare l’attuale momento di crescita delle borse completamente scollegato dall’andamento dell’economia? Tra un investitore e uno scomettitore non c’é nessuna differenza al giorno d’oggi: entrambi pensano che sia il loro momento fortunato.

L’ottimismo  autoimposto é anche uno dei meccanismi con cui oggi il potere preserva se stesso. Il capitalismo ha bisogno di agenti che abbiano fiducia nel futuro affinché comprino, magari a debito. Debito possibile solo se ci sono attori che concedono quel credito perché sicuri che venga restituito con gli interessi. Creditori e debitori mossi dalla fiducia cieca del futuro costruiscono giganteschi castelli nelle nuvole destinati a crollare al minimo mancamento di quella fiducia, come la crisi dei subprime ha giá mostrato negli anni scorsi. L’ottimismo serve alle classi dirigenti per evitare che il resto si renda conto della propria posizione di precarietá e si ribelli.  L’ottimismo infatti previene la formazione di un minimo di solidarieta’ tra le persone: “se c’é gente senza casa o senza lavoro e colpa loro e non del sistema che permette a tutti di avere delle possibilitá”. “Anche se oggi sono precario, mal pagato e arrivo a stento a fine mese, sono sicuro che le cose miglioreranno se m’impegno”.

L’ottimismo é una droga che condanna alla passivitá, acquietando quella rabbia necessaria al cambiamento. Questo non significa che bisogna avere pensieri negativi, rassegnarsi al peggio o condannarsi all’infelicitá come se questa fosse un sinonimo di pessimismo. Non essere ottimisti ad ogni costo significa prendere coscienza che la realtá non é la diretta conseguenza della propriá volontá. Essere pessimisti significa rendersi conto che il futuro si costruisce partendo da un’analisi onesta del presente e non truccando il futuro con la proiezione dei propri desideri. Si deve lavorare per un futuro migliore partendo dal presente senza ignorare ció che di negativo la realtá ci presenta o dare per scontato che tanto tutto magicamente si aggiusta. Un fine positivo non é un elemento intrinseco delle cose e dovremmo lavorare per costruire il futuro e non subirlo perche’ convinti che questo non abbia bisogno del nostro intervento per essere soddisfacente.

L’augurio migliore che si possa fare all’Italia per questa campagna elettorale é che questa sia dominata da un pessimismo ragionato che porti a prendere coscienza della propria condizione e pensare a come uscirne. Invece ho paura che sará la solita rassegna di sogni e del tanto “siamo italiani e ne usciremo fuori”: basta chiudere le frontiere, mettere al potere gente nuova o zittire i gufi. Monicelli aveva ragione nel definire la speranza una trapppola, una brutta parola da eliminare.

 

 

La società egoista davanti alla crisi economica

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Nel precedente articolo ci siamo soffermati su come l’affermazione dell’individuo sia stato snaturato dalla società dei consumi rendendo le nostre società più egoiste e più sensibili all’agenda neo liberista. La crisi avrebbe potuto segnare un punto di rottura riportando in gioco concetti come quelli di solidarietà, stato sociale e maggiore eguaglianza. La risposta alla crisi ha invece mostrato quanto sia radicato questo cambiamento culturale che ha reso le nostre società meno altruiste. La ricerca della felicità e’ stata fatta passare come un qualcosa che dipende unicamente dalle persone, dalle loro scelte e dal loro stile di vita. Certamente le scelte personali sono determinanti, ma qualsiasi scelta personale e le opzioni a disposizione dipendono dal contesto in cui ci si trova. L’individualismo portato agli estremi insieme alla ricerca del piacere personale come unico scopo di vita hanno convinto buona parte di noi che il contesto conti fino a un certo punto e che quello che veramente conta siamo noi con le nostre scelte e il nostro atteggiamento verso la vita. Questa visione delle cose e’ spesso anche il frutto della sfiducia nei confronti delle istituzioni, percepite lontane o incapaci di cambiare il presente. Il risultato finale e’ la solitudine ad affrontare la crisi senza la possibilità di fare fronte comune per influenzare le politiche governative.

Nei decenni passati le crisi portavano a un maggiore coinvolgimento nella vita politica  di cittadini che facevano causa comune per arrivare a obiettivi condivisi. Oggi l’individualismo ha portato a una guerra tra poveri. Chi ha perso il lavoro ha indirizzato la propria frustrazione nei confronti di chi ha meno (immigrati) rafforzando i partiti di estrema destra. Chi in qualche maniera e’ “sopravvissuto”, ha allargato le fila della maggioranza silenziosa che ha permesso l’attuazione delle politiche di austerità. Monti, Rajoy e Samaras hanno potuto portare avanti le loro politiche con il sostegno di chi aveva paura di perdere quello che aveva a scapito degli altri a cui e’ toccato subirle queste politiche. In questa maniera, si e’ continuato ad affrontare la crisi con la stessa cura che l’ha generata con politiche mirate a tagliare la spesa pubblica in un momento in cui ce ne sarebbe bisogno per rilanciare i consumi.

Per anni abbiamo visto operai salire in cima alle gru, minatori chiudersi nel ventre della terra o piccoli imprenditori suicidarsi. Queste manifestazioni hanno generato un senso di pietà e una solidarietà superficiale presto dimenticati nel sollievo di non essere stati colpiti dalla crisi. La rabbia dei precari e dei senza lavoro non ha trovato sostegno da chi un lavoro l’ha mantenuto e che tira avanti ringraziando la buona sorte. Il problema dei senza lavoro e dei precari ha smesso di essere un problema sociale per essere un problema personale di chi ne paga le conseguenze.

Anche i comportamenti dei vari governi nei confronti della Grecia e’ il riflesso di società sempre più egoiste con la classe dirigente europea impaurita di perdere consenso in caso di concessioni.  La crisi economica in Europa si sta protraendo per l’incapacità e la scarsa volontà dei governi di prendere misure che possano essere considerate vantaggiose per altri a scapito dei propri cittadini in una visione a corto termine. Per esempio il debito pubblico greco viene compreso dai più come una semplice questione di soldi presi in prestito ignorando che il debito pubblico non può essere considerato alla stressa stregua del debito di un privato. Il risultato finale e’ la solita rappresentazione di un popolo cicala pronto a vivere sulle spalle delle formiche laboriose. Questa rappresentazione della realtà e’ spesso una storia raccontata a se stessi per giustificare la propria mancanza di solidarietà in una visione religiosa dell’economia dove il debito viene visto come colpa da espiare. In questa maniera, la sofferenza del popolo greco viene vista come espiazione di errori fatti nel passato che non merita nessuna solidarietà in quanto la pena e’ l’unica maniera per riparare la colpa. Lo stesso atteggiamento viene spesso usato nei confronti dei disoccupati  visti come persone che non sono state capaci di aggiornarsi, che non vogliono lavorare o incapaci di adattarsi e per questi motivi pagano le conseguenze delle loro scelte personali. Questa visione delle cose e’ una rinuncia a usare la politica progredire,  liberandola dal dovere di aiutare chi e’ rimasto dietro sancendo una vittoria importante per il neo liberismo. Qualsiasi alternativa al neo liberismo sarà costretta a cambiare prima la cultura dominante prima di avere qualche possibilità di imporre politiche diverse.

Le vittime della crisi sono state lasciate a se stessi non solo dai governi e dal resto della società ma anche dalle organizzazioni che in teoria dovevano essere dalla loro parte. I sindacati hanno spesso finito per tutelare solo i loro iscritti che un lavoro o una pensione ce l’hanno. Questo ha finito per alimentare i partiti anti-sistema in una logica del muoia “Sansone con tutti i filistei”. Una volta che la politica viene vista non solo incapace di risolvere i problemi, ma anche indifferente o a protezione di un sistema iniquo, allora tanto vale buttare tutto giù per essere ascoltati.

La crisi economica non e’ solo un problema economico ma e’ anche un problema politico. Questo richiede delle risposte politiche alla base di scelte economiche. I governi si sono limitati a tenere i bilanci in ordine aspettando una ripresa che non arriverà mai senza delle scelte coraggiose che portino una maggiore redistribuzione della ricchezza prodotta a favore dei ceti medio-piccoli insieme a delle politiche europee d’investimenti. Queste scelte impongono delle rinunce da chi non e’ stato toccato dalla crisi. Fino a quando la politica si limiterà al piccolo cabotaggio, cercando un equilibro difficile tra crescita zero e interessi sul debito senza cercare altre risorse per rilanciare i consumi, non ci sarà uscita dalla crisi se non nelle parole del ministro dell’economia di turno pronto a giurare che la ripresa e’ dietro l’angolo. Questo cambiamento della strategia economica e’ difficile senza una pressione da parte dell’elettorato per una società più’ giusta in un clima culturale dove redistribuzione, pubblico e stato sociale sono concetti divenuti quasi sinonimo di comunismo.

Questo ha creato una situazione pericolosa per la democrazia. I partiti momentaneamente al potere, nati prima della crisi, hanno un consenso che deriva prevalentemente da chi non e’ stato colpito dalla recessione. Questa base elettorale non spinge per riforme radicali per una società più equa con la paura spesso infondata di perdere quello che ha, riflesso del contesto culturale che ha reso le nostre società meno altruiste. Chi e’ vittima della crisi si rivolge a partiti alternativi spesso populisti per essere rappresentati.  O si afferma un’alternativa politica ed economica non populista al liberismo economico, oppure la crisi e l’egoismo distruggeranno le nostre istituzioni . Purtroppo non c’e’ il tempo per attuare quel cambiamento culturale necessario per creare una società più attenta alle esigenze degli ultimi, ma la classe politica del nostro continente ha il dovere di mostrare la propria leadership attuando politiche diverse per alleviare la crisi avviando quel cambiamento culturale ponendo nuove parole e temi al centro del dibattito politico.

Quel cambiamento culturale che ha reso le nostre società più egoiste e più povere.

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Uno degli elementi che contraddistinguono l’occidente e’ l’emancipazione dell’individuo dalla collettivitá. L’intera storia del pensiero occidentale può essere vista coma la lunga marcia dell’individuo e di come si afferma, a differenza della tradizione orientale che tende a porre l’accento sulla collettività. Questo non poteva che avere degli effetti in economia dove il sistema capitalistico ha sfruttato l’aspetto edonistico trasformando l’individuo in consumatore. Sganciato da una visione religiosa, diventato autonomo dalla collettività e libero dalla paura nei confronti del potere, l’individuo rimane solo e unico artefice della propria vita a cui deve dare un senso. Questo vuoto e’ stato riempito facilmente dalla ricerca del piacere immediato tramite il possesso di cose o la cura quasi ossessiva della propria persona posta al centro di ogni cosa: i selfie di Renzi non sono altro che il segno dei tempi. Questo ha prodotto un cambiamento culturale che ha reso le nostre società più egoiste. Solo una società animata dall’egoismo può far passare quasi inosservato la tragedia dei migranti nei nostri mari. Un’indifferenza che nasconde il compiacimento di queste morti che non hanno permesso di arrivare sulle nostre coste a prendere una parte dei beni che ci appartengono. Basta vedere le dichiarazioni di Salvini via Twitter sui barconi in difficoltà che mirano proprio a creare consenso pescando nel torbido di questi sentimenti.

Dichiarazioni di Salvini a parte, l’egoismo dilagante ha altri risvolti politici che modellano il dibattito politico e indirizza le politiche governative. Un maggiore egoismo cambia le richieste da parte dell’elettorato impattando le politiche dei governi e sul tipo di risposta che si propone agli elettori da parte della classe politica. Non a caso lo stato sociale é stato smantellato ovunque con la promessa di meno tasse. Le politiche neo liberiste si sono affermate grazie alla promessa di mettere più soldi nelle tasche dei singoli a scapito dei programmi sociali e dei servizi pubblici. Perché pagare sanità, sussidi di disoccupazione o la scuola a gente che non conosco quando posso usare questi soldi per me? Una volta che la società dei consumi crea e soddisfa nuovi bisogni, il liberismo si é affermato come la soluzione politica per aiutare a soddisfare questi bisogni levando risorse dal pubblico per darle al privato. Il declino della sinistra e delle lotte per una maggiore uguaglianza sono spiegabili anche grazie a questo cambio culturale che si sposa a perfezione con il neoliberismo che risulta meglio attrezzato da un punto di vista ideologico per interpretare questi cambiamenti.Chi meglio di qualunque altro ha riassunto al meglio questa fase e’ stata Margaret Thatcher con il suo famoso discorso sulla società:

“……la società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie. E il governo non può fare niente se non attraverso le persone, e le persone devono guardare per prime a sé stesse. È nostro dovere badare prima a noi stessi e poi badare anche ai nostri vicini.”

Naturalmente lo smantellamento dello stato sociale e la creazione di un sistema politico-economico che ignora gli ultimi poneva dei dubbi etici che sono stati dissipati dai mass media attraverso la criminalizzazione di chi accede ai programmi sociali (descritti come fannulloni), il continuo mettere in risalto gli abusi facendo passare l’idea che tutto il sistema sia marcio, la rappresentazione del pubblico come inefficiente (sanità pubblica verso sanità privata) e la promessa di dare opportunità a tutti attraverso un’economia non più frenata dalle tasse e dall’intervento pubblico dove il singolo può finalmente realizzare i propri sogni in base alle sue capacità. La classe politica ha visto uno spostamento a destra cercando di intercettare un elettorato sempre più sordo all’idea di una società più giusta. La sinistra tradizionale e i partiti cristiani hanno finito per adottare politiche neo liberiste in contrasto con le posizioni ideologiche di partenza per non essere travolti da questo cambiamento culturale.

Il maggiore egoismo ha aiutato l’affermazione delle politiche neo liberiste in altri modi oltre al cambio delle domande politiche da parte degli elettori. L’egoismo ha generato un ritiro dalla vita pubblica che ha portato a un maggiore astensionismo oltre alla crisi delle forme tradizionali di aggregazione (sindacati, partiti e chiesa in primis). Il materialismo consumista ha riempito la vita di tanti presentandosi come unica maniera per raggiungere la felicità e la realizzazione di se stessi. Una volta che tutte le energie sono rivolte verso l’accumulazione di beni, poco rimane da spendere per la cosa pubblica ormai vista anche come ostacolo alla propria felicità. Una volta che le forme di aggregazione all’interno della società sono sminuite, sara più difficile per la singola persona opporsi ai cambiamenti provenienti dall’alto. Le persone che mantengono alta la loro attenzione sulla vita pubblica si ritrovano presto isolati in una massa di consumatori che pone la propria attenzione su altro. Il contesto creato e’ quello di una competizione sfrenata tra individui (lavoro migliore, casa più bella, ultimo modello di cellulare etc) dove ognuno pensa a se e il resto delle persone sono viste come avversari da superare per arrivare alla propria realizzazione personale. Il concetto di “classe sociale” che evidenziava un’appartenenza comune e’ scomparso dai discorsi politici e dagli editoriali giornalistici. La solidarietà tra pari é scomparsa nell’illusione che il benessere personale può essere raggiunto solo individualmente e che il resto della società sia un ostacolo e non un risorsa per arrivarci insieme.

L’azione combinata  tra egoismo e neoliberismo ha generato una spirale che sottrae potere dalla sovranità popolare per trasferirlo ai mercati. Lo stato si riduce a regolare poche materie rinunciando a obbiettivi che avrebbero un impatto positivo sulla vita di tutti come la piena occupazione o una sanità più efficiente per tutti. Il crimine perfetto e’ poi completato grazie al tacito accordo della parte della popolazione che in teoria beneficerebbe di una società più equa. Siamo tutti convinti di fare a meno della protezione di uno stato sociale visto come rifugio dei perdenti e ostacolo per le persone intraprendenti. L’unico risultato e’ una società sempre più povera e ricca di illusione mentre un parte piccolissima diventa sempre più ricca .

Nel prossimo articolo vedremo come questo egoismo ha portato a una reazione diversa alla crisi e come la distorsione del concetto di individualismo spogliato dal sentimento di solidarietà mina in profondità le nostre democrazie

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